Il massimo poeta cubano vivente è in galera, condannato a vent'anni per aver "violato la legge di protezione dell'indipendenza nazionale e dell'economia". Ovvero, per essere un poeta al servizio della CIA.
Raul Ramonos Rivero Castaneda, alle soglie della sessantina, è considerato dalla comunità letteraria mondiale il più grande poeta vivente sull’isola di Cuba, dove è nato a Camaguey, nella provincia orientale, nel 1945. La sua storia è stata posta al centro dell'attenzione, in Italia, da un toccante articolo di Cristina Giudici, apparso su "Il Foglio" del 25 maggio scorso.
Raul Rivero è uno di quegli uomini legati alla propria terra più che a se stessi, e forse più che ai propri affetti. Dopo essersi laureato alla Escuela de Periodismo dell’Università dell’Avana, insegna giornalismo e milita attivamente nel Partito comunista cubano. Il suo impegno per la causa rivoluzionaria lo porta, nel 1975, a diventare corrispondente da Mosca per l’agenzia governativa Prensa Latina. Il rientro in patria viene segnato però da eventi drammatici che lo portano a concordare sempre più con le tesi della dissidenza cubana, fatto che, nel 1991, gli costa l'espulsione dal partito per "degrado morale". Non si arrende e nel 1995 fonda la prima agenzia di stampa indipendente quanto "virtuale", la Cubapress, il cui principio ispiratore è quello di "dire la verità" su ciò che accade "dentro Cuba".
Quando la sua posizione comincia a farsi davvero complicata, con la polizia sempre alle costole e con le squadre paramilitari che prendono ad attaccare la sua casa quasi ogni giorno, Raul Rivero, pur consapevole del fatto che la strada intrapresa lo sta portando dritto in una cella, sceglie di non seguire i suoi figli in esilio in Canada o a Miami: preferisce restare a Cuba, così come in passato aveva scelto di non ritirare i premi che gli avevano assegnato La Columbia University di New York e la Società interamericana di stampa, temendo che il governo castrista non gli avrebbe più permesso di rientrare.
Agli inizi di aprile Raul è stato infine condannato a 20 anni di carcere per aver violato la legge di protezione dell'indipendenza nazionale e dell'economia, ovvero per essere un poeta al soldo della CIA, che lo avrebbe comprato con "qualche bottiglia di whiskey invecchiato, pochi dollari e qualche pasto caldo", secondo la testimonianza di Nestor Balaguer, un giornalista ottantenne e spione, infiltrato dalla polizia castrista nell'agenzia stampa Cubapress. Le prove addotte dall'accusa sono state le "attrezzature tecniche" utilizzate per diffondere notizie antipatriottiche: registratori, macchine fotografiche, computer, persino una radiolina...
Raul Rivero è considerato il massimo poeta attualmente in attività a Cuba, per aver inventato uno stile letterario colloquiale, imprevedibile, sorpredente come quello di Guillermo Cabrera Infante, l'illustre autore di "Holy Smoke" e "Tres Tristes Tigres", che ha preferito però, alla galera cubana, l'esilio in Gran Bretagna, dove tuttora vive e lavora come critico cinematografico e scrittore.
Le poesie di Raul Rivero sono presenti in tutte le antologie scolastiche ibero-americane. Certo, Raul beve, forse è davvero un "borracho", ma la sua sola attività antipatriottica, se mai ne ha effettuata una, è stata quella di tracannare qualche volta del whiskey invece dell'altrettanto potente bevanda nazionale, il rhum. Raul beve, d'accordo, ma pensa e soprattutto scrive della sua gente in maniera semplice e diretta. Il vero problema è che Raul ha scelto di dire la verità, o comunque di dire anche quelle cose che possono non piacere al governo cubano. Ma Raul è un poeta che è stato incarcerato in seguito ad un processo che definire kafkiano sarebbe far troppo onore a quei giudici; che è stato condannato per il suo essere poeta e scrittore impegnato come lo furono, a loro tempo e in altri contesti, Garcia Lorca, Pablo Neruda, Pier Paolo Pasolini, Michail Bulgakov... Riguardo alla poesia Rivero ha scritto:
"Dopo tanti sospetti, dolori e donne che mi hanno lasciato, l’ho capito: per me è un rifugio. Un luogo di pace che mi aiuta a dimenticare una vita programmata da altri, che mi difende nei momenti più gravi. Ma poi mi riscuoto perché so che bisogna tornare nelle strade dell’Avana, dove ci sono centinaia di prigionieri politici, la propaganda da operetta ci assorda, la paura ci accompagna come un’ombra e ci aspetta un’altra giornata che assomiglia tanto ad una parolaccia".
Il nostro appello per ottenere la scarcerazione di Raul Rivero non è un'azione contro il popolo cubano ma una legittima richiesta al suo Governo affinché liberi uno dei suoi poeti più famosi al mondo. Le condizioni di salute di Rivero non sono buone e, dopo la recente condanna a morte di tre "balzeros", abbiamo ulteriori ragioni di temere per la sua vita. Intendiamo perciò raccogliere il maggior numero di adesioni al nostre appello e inviare formalmente la seguente richiesta di scarcerazione all'Ambasciata di Cuba in Italia. Ecco il testo dell'appello:
"All'Ill.mo Ambasciatore della Repubblica di Cuba in Italia
Eccellenza, il nostro affetto e la nostra ammirazione per il popolo cubano, per la sua splendida terra e per la sua storia, ci impongono il dovere morale di chiederLe di fare tutto quanto è in Suo potere per ottenere la liberazione di Raul Ramonos Rivero Castaneda, poeta, scrittore e giornalista attualmente detenuto nelle carceri cubane. La nostra richiesta non è schierata a fianco del potente, ma a fianco di un poeta che ama Cuba, la ama al punto da preferire il carcere e la povertà all'esilio spesso dorato di tanti altri. Siamo sicuri che la scarcerazione di un poeta ormai sessantenne non potrà nuocere alla Rivoluzione cubana, perché come il vostro eroe Martì ha insegnato al mondo: "Anche dal fondo di una grotta un principio giusto può più di un intero esercito". Così come, anche dal fondo di una cella, la poesia di un uomo può commuovere il mondo. Vi chiediamo perciò di liberare il poeta Raul Rivero.
