Joel Leyden (trad. di Chayiah Liv), Fonti palestinesi finalmente confermano: non vi fu "massacro" a Jenin
Primi risultati della Road Map?
FONTI PALESTINESI FINALMENTE CONFERMANO: NON VI FU "MASSACRO" A JENIN
Dopo anni di accuse infamanti e calunnie ai danni dell'IDF, qualche barlume di verità si fa largo anche tra le "attendibili fonti palestinesi". Il cambiamento di versione getta lo scompiglio tra certa stampa nostrana: rettificheranno e faranno finta di nulla?
di Joel Leyden, Jerusalem Post, 14 luglio 2003 (trad. di Chayiah Liv)
In uno studio che sarà diffuso il mese prossimo dal Centro per gli Affari Pubblici di Gerusalemme e dato in esclusiva al Jerusalem Post, fonti palestinesi confermano che almeno 34 militanti palestinesi furono uccisi combattendo nella battaglia per il Campo Profughi di Jenin. La battaglia si svolse tra il 4 e l’ 11 aprile 2002.
La ricerca, condotta da Jonathan D.
HaLevi e dal JCPA (Centro per gli Affari Pubblici di Gerusaleme) sulla base di
una vasta gamma di testimonianze
palestinesi scritte e di materiale che è stato recentemente pubblicato su
giornali, libri e siti palestinesi, rivela per la prima volta che le
organizzazioni terroristiche
palestinesi si considerarono combattenti armati e non civili morti in un
orribile massacro.
Lo studio di 35 pagine, basato su fonti originali, illustra chiaramente
che Fatah, la Jihad islamica ed Hamas si sono preparati fin dall’inizio con armi
automatiche, granate, missili
anti-carro ed esplosivi e che hanno considerato il confronto con le truppe dell’
IDF nient’ altro che “una battaglia di militari contro
militari”.
Lo studio confuta le dichiarazioni
fatte allora dai capi dell’ AP che le forze dell’Esercito Israeliano stessero
attaccando civili innocenti e che gli unici palestinesi a morire nella battaglia
di Jenin fossero uomini, donne e bambini palestinesi innocenti e
disarmati.
“Lo studio contraddice direttamente le
accuse infondate fatte dai capi palestinesi, incluso Saeb Erekat, secondo cui
Israele a Jenin avrebbe massacrato 500 palestinesi”, ha detto il precedente
ambasciatore delle NU e direttore del JCPA Dore Gold. Intanto “Quella
appariscente menzogna si è diffusa dagli schermi della CNN al Consiglio di sicurezza delle
NU.”
Tra le altre rivelazioni illustrate
dallo studio, c’è un luogo per
operazioni militari congiunte costituito da Fatah, Hamas e la Jihad in preparazione della battaglia di
Jenin. Oltre a ciò, la ricerca indica che Fatah, la Jihad
islamica ed Hamas avevano creato insieme le attrezzature per la fabbricazione di
bombe in Jenin, che produssero oltre due tonnellate di
esplosivi.
Il documento del JCPA dichiara che i
civili erano intenzionalmente usati come scudi umani e che donne e bambini erano
usati da Fatah, Hamas e dalla Jihad islamica per sviare le truppe dell’Esercito
Israeliano dirigendole verso aree
in cui erano pronte trappole e imboscate. Il Campo Profughi
di Jenin era allestito come una “fortezza rinforzata” in cui si
erano riuniti per la battaglia circa 200 terroristi palestinesi , afferma la
ricerca del JCPA.
Israele fu prosciolto dalle accuse di
avere commesso il massacro nel Campo Profughi di Jenin in un rapporto approvato
dalle NU l’anno scorso. Il rapporto di 42 pagine, metà del
quale era costituito da proposte di
rappresentanti arabi che tentavano di provare che le azioni di Israele a Jenin
costituissero crimini di guerra, criticava anche i “militanti” palestinesi per
avere operato all’interno dei Campi Profughi e definiva i loro metodi come
“violazioni della legge internazionale, che sono state e continuano ad essere
condannate dalle Nazioni Unite”.
Il rapporto fu consegnato al
Segretario Generale delle NU Kofi Annan più di due mesi dopo l’approvazione da
parte dell’Assemblea Generale di una risoluzione con le richieste di documentazione su ciò che era accaduto
nel campo di Jenin e in altre città della Riva Occidentale durante l’operazione
militare per estirpare il terrorismo.
Nel maggio 2002, la Conferenza dei
Presidenti delle principali Organizzazioni Ebraiche Americane presentò ad Annan
un rapporto di 150 pagine e la Lega
Anti-Diffamazione presentò un rapporto più breve che confutava le accuse che ci
fosse stato un massacro a Jenin.
