The Harp of David
periodico di cultura filosofia politica economia scienza e arti varie

Distr.: 6.003 contatti            Anno I, num. 3 - 23 luglio 2003

IN QUESTO NUMERO:
(parte I)
 
Primi risultati della Road Map?

  Joel Leyden (trad. di Chayiah Liv)Fonti palestinesi  finalmente confermano: non vi fu "massacro" a Jenin

Libri in primo piano
   Martin Rees, I sei numeri dell'Universo. Le forze profonde che spiegano il cosmo (a cura di Diana Datola)
Sulle spalle dei giganti
    Dario Antiseri, Proprietà privata sola garante di pace. Contro le miserie create da nazismo fascismo e comunismo
Altre Emergenze
    Carmine Monaco, Gli attentati ai civili israeliani sono crimini contro l'Umanità. Medecins du Monde denuncia: "I kamikaze colpiscono i deboli" 
Bertinotti a parte...
    On. Giuseppe Caldarola, La sinistra europea deve comprendere la svolta di Sharon e togliere il simbolo Arafat dalla propria bandiera
Lettere a "The Harp of David"
    
(Parte II):
Libri in primo piano
Anna Foa, Giordano Bruno
Abraham B. Yehoshua, Il lettore allo specchio. Sul romanzo e la scrittura.
Inchiesta
La ricerca della Qualità può essere l'arma per uscire dalla crisi economica?
Subculture emergenti
Carmine Monaco, L'involuzione dei valori etici nella stampa italiana: pericolo o realtà? Il caso Limes n. 3-2003
Approfondimenti
Bob Porter, Ho conosciuto il mio vicino di casa
    e altro...
 

CONTINUIAMO A CHIEDERE LIBERTA' PER I DEMOCRATICI IRANIANI DETENUTI IN CONDIZIONI DISUMANE...
 
Basterà chiedere per loro la libertà, per non dovere, un giorno, chiedere loro perdono?
 
Ho sognato
Ho sognato e non stavo dormendo
Qualcuno sta arrivando
Qualcuno come nessun altro
Qualcuno di migliore che non può essere fermato
perché cresce e cresce ogni giorno
Con il sole e con la pioggia
in ogni nostro respiro...
                      Forugh Farrokhzad
 

Primi risultati della Road Map?

 

FONTI PALESTINESI FINALMENTE CONFERMANO: NON VI FU "MASSACRO" A JENIN

 

Dopo anni di accuse infamanti e calunnie ai danni dell'IDF, qualche barlume di verità si fa largo anche tra le "attendibili fonti palestinesi". Il cambiamento di versione getta lo scompiglio tra certa stampa nostrana: rettificheranno e faranno finta di nulla? 

 

di Joel Leyden, Jerusalem Post, 14 luglio 2003 (trad. di Chayiah Liv)

 

In uno studio che sarà diffuso il mese prossimo dal Centro per gli Affari Pubblici di Gerusalemme e dato in esclusiva al Jerusalem Post,  fonti palestinesi confermano  che almeno 34 militanti palestinesi furono uccisi combattendo nella battaglia per il Campo Profughi di Jenin. La battaglia si svolse tra il 4 e l’ 11 aprile 2002. 

La ricerca, condotta da Jonathan D. HaLevi e dal JCPA (Centro per gli Affari Pubblici di Gerusaleme) sulla base di una vasta  gamma di testimonianze palestinesi scritte e di materiale che è stato recentemente pubblicato su giornali, libri e siti palestinesi, rivela per la prima volta che le organizzazioni terroristiche  palestinesi si considerarono combattenti armati e non civili morti in un orribile massacro.

Lo studio di 35 pagine, basato  su fonti originali, illustra chiaramente che Fatah, la Jihad islamica ed Hamas si sono  preparati fin dall’inizio con armi automatiche, granate,  missili anti-carro ed esplosivi e che hanno considerato il confronto con le truppe dell’ IDF nient’ altro che “una battaglia di militari contro militari”.

Lo studio confuta le dichiarazioni fatte allora dai capi dell’ AP che le forze dell’Esercito Israeliano stessero attaccando civili innocenti e che gli unici palestinesi a morire nella battaglia di Jenin fossero uomini, donne e bambini palestinesi innocenti e disarmati.