Comitato promotore:
Lega Italiana per i Diritti Umani - GiornalistiinTrincea - The Harp of David"
harpofdavid@email.it; lidu-onlus@libero.it; GiornalistiinTrincea@iol.it;
oppure potete copiare il seguente testo (o scriverne uno di vostro pugno) e inviarlo direttamente all'indirizzo e-mail dell'Ambasciata di Cuba in Italia:
(diffondete la notizia presso le vostre Mailing List):
MISTERI DELLA RAGIONE
Confessioni di un ego-logista
La teoria dell'evoluzione liberal-democratica
Il libero pensiero è oggi più "rischioso" che "a rischio"?
di Carmine Monaco
Qualcuno si starà chiedendo: "Ego-logista? Forse intendeva scrivere "ecologista"..." Magari il vostro pensiero è corso subito a Giordano Bruno, al suo panteismo (il primo vero manifesto ecologista) e sarete curiosi di scoprire qual è il nesso tra l'ecologia, l'evoluzione liberal-democratica e il libero pensiero... Il fatto è che non ho sbagliato, era mia intenzione scrivere proprio "ego-logista". Tale è, secondo il nostro misterioso interlocutore, "qualsiasi essere umano che abbia imparato a posizionare correttamente il suo ego rispetto a se stesso e all'altro da sé, intendendo con ciò sia tutti gli esseri umani - di ogni tempo e luogo - sia l'intero Universo. L'ego-logista è colui che è arrivato a comprendere che l'altro da sé non esiste eppure esiste, e che bisogna tenerne conto".
Adam Logico è chiaramente uno pseudonimo
.D. Allora Adam, perché questo pseudonimo? Cosa teme? Non siamo più al tempo dei roghi per i portatori sani del libero pensiero.
R. Lei dice?! Sarà... Credo però che sia più giusto dire: "Non è più il tempo dei roghi per chi è portatore di quel libero pensiero che la parte violenta della società ha stabilito essere il solo e autentico libero pensiero!" Cos'è infatti, oggi, il libero pensiero? Secondo me, quello che ciascuno è libero di esprimere senza che ciò metta in pericolo la sua incolumità fisica, intellettuale e morale.
D. Non sono d'accordo: se così fosse, i martiri del libero pensiero, come Galileo Galilei, Giordano Bruno ed Etienne Dolet, proprio in virtù del fatto che nelle società in cui vivevano non erano liberi di pensare senza esporsi a pericoli, non sarebbero più, paradossalmente, "liberi pensatori".R. E chi dice che lo siano stati? Bruno era un filosofo, Galilei un astronomo e Dolet un tipografo-giornalista-poeta. Che siano stati dei liberi pensatori lo dice lei e tanti altri, ma cosa ne direbbero loro, i diretti interessati? Perché ci arroghiamo il diritto di definire gli altri e noi stessi?
D. Anche lei si autodefinisce il maggior ego-logista di tutti i tempi.
R. Certo: essendo tale neologismo opera mia, almeno per ora sono sicuramente l'unico e quindi il più grande ego-logista... E' ovvio che si fa per scherzo, anche se i grandi problemi di fondo rimangono inalterati e insoluti: "Qual è la vera libertà? Che libertà è quella che ti permette di fare tutto ciò che i poteri costituiti (più o meno legittimamente) hanno stabilito che tu possa fare? Cosa vuol dire "libero"? E che cos'è il pensiero? E - una volta definiti i concetti di "libero" e di "pensiero" - cos'è finalmente il libero pensiero? E ancora: esiste un pensiero che non sia libero? O al contrario, è mai esistito, esiste o esisterà mai qualcuno in grado di pensare liberamente?". Queste sono le cose che vorrei sapere...
D. Spero non da me...
R. Perché no? Vede, il punto (o meglio, uno dei tanti) è che la nostra società, oggi come ieri e certo come domani, tende a "divinizzare" i propri valori e i propri modelli di riferimento, anche quelli non strettamente necessari. Esattamente l'opposto di quanto fa un vero "libero pensatore". Tra le mostruosità più grandi prodotte dall'Illuminismo (e dal laicismo militante) vi è stata, a mio avviso, la Dea Ragione: quando la Ragione è stata fatta Dio, i "liberi pensatori" si sono autoproclamati suoi profeti, con risultati talora orribili che sfido chiunque a dimostrare "frutto della ragione".
D. Forse che non si può avere la fede ed essere liberi pensatori?!
R. Certo che si può, ma un conto è la radicale messa in discussione della divinità e un conto è divinizzare il processo mentale che permette all'uomo di comprendere una minima parte di ciò che lo circonda... Nessuna parola è, in Occidente, altrettanto esaltata quanto quella di "libertà". Eppure, tutt'oggi continuiamo a divinizzare (e perciò a sottometterci a) chiunque eserciti un seppur minimo fascino su di noi, dal terrorista esotico al filosofo da salotto buono al palestrato analfabeta che diventa divo del piccolo schermo, senza magari avere il benché minimo talento oltre la faccia tosta.