“Il mito del massacro a Jenin fu il
“gioiello della corona” di un sofisticato lavoro per delegittimare lo Stato di
Israele”, disse Gold. (JP)
L’articolo in inglese può essere letto qui:
http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost/A/JPArticle/ShowFull&c
id=1058153633747
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di Carmine Monaco
LA SINISTRA EUROPEA DEVE CAPIRE LA SVOLTA DI SHARON E TOGLIERE IL SIMBOLO ARAFAT DALLE PROPRIE BANDIERE
On. Giuseppe Caldarola, "Il Riformista", 21 Luglio 2003
Il prossimo viaggio americano di Abu Mazen dovrà confermare al nuovo leader palestinese il conforto dell’appoggio Usa. Questo viaggio è una tappa fondamentale, ma non decisiva, nel nuovo, incerto percorso di pace. Israele ha aperto una linea di credito a vantaggio di Abu Mazen e gli israeliani non nascondono di investire anche su un altro leader palestinese, Marwan Barghouti, che pure detengono nelle loro carceri.
Mai come ora la scelta fra pace e guerra è nelle mani dei palestinesi. Il leader israeliano Ariel Sharon sembra aver imboccato la strada della trattativa dopo un lungo, doloroso periodo di contrasto armato di quella Seconda Intifada che ha stremato i palestinesi e dato vita alla terribile stagione degli attentatori suicidi le cui vittime l’Occidente farebbe bene a ricordare almeno con la stessa giustificata passione che mette nei confronti del dolore dei palestinesi.
Ariel Sharon è un uomo della destra, con un passato discusso e discutibile, che cerca ora di mimare il tragitto dei generali israeliani, ultimi i laburisti Rabin e Barak, che, forti di una ineccepibile biografia militare al servizio dello Stato ebraico, hanno cercato di spendere il loro prestigio sul terreno della politica e della trattativa. Ciò è tanto più significativo in quanto l’approdo alla logica della trattativa non era così scontato viste le posizioni e i gesti anche recenti di Ariel Sharon. Tuttavia si fa strada l’impressione, che la sinistra europea e italiana fa male a sottovalutare o a guardare con eccessiva diffidenza, che il capo della destra, attuale capo del governo di Gerusalemme, abbia messo al centro dei propri obiettivi il raggiungimento di un accordo con i palestinesi. La determinazione di Sharon nell’azione di contrasto militare contro la terribile Seconda Intifada non può far velo su un suo progressivo spostarsi verso posizioni più ragionevoli, e politicamente di centro, riguardo la possibilità di una trattativa che comprenda anche importanti concessioni da parte di Israele.
Il tema è Arafat. La persona e il simbolo. E’ comprensibile che europei e americani, questi ultimi un po’ meno impegnati in verità, tengano a cuore l’autorità e la dignità del soggetto palestinese che deve sedersi al tavolo della trattativa. E’ meno comprensibile che gli europei condizionino l’appoggio al processo di pace al ruolo di Arafat. Non c’è solo il veto israeliano che deve far riflettere. Né la repulsione che molti hanno verso di lui e che è nutrita dalla sua consolidata doppiezza e dalla corruzione della sua classe dirigente.
Arafat è effettivamente un simbolo arabo-musulmano. Ma è esattamente il simbolo che la sinistra europea deve togliere dalle proprie bandiere. C’è nel vecchio leader palestinese, ora impegnato a sabotare Abu Mazen, il concentrato di tutta la cultura e la sub-culrura panarabista e fanatico-religiosa che per troppi anni la sinistra europea e la sinistra italiana hanno considerato come l’ingrediente inevitabile e indispensabile di un processo di liberazione nazionale. Questo equivoco ha alimentato simpatie verso leader arabi di profilo neo-nazista, protagonisti della più colossale operazione antisemita dopo la Seconda guerra mondiale. Questo equivoco ha alimentato anche una visione dello scontro arabo-israeliano in cui le ragioni di Israele, non solo quelle concernenti la sua sicurezza, sono spesso passate in secondo piano.
A chi parla, anche a sinistra, del rischio per i palestinesi di vivere in tanti bantustan controllati da Israele, vorrei suggerire di guardare con più attenzione sia la carta geografica sia la cultura trasmessa a milioni di arabi dalla loro classe dirigente moderata e rivoluzionaria. Ha ragione Miro Silvera ("Contro di noi", Frassinelli ed., p. 30): "Israele è il luogo più duro in cui vivere oggi; per gli israeliani, circondati dai paesi arabi, è diventato un enorme ghetto allargato in cui gli arabi giocano con le loro vite come il gatto con il topo.".
Il diritto sacrosanto dei palestinesi alla terra e allo stato deve essere confrontato con la soluzione di questo problema che è militare, culturale, psicologico. Israele non è né una dependance americana né il sogno socialista dei primi sionisti. E’ uno Stato che si difende e che va difeso. Se l’Occidente, e in particolare l’Europa e la sinistra, assumono fino in fondo questo tema come centrale aiuteranno l’emersione di nuove leadership arabe spezzando la tentazione Usa di gestire la vicenda mediorentale alternando compromessi con leader indecenti e azioni militare traumatiche magari contro i medesimi ex loro sodali. Solo così si aiutano Abu Mazen e quelli come lui. Fuori da questa logica ci sono gli Arafat e i Saddam, cioè la guerra.