“Lo studio contraddice direttamente le accuse infondate fatte dai capi palestinesi, incluso Saeb Erekat, secondo cui Israele a Jenin avrebbe massacrato 500 palestinesi”, ha detto il precedente ambasciatore delle NU e direttore del JCPA Dore Gold. Intanto “Quella appariscente menzogna si è diffusa dagli schermi della CNN al Consiglio  di sicurezza delle NU.”

Tra le altre rivelazioni illustrate dallo studio,  c’è un luogo per operazioni militari congiunte costituito da Fatah, Hamas e la Jihad  in preparazione della battaglia di Jenin. Oltre a ciò, la ricerca indica che Fatah, la Jihad islamica ed Hamas avevano creato insieme  le attrezzature per la fabbricazione di bombe in Jenin, che produssero  oltre due tonnellate di esplosivi.

Il documento del JCPA dichiara che i civili erano intenzionalmente usati come scudi umani e che donne e bambini erano usati da Fatah, Hamas e dalla Jihad islamica per sviare le truppe dell’Esercito Israeliano dirigendole verso  aree in cui erano pronte trappole e imboscate. Il Campo Profughi di Jenin era  allestito  come una “fortezza rinforzata” in cui si erano riuniti per la battaglia circa 200 terroristi palestinesi , afferma la ricerca del JCPA.

Israele fu prosciolto dalle accuse di avere commesso il massacro nel Campo Profughi di Jenin in un rapporto approvato dalle NU l’anno scorso. Il rapporto di 42 pagine, metà del quale era  costituito da proposte di rappresentanti arabi che tentavano di provare che le azioni di Israele a Jenin costituissero crimini di guerra, criticava anche i “militanti” palestinesi per avere operato all’interno dei Campi Profughi e definiva i loro metodi come “violazioni della legge internazionale, che sono state e continuano ad essere condannate dalle Nazioni Unite”.

Il rapporto fu consegnato al Segretario Generale delle NU Kofi Annan più di due mesi dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale di una risoluzione con le richieste di  documentazione su ciò che era accaduto nel campo di Jenin e in altre città della Riva Occidentale durante l’operazione militare per estirpare il terrorismo.

Nel maggio 2002, la Conferenza dei Presidenti delle principali Organizzazioni Ebraiche Americane presentò ad Annan un rapporto di 150 pagine  e la Lega Anti-Diffamazione presentò un rapporto più breve che confutava le accuse che ci fosse stato un massacro a Jenin.

“Il mito del massacro a Jenin fu il “gioiello della corona” di un sofisticato lavoro per delegittimare lo Stato di Israele”, disse Gold. (JP)

 

L’articolo in inglese può essere letto qui: 

http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost/A/JPArticle/ShowFull&c
id=1058153633747

 

Libri in primo piano
 
Nell'immensità del cosmo, dove la scienza incontra la filosofia, la chiave dei misteri sull'origine del mondo e sulla nostra essenza
 