D. Visto come va il mondo, a che serve il libero pensiero, oggi? Cosa può fare, in concreto, il libero pensiero per contribuire a risolvere le grandi questioni odierne? Può servire, ad esempio, ad una riconciliazione tra Occidente e Islam?
R. All'inizio, quando i terroristi suicidi di Al-qaeda distrussero le Twin Towers, mi venne immediatamente da pensare, più che a Pearl Harbour, all'antico trucco del cavallo di Troia: un gruppo di assassini decisi a tutto, perfettamente mimetizzati nelle nostre metropoli, partendo dal nostro stesso territorio sono riusciti a mettere in ginocchio, per un consistente periodo di tempo, l'economia della superpotenza americana e del libero mercato mondiale. Ricordo di aver pensato: " E' l'inizio della fine della civiltà così come noi la conosciamo: l'Occidente e la democrazia non riusciranno a superare la prova e comincerà la più terrificante delle guerre mondiali". Poi ho capito che le cose stanno in maniera diversa: il vero scisma riguarda principalmente le società islamiche, come autorevoli commentatori, tra cui Carlo Panella, hanno osservato. Il conflitto interno a tali società è fortissimo, e sta alle nostre democrazie aiutare le componenti democratiche e progressiste islamiche a superare il momento drammatico. Solo che occorre farlo, primo, restando uniti e saldi nei nostri valori democratici, e secondo, usando lo strumento della comprensione delle altre culture, della storia e il rispetto delle differenti tradizioni, purché compatibili con i principi enunciati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ciò non vuol dire, quindi, accettare qualsiasi rivendicazione avanzata da gruppi di fanatici imbevuti di odio e violenza. Le organizzazioni terroristiche, i loro metodi e l'esempio che offrono al mondo, costituiscono il vero pericolo tanto per noi quanto per le stesse società islamiche: tollerare il terrorismo costituisce per noi una minaccia ancora più grave del terrorismo stesso. Pensare di poterlo estirpare unicamente con l'uso della forza, è un errore forse ancora più grave.
D. A mio avviso esiste, al di là di qualsiasi apparenza, una dialettica che unisce e oppone l'espansione religiosa islamica e la potenza delle libere società democratiche occidentali: ognuna si nutre di ciò che l'altra combatte e detesta. Ma ciò non spiega perché la crisi colpisce l'una e l'altra. In fin dei conti, la democrazia e il libero pensiero mi sembrano oggi soggetti "a rischio" anche dalle nostre parti.
R. Certamente. Il libero pensiero e la democrazia sono sempre fragili conquiste che bisogna difendere ogni istante della nostra vita! Come in amore, anche in politica non bisogna mai dare nulla per scontato o come acquisito definitivamente. Questo è un brutto periodo per i veri pacifisti, ovvero per coloro che cercano di conciliare le ragioni di tutti, di trovare dei compromessi per arrivare ad una vera pace e di contrastare l'utilizzo di qualsiasi forma di violenza, a cominciare dalla più ripugnante tra tutte: il terrorismo contro i civili inermi, come quello che colpisce da decenni il popolo israeliano.
D. Giordano Bruno fu perseguitato per aver rigettato sia il fanatismo religioso cattolico sia quello riformista (in De l'infinito, universo e mondi, n.d.r.), per dire che la vera religione è "quella della coesistenza pacifica delle religioni, fondata sull'unica regola del reciproco accordo e della libertà di discussione (in Spaccio della bestia trionfante, n.d.r.). La sua cosmogonia, le sue abiure, la sua filosofia della tolleranza lo portarono al rogo...
R. Per Galileo fu sufficiente la sua cosmogonia a condannarlo. E pensare che non era neppure un'idea sua! Solo che la visione eliocentrica e soprattutto l'estromissione della dottrina cattolica dal piano della verità assoluta/scientifica (Galileo affermava "insolentemente" che la Chiesa non doveva intromettersi in questioni scientifiche), minava alla base il potere di quella Chiesa cattolica che voleva essere tutto, in cielo come in terra.
D. Oggi, in alcuni ambienti sembra che la dottrina tolemaica sia rappresentata dall'antiamericanismo e dall'antisionismo ad oltranza, dottrine che paradossalmente prosperano proprio laddove ci si ritiene i principali (e unici) depositari della cultura democratica, pluralista e "multietnica"...
R.: In effetti, è così. E' difficile, oggi, dirsi amico del popolo americano o di quello israeliano in una qualsiasi riunione no-global, così come è difficile convincere alcuni tra i responsabili europei a proporre e a perseguire una politica di maggiore coesione tra gli Stati occidentali democratici: non ti manderanno al rogo ma a quel paese di certo sì, e secondo le giornate e l'ambiente si può rischiare un certo grado di isolamento, seppur tra sorrisini e ammiccamenti. C'è una tendenza masochistica a screditare tutto ciò che di buono hanno prodotto le civiltà europea ed americana, nell'ambito della resurrezione del più vetero e deleterio terzomondismo. In occidente ci autoaccusiamo spesso (scaricando la colpa in particolare sugli americani e sulle multinazionali) di essere la causa della povertà nel mondo. Ma ci siamo mai chiesti cosa sarebbe davvero dei poveri del mondo senza di noi? Ora, un conto è prendere atto dei nostri errori e delle nostre responsabilità e cercare di porvi rimedio e di escogitare soluzioni ai problemi, e un altro è distruggere tutto indiscriminatamente.
D. Voltaire diceva: "Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e datevene di nuove". Idea che costituisce un po' la malattia di certi movimenti...
R. Una malattia anche piuttosto grave, in alcuni casi, e che non può essere trascurata, come dimostra l'accrescersi degli episodi di violenza contro determinati gruppi "etcnici", religiosi, politici o sindacali; violenza che, va detto, non è stata finora sufficientemente stigmatizzata da tutta la cosiddetta società civile.
D. Perché una parte della nostra civiltà, e dunque una parte di noi, si odia?
R. Senza scomodare la psicologia, di cui non sono un conoscitore, secondo l'economista e filosofo liberale Hayek, esistono due idee di liberalismo (e di libertà) che traggono origine da due concezioni filosofiche diverse: la prima — quella anglosassone — poggia su una interpretazione evoluzionistica di tutti i fenomeni della cultura e dello spirito e sulla visione dei limitati poteri della ragione umana. La seconda si basa su ciò che è chiamato razionalismo "costruttivistico", una concezione che tende a considerare tutti i fenomeni culturali come il prodotto di un preciso disegno, nonché sulla fiducia che sia possibile e desiderabile ricostruire ogni istituzione storica, conformemente ad un piano determinato (naturalmente, da loro). La prima forma, rispetta la tradizione e riconosce che ogni conoscenza e ogni civiltà riposano sulla tradizione, mentre il secondo tipo la disprezza poiché ritiene che un ragionamento sia di per se stesso in grado di esprimere una civiltà. Mi sembra troppo per un semplice ragionamento, al punto che lo definirei "razionalismo presuntuoso". Da notare che tra i presuntuosi non vi sono mai eroi...
D. I liberi pensatori sono necessariamente eroi?
R. Nient'affatto. Anche se gli eroi ci sono sempre e servono ancora, altroché! Sono eroici quegli studenti iraniani che si oppongono ad un regime oscurantista e medioevale, e lo sono, per fare un esempio a noi più vicino, tutti quegli italiani con cui mi capita di parlare ogni giorno e che mi raccontano i loro problemi (lo pseudonimo mi tutelerà dall'accusa di voler fare propaganda pre- o post-elettorale). C'è gente che non riesce più a pagare il premio assicurativo della propria vecchia auto, che non riesce a pagarsi il dentista e neppure a mettere il vino a tavola perché costa troppo, che non compra più il pezzo di parmigiano da tenere in frigo, che viene stritolata dalle bollette sempre più salate, che mangia frutta e verdure schifose pagate a carissimo prezzo dallo stesso rivenditore di cui si è servita per anni. Cose che succedono non solo ai senza lavoro, ma anche alle famiglie dove si percepisce un reddito che ormai non basta più. Il rincaro di tutti i prezzi e la diminuzione della liquidità nelle famiglie italiane sta portando all'invelenirsi dei rapporti sociali. Di fronte a tutto ciò dobbiamo sentirci umiliati e responsabili come uomini e come politici. E, in tutto questo, sembra che alcuni miei colleghi parlamentari non abbiano altro problema all'infuori di "Lei-sai-chi!" e del conflitto arabo-israeliano.
D. Chissà quanto successo e quante adesioni incontrerebbe una sottoscrizione mirata a raccogliere fondi per i poveri e i disoccupati di una qualunque città meridionale...
R. Forse il problema è proprio questo... Sa, penso seriamente che, se dovesse davvero scoppiare la pace in Medio Oriente, molte persone non saprebbero più come riempire le piazze e le sale. Spero di sbagliarmi. Del resto, argomenti più concreti e vicini alla nostra vita quotidiana ce ne sono a bizzeffe.
D. Vorrei avviarci alla conclusione della nostra conversazione con una domanda molto pratica, che riguarda la vita quotidiana di ciascuno. Tanti giornali in questo periodo parlano di "deflazione", ovvero del crollo dei prezzi, presentato come una tragedia più grave dell'inflazione. Lei che è anche un'economista, cosa ne pensa?
R. E' vero, la deflazione è un pericolo molto più serio dell'inflazione. Ma il problema è che tanti parlano di deflazione e nessuno dice che questa - ammesso che esista - è, nel nostro caso, la logica conseguenza dell'aver depredato, nel corso degli ultimi dieci anni, il potere d'acquisto delle famiglie, diminuendo, ad esempio, sempre più l'assistenza sanitaria e facendo ricadere sui cittadini più disagiati la spesa medica e farmaceutica, oppure riducendo le pensioni e, di conseguenza, l'aiuto per il formarsi delle nuove famiglie che molti, anche tra i genitori meno abbienti, hanno potuto dare, in passato, alle giovani coppie; o ancora, pagando sempre meno i lavoratori e inficiando sempre più le loro garanzie, disincentivando il lavoro e l'impresa. In altri settori non va meglio: abbiamo ad esempio il problema delle assicurazioni che salassano i loro clienti tra l'indifferenza generale e, peggio ancora, dell'antitrust; ancora, in alcuni casi abbiamo avuto delle false liberalizzazioni del mercato che hanno invece condotto a concentrazioni, oligopoli, quando non a degli autentici cartelli, che invece di farsi concorrenza si spartiscono il mercato a danno dei consumatori, e così via. E l'attuale governo di centrodestra non è più colpevole di altri di centrosinistra.
D. Ho la sensazione che abbiamo assistito inermi all'opera di un gruppo di ubriachi "di potere" che ha scavato una serie di buche (molto poco keynesiane) davanti al Pronto Soccorso di un ospedale e ora che le ambulanze non riescono ad entrare, danno la colpa alle voragini invece che darla a se stessi per averle scavate.
R. Infatti è così: a che serve contenere l'inflazione con lacrime e sangue (specie altrui), se poi l'economia si ferma perché i consumatori non hanno più denaro in tasca? E comunque, non so se le ciliegie a 12 Euro al chilo, le fragole mai al di sotto dei 3 o 4 euro, dei finocchi venduti a 1,50 euro cadauno, ecc., siano indicativi di una "deflazione". Mi dicono che il mercato immobiliare sta scendendo? E' ovvio: con quali garanzie una famiglia può oggi accendere un mutuo e con quali soldi può pagarlo? E poi, è normale che, in una situazione di crisi generale, i prezzi scendano un tantino, visto che un metro quadrato ha raggiunto, in qualsiasi centro cittadino d'Italia, prezzi assolutamente ingiustificati.