I SEI NUMERI DELL'UNIVERSO
LE FORZE PROFONDE CHE SPIEGANO IL COSMO
 
a cura di Diana Datola
 
L'infinità varietà e la stupefacente complessità del cosmo possono essere spiegate, o almeno "inquadrate" mediante sei semplici numeri, sei costanti universali? Secondo il grande astrofisico sir Martin Rees, docente all'Università di Cambridge, ciò non soltanto è possibile ma anche, in un certo modo, "semplice". In quei sei numeri, spiega sir Rees, sono scritti la storia, la struttura e il futuro dell'universo, e perfino la comparsa della vita sulla terra, e dunque la nostra stessa esistenza, non sarebbe concepibile se anche uno solo di quei valori numerici, definiti nell'istante che segnò la nascita del mondo, fosse differente.
in I sei numeri dell'universo (Rizzoli 2002), Martin Rees sembra offrire anche una propria interpretazione della questione sollevata da John D. Barrow e Frank J. Tipler, che nel 1986 offrirono al mondo una delle più audaci e affascinanti ipotesi cosmologiche esposta nella loro celebre opera Il principio antropico (in it. Adelphi 2002). Da allora tale teoria è stata infatti il punto di riferimento irrinunciabile di chiunque affronti il problema della posizione dell'uomo nell'universo e della nascita della vita. Tutto ruota, infatti, intorno ad un nucleo ineludibile: se non si presentassero straordinarie coincidenze nella forma delle leggi fisiche e nei valori delle costanti di natura, la biochimica, la vita e la vita intelligente non sarebbero possibili. Non solo, affermano Barrow e Tipler, un universo generico preso a caso non consentirebbe la vita, ma non vi sarebbero possibili neppure gli oggetti astronomici comuni e la materia ordinaria, in particolare il nucleo del carbonio.
Sir Rees si sofferma in particolare su sei numeri dell'universo che ci introducono alle questioni più profonde su cui si interroga oggi la scienza. Come può, da quel singolo evento di "creazione" che fu il big bang, aver avuto origine un universo che contiene, secondo i calcoli più avanzati, cento miliardi di galassie, e altrettante stelle in ciascuna galassia, e - attorno a una di queste stelle - un pianeta che ospita la vita e, tra le forme di vita, una in grado di chiedersi: "Come è possibile tutto ciò?". Quali sono le leggi fisiche che governano un tale universo e quale il suo destino finale?
A tutti questi interrogativi gli uomini di fede hanno dato spesso una risposta che agli uomini di scienza non è mai bastata. All'intervento creativo del demiurgo la scienza preferisce oggi credere nell'esistenza di infiniti universi alternativi, ciascuno corrispondente ad un diverso sestetto di valori numerici, ma ciò a mio avviso significa anche moltiplicare all'infinito il quesito irrisolto: "Come è possibile tutto ciò"?, almeno finché la scienza non avrà trovato nuove risposte.
Unendo al rigore scientifico un linguaggio comprensibile a tutti, Martin Rees ci conduce in un'esplorazione del cosmo su base numerica non meno emozionante di un vero viaggio interstellare, almeno per chi non dispone di 100 milioni di dollari per farsi imbarcare nella prossima navicella come turista. Dalle tre dimensioni dello spazio al valore della costante cosmologica, introdotta per la prima volta da Einstein, attraverso le pagine del libro i numeri dell'universo ci si rivelano in tutto il loro fascino, smentendo la presunta aridità di una descrizione matematica del mondo.
 
    
 
Sulle spalle dei giganti
 
Contro le miserie create da nazismo fascismo e comunismo
 
PROPRIETA' PRIVATA SOLA GARANTE DI PACE 
 
La sua abolizione è la via sicura verso la miseria e la schiavitù, secondo il teorico austriaco L. von Mises, esponente della Grande Vienna all'inizio del Novecento 
 
di Dario Antiseri (da "Il Giornale", 28 febbraio 2001)
 