D. Non le sembra un po' giornalistica, o meglio, semplicistica quest'analisi, specie se proposta da un'economista?
R. Non è semplicistica ma semplice. Non lasciatevi ingannare dai paroloni: soprattutto in economia la verità è semplice perché si basa comunque sui principi elementari delle quattro operazioni. Lo Stato dovrebbe svolgere la funzione alla quale è chiamato, ossia armonizzare le azioni umane finalizzate ad addizionare, sottrarre, moltiplicare e dividere le ricchezze disponibili, mettendo ciascuno nella condizione di vivere almeno dignitosamente. Altro non può e non deve fare. L'ansia di accumulare e di favorire la competizione tra giganti, ha portato invece alla concentrazione dei capitali nelle mani di pochi e ad un autentico sfacelo sociale e morale: se ce n'è una, questa è la causa vera della deflazione. Ora è giunto il momento di allentare i cordoni della borsa, ed in questo senso va, FINALMENTE!, la decisione di Duisenberg e della BCE di tagliare il costo del denaro al 2%. Ma non basta: bisogna restituire potere d'acquisto, ma soprattutto fiducia e dignità alla gente, rendere reali i servizi ai cittadini e i diritti essenziali garantiti dalle Costituzioni europee, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. La vera "battaglia di civiltà" sta, a mio avviso, oltre che nelle grandi lotte per la globalizzazione dei diritti umani, per la democrazia e la vera pace nel mondo (tutt'altra cosa rispetto ai tipici preconcetti di certi professionisti del pacifismo), anche nella continua battaglia per la sempre migliore qualità della vita, del lavoro e dei beni prodotti. Bisogna riprendere a cuore anche quei concetti essenziali quali lo sviluppo eco-sostenibile e il controllo delle nascite, come pure occorre provare a resuscitare i morti per eccellenza dell'11 settembre: ossia il concetto di "villaggio globale" e la ricerca delle fonti energetiche alternative.
D. Cosa c'era che non andava nell'idea di villaggio globale?
R. Nella mia idea, credo nulla. Del resto, ho sempre chiesto ai miei interlocutori che si opponevano all'idea di villaggio globale, in che modo il fatto di essere tutti più vicini e di condividere, ad esempio, i valori universali e fondamentali dei diritti dell'uomo, può essere considerato causa della perdita della propria identità culturale o etnica. Se poi il problema è perdere la preziosa eredità culturale che permette ad alcuni "uomini" di seppellire una donna fino al busto e farle scoppiare la testa a sassate, oppure di bruciarla (viva) sulla pira che incenerisce il marito (morto), allora chiedo scusa, ma ero, sono e rimarrò un sì-global! Ripeto, sono convinto del fatto che globalizzare i diritti umani, compresi quelli economici, costituisce l'unico modo legale per ridurre lo strapotere di chi è troppo ricco ed ha troppo potere, sia questo politico, economico, militare, ecc.. E comunque, ogni altro metodo all'infuori della concertazione e della civile e pacifica lotta politica è inaccettabile.
D. Quali sono i luoghi comuni più diffusi circa il libero pensiero e perché questi toccano il grande pubblico e spesso anche gli addetti ai lavori?
R. Uno dei principali è purtroppo quello del "martirismo": alle ideologie servono i martiri, per avere la possibilità di gettare qualche cadavere sul tavolo delle trattative. Anche i militanti laici ne fanno buon uso, creando i propri santi e vendendoli come un qualsiasi altro prodotto. Rievocare, ad esempio, le terribili ingiustizie fatte a Galilei, a Bruno e a Dolet per evidenziare il ruolo nefasto della Chiesa, sminuisce proprio l'opera di quei grandi pensatori, opera che peraltro quasi nessuno conosce. Eppure, il nostro è un tempo particolare in cui bisogna "scegliere di scegliere", anche a costo di rischiare i "roghi" morali... (perciò credo che il mio pseudonimo non durerà a lungo, anche se, più che uno pseudonimo, mi piace pensarlo come un nome di battaglia).
D. Ma non avevamo detto che il libero pensiero è quello che ciascuno è libero di esprimere senza mettere in pericolo la propria incolumità, ecc.?
R. Se non l'avessi detto non avremmo cominciato a discutere: in altri tempi e in altre sedi l'avremmo definita una "provocazione". Però i diritti umani e la democrazia non sono semplici opinioni e, mentre la maggior parte di noi siede comodamente a casa godendo delle lotte e dei sacrifici fatti dai nostri padri e dai nostri nonni, le cose si vanno complicando e i pericoli concreti, interni ed esterni, non vanno mai sottovalutati. Bisogna reagire ora, ciascuno in base alle sue capacità, perché così come Bruno fu un filosofo, Galilei il fondatore della fisica moderna (sostenuto peraltro da una parte della Chiesa e della "opinione pubblica" di allora) e Dolet un poeta, ciascuno di noi oggi può usare liberamente il suo talento per il bene di tutti (o almeno può provarci), fatto che per ora costituisce uno degli aspetti migliori della nostra società e che non va dimenticato.
D. Cos'è oggi il libero pensiero?
R. Il libero pensiero è ancora molto, ma molto lontano dall'essere conosciuto. O, almeno, confesso di non sapere bene cosa sia. Posso semmai proporre un esercizio di quello che "a me sembra essere" il libero pensiero, un esercizio al quale sto lavorando da circa tre anni a questa parte, da quando, cioè, ho dovuto prendere atto di un lato nemmeno poi tanto nascosto del mio partito. Premetto che penso seriamente che l'Italia e l'Europa abbiano bisogno di evolversi in senso liberal-democratico, prestando particolare attenzione alle grandi tematiche sociali. Penso perciò ad un partito di laici non militanti, capaci di dialogare con tutti perché magari hanno una fede ma non la impongono ad altri. Un partito di centro, in grado di armonizzare le legittime richieste di tutte le forze componenti la nostra società... Poi mi ricordo che siamo in un sistema bipolare che comincia a manifestare i suoi difetti; che abbiamo introdotto il sistema maggioritario per ottenere una maggiore governabilità del Paese, spesso ostaggio di piccoli gruppi di interesse, ed il risultato è stato che ora entrambi i poli sono ostaggio delle minoranze più estremiste. Di certo so che questo non è un bene, tanto più che la maggioranza del paese esprime un voto che possiamo definire di centro moderato. L'esercizio è, pertanto, immaginare quale tragedia è necessario che accada, prima che si decida di tornare al proporzionale (magari apportandovi le necessarie modifiche), e fare di tutto per "impedirla"; al tempo stesso, occorre trovare delle soluzioni per tornare ad un clima di serenità istituzionale e politica che possa finalmente porre le basi per una ripresa.
D. Come a dire "la botte piena e la moglie ubriaca".
R. No, come a dire "la botte mezza piena e la moglie piuttosto allegra".
D. Che spazio c'è per la laicità non militante in un'Europa che lotta su e/o per il riconoscimento delle proprie radici "cristiane" o "giudaico-cristiane", a seconda dei sostenitori?
R. La laicità moderna è in crisi e ciò appare evidente anche nell'ambito della costruzione europea, un progetto che appare sempre più vicino ma come separato dalla vita quotidiana di ciascuno da un grosso vetro antisfondamento, mentre il libero pensiero ci appare quasi come un reperto archeologico. Il problema è unire conservando la ricchezza delle diversità (politiche, religiose e laiche), ma il diritto a trovare una soluzione sembrano esserselo arrogato dei tecnici. E gli altri?
D. Occorre per caso una nuova filosofia, una nuova lucida visione che integri la futura concezione dell'Europa?
R. Non è certo con i compromessi tra le varie identità che si salverà la situazione, o meglio, non solo... Tutti i paesi d'Europa subiscono o accolgono diverse ondate di immigrazione, che sarà bene integrare per innumerevoli ragioni, anche se a determinate condizioni, cioè a patto che i nuovi cittadini rispettino le nostre leggi le quali vogliamo sempre più conformi alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Mi sembra più urgente decidere ora cosa fare per i prossimi vent'anni, arco di tempo in cui la popolazione mondiale sarà praticamente raddoppiata, mentre quella europea rimarrà pressoché invariata grazie al tasso di natalità zero. E' vero che, ad esempio, la religione dei nuovi venuti è piuttosto estranea alla nostra cultura, ma io sono ancora più preoccupato per la visione laica, per il libero pensiero: in che modo il nostro modello di vita potrà sopravvivere quando gli islamici in Europa passeranno dagli attuali 30 milioni agli 80, forse 100 milioni previsti da alcuni per il 2020 o tutt'al più entro il 2030? Quale sarebbe, ad esempio, il futuro ruolo delle donne europee di religione islamica all'interno della loro famiglia e della società europea se si decidesse di accordare un particolare status alle comunità islamiche europee? Non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia e far finta di non sapere che le componenti democratiche nell'Islam sono ridotte allo stremo e che l'unico esempio di stato laico offertoci è quello turco e anche questo è soggetto alle spinte degli integralisti.
D. Così come non si può ignorare che la visione più tollerante ed ecumenica dell'Islam è quella dei musulmani ismailiti, guidati dal diretto discendente del profeta Muhammad e del suo genero Ali, il principe Karim Aga Khan, noto in Italia come il creatore della Costa Smeralda.
R. Però gli ismailiti sono perseguitati perché sono tutto l’opposto dei fondamentalisti: sono più cosmopoliti e tolleranti, del Corano vivono lo spirito più che la lettera, i loro riti sono sobri e uomini e donne pregano assieme. Tutte cose inaccettabili per Ibn Tammiya, un maestro sunnita del XIV secolo dei cui insegnamenti oggi si fanno forti i fondamentalisti, compreso Osama Bin Laden.
D. Un'ultima domanda: chi è, oggi, un liberale?
R. Guardi, porto sempre con me questo pensiero di Antonio Martino, che definisce liberale, "oggi come ieri, chi crede nell’importanza della libertà individuale; chi è convinto che, senza libertà individuale, il progresso sia impossibile. Il vero liberale, quindi, deve saper essere conservatore, per difendere le libertà esistenti; radicale, quando la conquista di nuove libertà richieda modificazioni profonde della società; "reazionario", quando sia necessario recuperare libertà che sono andate perdute; persino rivoluzionario, quando la conquista della libertà sia impossibile in assenza di una rivoluzione; progressista sempre, perché senza libertà non c’è mai progresso. Tutto ciò può facilmente essere sintetizzato col dire che il liberale vero non è, a priori, "di destra" o "di sinistra": tutte le etichette politiche gli vanno strette; il liberale vero è chi si preoccupa della libertà individuale ed è, quindi, favorevole a tutte le decisioni che allargano lo spazio della libertà, e contrario alle altre. Il liberale sa che il pericolo maggiore per la libertà è rappresentato dal potere eccessivo ed arbitrario del governo, ed è quindi scettico nei confronti di tutte le decisioni che allargano l’ambito di intervento pubblico, anche in una democrazia". E' chiaro che ne condivido quasi ogni sillaba... anzi, aggiungerei che liberale è colui che combatte ogni forma di squadrismo. Tanti temevano o fingevano di temere una svolta autoritaria in Italia, e infatti sulle piazze si tornano a vedere organizzazioni che utilizzano metodi simili a quelli degli squadristi, che preparano cioè azioni violente studiate a tavolino, e che con la "violenza creativa" impediscono agli oratori non graditi di esprimere il loro pensiero e così via, ma stranamente non fanno parte della formazione politica a cui si attribuivano intenzioni e programmi autoritari e non indossano, tranne i Black Block, delle divise nere: ne sfoggiano, anzi, di molto colorate.