Ludwig von Mises (1881-1973) - esponente di primo piano della «Grande Vienna» - è stato, insieme al suo discepolo Friedrich A. von Hayek, uno dei più grandi teorici contemporanei del liberalismo. Da convinto individualista metodologico, ha avversato la perniciosa dottrina di quanti reificano, fanno diventare cose, i concetti collettivi (Stato, partito, classe, ecc.). La realtà è che esistono solo individui: «solo l'individuo pensa, ragiona ed agisce». Da economista, già agli inizi degli anni Venti, aveva dimostrato, in un'opera ormai classica, Socialismo, l'impossibilità del calcolo economico in una società (nazista, fascista e comunista) che abbia abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione e che, pertanto, non possiede la bussola dei «prezzi» di mercato. L'abolizione della proprietà privata è la via della miseria e della schiavitù. Da teorico del liberalismo, Mises, evitando appelli ai sentimenti e prediche sui valori, fa presente come ragioni logiche ed empiriche stiano lì a dimostrare l'inscindibile legame tra economia di mercato da una parte e il più esteso benessere e la più ampia libertà dall'altra. Da ciò segue che, se vogliamo il più esteso benessere e la più ampia libertà, dobbiamo allora porre attenzione a tutti quei mezzi che favoriscono e proteggono l'economia di mercato.
Ora, però, l'economia di mercato equivale, innanzitutto, alla proprietà privata dei mezzi i produzione. «Il programma del liberalismo - afferma Mises - potrebbe riassumersi in una sola parola: "proprietà", da intendersi come proprietà privata dei mezzi di produzione». E a quella di proprietà privata dei mezzi di produzione il programma del liberalismo associa le idee di libertà e di pace. Il liberale è a favore della libertà se non altro per il fatto che «il lavoro libero è incomparabilmente più produttivo del lavoro effettuato da chi non è libero. Il lavoratore non libero non ha alcun interesse ad impegnare seriamente le proprie forze. Quindi lavora quanto basta e con l'assiduità sufficiente ad evitare le sanzioni previste per chi non rispetta i minimi di lavoro. Il lavoratore libero invece sa di poter migliorare la propria remunerazione quanto più intensifica la propria prestazione lavorativa. Quindi impegna in pieno le proprie forze per accrescere il proprio reddito». In breve: «Quel che sosteniamo è solamente che un sistema basato sulla libertà di tutti i lavoratori garantisce la massima produttività del lavoro umano e pertanto va incontro agli interessi di tutti gli abitanti di questo mondo».
Insieme alla proprietà privata dei mezzi di produzione e alla libertà, l'altro grande pilastro della politica liberale è, appunto, la pace. La pace - scrive Mises - «è la teoria sociale del liberalismo». E ciò per la ragione che «l'unica cosa che fa progredire l'umanità e la distingue dal mondo animale è la cooperazione sociale. Solo il lavoro costruisce, crea ricchezza e pone le basi materiali del progresso spirituale dell'uomo (... ). Il liberale ha orrore della guerra ma non, come ritiene il filantropo, malgrado le sue possibili conseguenze utili, ma perché essa non può avere che conseguenze nefaste». La guerra distrugge le basi della cooperazione, le basi cioè della divisione del lavoro e quindi della ricchezza di un popolo. «Il pieno sviluppo della divisione del lavoro è possibile .solo se vi è la garanzia permanente di una convivenza pacifica». E per il mantenimento della pace va difesa l'uguaglianza davanti alla legge, Difatti è chiaro che «è quasi impossibile mantenere una pace duratura in una società nella quale siano differenti i diritti e i doveri dei vari ceti. Cìò delegittima una parte della popolazione deve sempre aspettarsi che i delegittimati si coalizzino contro i privilegiati».
A destra e a sinistra si è proclamato e sempre si ripete che liberalismo significa distruzione dello Stato: e si è giunti a sostenere che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Ma, anche qui, nulla di più falso. Mises precisa: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un "nemico dello Stato". Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o per lavarsi le mani». Il liberalismo non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente ed esclusivamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza».
Per il liberalismo, dunque, lo Stato è «una necessità imprescindibile». E questo proprio a motivo del fatto che «collo Stato ricadono le funzioni più importanti: la protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale: forma di Stato che è quella democratica, basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo. E allora è facile comprendere la funzione sociale della democrazia: «La democrazia è quella forma di costituzione politica che rende possibile l'adattamento del governo al volere dei governati senza lotte violente. Se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al valore della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, violenze e spargimenti di sangue».
La democrazia deve di continuo fronteggiare quanti sostengono il diritto di una minoranza a dominare lo Stato e a sottomettere la maggioranza. La legittimazione etica di questo diritto risiederebbe semplicemente nel successo della forza. I migliori si riconoscerebbero dalla loro capacità di dominare la maggioranza contro la sua volontà. «Su questo punto - afferma Mises - convengono perfettamente fino a coincidere, la dottrina dell'Action française e quella dei sindacalisti, la dottrina di Ludendorff e di Hitler e quella di Lenin e di Trotckij». E precisa: «Se ogni gruppo che crede di poter imporre con la violenza la propria sovranità sugli altri dovesse essere autorizzato a fare il suo bravo tentativo, l'unica cosa che dovremmo aspettarci sarebbe una serie ininterrotta di guerre civili. Ma una situazione, del genere è incompatibile con il grado di divisione del lavoro che abbiamo raggiunto oggi. L'economia moderna basata sulla divisione del lavoro può reggersi soltanto in un contesto di pace stabile».
Il liberalismo è intollerante solo con gli intolleranti. «Il liberalismo proclama la tolleranza verso qualsiasi fede e qualsiasi genere della realtà non per indifferenza verso queste cose "superiori", ma perché è fermamente convinto che su ogni altra cosa deve prevalere la sicurezza della pace sociale».
 