D. Un consiglio ai giovani?
R. Attenti ai battitori di moneta falsa.
* * *I Lettori che lo desiderano potranno rivolgere le loro domande a Adam Logico inviandole al nostro indirizzo e-mail: harpofdavid@email.it
PER FARSI UN'IDEA
Destini incrociati
Europa e Stati Uniti. 1900 - 2003
di Alessandro Galante
"L'America di Bush del dopo 11 settembre è un'America diversa da quella che gli europei hanno conosciuto nel decennio post-bellico e nella breve epoca kennedyana, ma è diversa anche dall'America di Nixon e di Kissinger. Con Bush la destra repubblicana, che era arrivata al potere negli anni Ottanta con le due presidenze Reagan, ritorna alla Casa Bianca dopo i due mandati del democratico Clinton. [...] Tra i paesi europei solo la Francia ha seguito criticamente l'evoluzione della politica americana, mentre nel resto dell'Europa le critiche alla politica di Washington vengono troppo spesso bloccate con l'accusa di antiamericanismo. Ma se l'America ha preso coscientemente le distanze dall'Europa nella formulazione delle sue politiche anche l'Europa ha perso il contatto con le realtà di un mondo ostile che l'America andava denunciando, con il risultato che essendo mancati un utile dibattito, un confronto di idee e una verifica, i due alleati si scoprono oggi su posizioni diverse e lontane. In particolare l'Europa per la sua tendenza a relativizzare ogni cosa si scopre oggi impreparata a confrontarsi con una ideologia radicale, come quella che annuncia l'inizio di un'epoca di conflittualità e che rivaluta le soluzioni militari rispetto a quelle politiche. [...] In effetti la valutazione della minaccia costituita dal terrorismo e la stessa visione del mondo tra le due sponde dell'Atlantico si sono profondamente differenziate negli ultimi anni. Gli americani sotto il trauma dell'11 settembre drammatizzano la prima, gli europei la sottovalutano". (Giuseppe Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Laterza 2003, p. 279 ss.).
Il libro di Giuseppe Mammarella offre, per numerosi aspetti, una buona ricostruzione dei rapporti tra Europa e Stati Uniti, dagli inizi del Novecento a oggi, illustrando quanto accaduto tra le due sponde dell'Atlantico in maniera per lo più equilibrata e chiara. E' vero innanzi tutto l'assunto di base che "la storia dei rapporti politici, economici e culturali tra Europa e Stati Uniti costituisce una parte fondamentale della storia del XX secolo", così come è vero che "se il conflitto contro il nazismo e il fascismo prima e la guerra fredda poi non è immaginabile a prescindere da quei rapporti, dalle affinità ideologiche e dai comuni interessi economici, anche grandi fenomeni del nostro tempo come la decolonizzazione, la globalizzazione, la secolarizzazione dei valori e dei comportamenti, per non parlare che di fenomeni politici e sociali, trascurando scienza e tecnologia, sono anch'essi strettamente legati alla vicenda euro-americana". E' ancora vero che un grave difetto delle opere storiche riguardanti tale vicenda è quello di limitarsi quasi tutte agli ultimi cinquant'anni, ignorando le relazioni precedenti, che vanno ben al di là, se si vuole, del XX secolo.
Ciò che personalmente non condivido è l'espressione: "E' pur vero che la partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra mondiale fu episodica mentre il ruolo giocato nella seconda è stato parte di un grande disegno egemonico che si è prolungato durante tutta la seconda metà del secolo, mirando a confermarsi in quello attuale [...]".
Mi sembra che qui si dimentichi che il ruolo politico e militare nonché il peso economico delle potenze imperialiste europee agli inizi del Novecento era sicuramente superiore a quello di qualsiasi altra nazione, compresi gli Stati Uniti. Il problema era che tali potenze (innanzi tutto la Francia, la Gran Bretagna e la la Russia, ma anche la Spagna, la Germania e poi, in misura ridotta, l'Italia) erano in disaccordo tra loro, quando non in aperto conflitto. Sostenere che il ruolo giocato dagli USA nella seconda guerra mondiale facesse parte di un grande disegno egemonico americano è non solo storicamente errato, ma anche riduttivo delle responsabilità tutte europee per il secondo conflitto mondiale (così come per il primo). Certo, gli USA hanno tratto un chiaro vantaggio dalla fine degli imperi coloniali europei, ma ciò è stato frutto più dell'idiozia, della follia e dell'ignavia di tanti statisti e dittatori europei, che di un disegno egemonico americano. Certo, Adolf Hitler e Benito Mussolini non erano agenti dei servizi segreti americani, o sbaglio?
A parte questo, il testo è ben strutturato, molto interessante e denso di informazioni utilissime alla comprensione della storia del XX secolo; soprattutto di quanto sia necessario, oggi più che mai, superare gli imbarazzi del momento attuale e pensare a rinsaldare i rapporti euro-americani e la Nato.
CINEMA
Un film sull'amore e sulla guerra, fatto con amore e in tempi di guerra, con poco denaro e tantissimo talento
di Alice Arlanei
Ho avuto la grande fortuna di vedere "Yossi e Jagger" prima di leggerne le recensioni. Del resto, chi li conosceva già non aveva bisogno di leggere quella di Ari Shavit, intitolata "Yossi, Jagger e la guerra che verrà" (Ha'aretz, 19.09.02) per immaginare che Avner Berenheimer e Eytan Fox "non avevano intenzione di fare un film patriottico", e che, al contrario, "volevano fare un film con un che di sovversivo sull'amore fra uomini in uniforme". Non sono però d'accordo con Shavit sul fatto che i due ribelli del cinema israeliano abbiano creato questa "pellicola molto umana [...] in modo del tutto non intenzionale". Il film è stato prodotto con pochi soldi, quasi come un film per la tv: dura 65 minuti, è vero, ma "è" un grande film, al di là dei dialoghi, della regia a volte esitante, dello stile narrativo asciutto, essenziale. Il film non propone un messaggio ma "narra" degli effetti della politica del loro e degli altri paesi del mondo sulla vita quotidiana dei ragazzi israeliani, anche se non commenta la storia con "profondità filosofica". Inoltre, non ha bisogno di pronunciare neanche una parola giudaica o sionista per l'intera durata del film, proprio perché "racconta solo un piccolo episodio che avviene in un remoto avamposto di confine israeliano sommerso dalla neve". Allo stesso modo, non ha bisogno di espedienti narrativi perché "Yossi e Jagger" - e in questo concordo con Ari Shavit - è "una storia autentica sulla vita e la morte dei giovani israeliani di oggi".
I due protagonisti, due ufficiali dell'esercito israeliano, vivono una storia d'amore omosessuale, che non impedisce a Yossi di comandare con autorità la sua compagnia, e all'affascinante Jagger, il suo amante, di comandare il suo plotone. Ma i due registi-autori raggiungono interessanti risultati nel tratteggio delle storie di "sfondo", che narrano di uomini e donne che indossano una divisa cercando di non dimenticare la loro vita da civili: così abbiamo il soldato che, nonostante l'orrore che li circonda, coltiva la spiritualità tibetana, il cuoco che rimedia un "fantastico 'sushi' utilizzando la sbobba dell'esercito", e altri personaggi che ci sono più familiari, come "l'ottuso e grezzo comandante di battaglione", oppure la "donna soldato affascinante e di facili costumi" o quella invece estremamente romantica.
Ciò che accomuna l'intero gruppo di ventenni israeliani è l'ardente amore per la vita, di quella stessa vita che rischiano ogni notte per difendere la loro patria. Oltre a ciò, concordo pienamente con tutto quanto resta della recensione di Ari Shavit, che riproduco di seguito per il piacere dei lettori. E non dimenticate: la visione di "Yossi e Jagger" nuoce gravemente ai pregiudizi!
"I creatori di "Yossi e Jagger" sono di sinistra. Nelle loro vite private sono contrari alla occupazione, alla guerra, alla destra e ai religiosi. Quando decisero di fare un film apolitico sugli amori e il comportamento e i desideri dei soldati israeliani in avamposti isolati, la dinamica del film si dimostrò più forte di loro. Essa presenta un ritratto toccante di una società liberal che si è sviluppata nel corso degli ultimi vent'anni. Una società che ancora fa fatica a definirsi e a raccontare la propria storia. Una società che, contrariamente a tutte le immagini, è democratica fino al midollo. Una società che e' realmente caratterizzata non dal messianesimo o dall'arte, ma da un'affascinante e blasfema combinazione di edonismo, liberalismo spontaneo e spirito libero.
Le Forze di Difesa Israeliane hanno deciso di non cooperare con i produttori di "Yossi e Jagger". Una decisione comprensibile, ma sbagliata. La cinepresa di Eytan Fox fa qualcosa di raro e coraggioso: si innamora dei combattenti israeliani del 2002. Da' loro un affetto che ne' la comunità internazionale, ne' la leadership nazionale, ne' l'élite intellettuale locale sono capaci di dare. E mentre mette a nudo la goffaggine, e l'immaturità e la vulnerabilità degli israeliani della nuova generazione, li stringe anche in un abbraccio.
Ecco perché la giovane audience affluisce copiosa alla proiezioni serali alla Cinematheque di Tel Aviv. Ecco perché i soldati della Brigata Givati chiedono di vedere il film prima di andare a Gaza a combattere. Così possono sedere al buio e ridere con Yossi e Jagger, e amare con Yossi e Jagger, e gemere dal dolore con loro. Perché Yossi e Jagger e Adams e Yaniy e Goldi e Yaeli sono tutti noi. Sono ciò che ha preso forma qui nell'ultima generazione: una democrazia sotto assedio; una società aperta, isolata in un oceano di dittatori. L'unico posto nel Medio Oriente dove uomini possono amare uomini e donne possono amare donne, e dove gli individui e i disadattati e le minoranze hanno dei diritti.
Una nuova guerra probabilmente avrà luogo, qui, nei prossimi mesi. Abbiamo retto alla guerra degli ultimi due anni senza che Israele abbia messo insieme una narrativa definita in grado di dare senso, senza aver deciso se questa guerra è una guerra di occupanti contro occupati, o una guerra di ebrei assediati. Prima della prossima guerra, comunque, dovremo definire le cose in modo più preciso. Bisognerà capire che questa volta il test non lascia vie di scampo: l'edonismo democratico di Yossi e Jagger e dei loro amici e delle loro famiglie sarà in grado di difendere il proprio mondo? La società aperta israeliana sarà capace di affrontare i suoi nemici?" (HA'aretz, 19.09.02)