Avviso
 
In risposta alle numerose richieste di informazioni giunte in Redazione, tra cui molte relative alla difficoltà di reperire in libreria il testo di Luca Puleo,
Israele-Palestina. Storia, giudizi e pregiudizi, Proedi, 2003, 
vi preghiamo di contattare il sito www.israele-palestina.info e di inoltrare alla relativa casella e-mail le vostre richieste. Sul sito troverete anche tutte le informazioni su come e dove acquistare il volume.

 

Altre Emergenze

GLI ATTENTATI AI CIVILI ISRAELIANI SONO CRIMINI CONTRO L'UMANITA'. MEDECINS DU MONDE DENUNCIA: "I KAMIKAZE COLPISCONO I DEBOLI"

 

L'organizzazione umanitaria stigmatizza le azioni dei cosiddetti "martiri" definendole nient'altro che efferato terrorismo contro i cittadini più indifesi dello Stato ebraico. In attesa che l'Europa si decida a dichiarare fuorilegge Hamas e Hezbollah...

 

di Carmine Monaco

  
"Vi prego, scegliete dunque la vita, così voi e i vostri discendenti potrete vivere" (Dt 30,19): così Mosè supplicava il suo popolo, come ricorda Pinchas H. Peli in uno dei suoi celebri scritti ("Scegliere la vita", n.d.r.). Erich Fromm si domandava come un essere umano possa compiere una scelta fra la vita e la morte, "escludendo naturalmente l'ipotesi del suicidio". C'è invece chi si chiede come possa una madre esultare alla notizia che suo figlio, il frutto del suo ventre, si è imbottito di tritolo e si è fatto esplodere, magari tra tanti altri suoi coetanei, a loro volta figli di madri come lei. La scelta tra la vita e la morte qui non riguarda naturalmente l'aspetto biologico, ma i princìpi e i valori: "Essere vivi significa crescere, reagire, svilupparsi", sostiene Peli. Un principio valido non solo per gli uomini ma anche per le culture e ancor di più per le nazioni e le civiltà stesse. Così la morte è "smettere di crescere, fossilizzarsi, diventare oggetti inerti", improduttivi, portatori solo di altra morte.
La vita ha certo bisogno di speranze e di prospettive, ed è su questi obiettivi che si fondano le trattative di pace in corso tra israeliani e palestinesi: dare agli uni e agli altri la sacrosanta possibilità di riprendere una vita normale, in serenità e sicurezza. Ma va detto che l'uomo, la cultura, la nazione e la civiltà che scelgono la morte per i propri figli come motore delle proprie azioni sono come "zombie" dal corpo "vivo" e l'anima "morta". Abdel Rantisi, tra gli ispiratori e sicuramente il principale organizzatore della strategia degli attacchi suicidi, ritiene invece quello dei martiri (istishâdiyyûn) "Il fenomeno senz'altro più nobile che la storia dell'umanità abbia mai conosciuto" (cfr. Abdel Rantîsî, Il Popolo, Egitto, 30.05.03; in italiano: "E' la resistenza la 'strada' che dobbiamo attraversare, non la "Road Map", in www.aljazira.it)
Di fronte a questo "fenomeno" Israele è stato lasciato vilmente solo da tanti governi, partiti e organizzazioni umanitarie internazionali, fino a che, non senza suscitare una certa sorpresa, l'organizzazione Medecins du Monde (MdM) ha finalmente denunciato come «crimini contro l'umanità» gli attentati commessi da gruppi armati palestinesi contro civili israeliani: meglio tardi che mai (forse la tregua in atto ha creato un clima più favorevole alla riflessione). 
MdM accusa i kamikaze di colpire soprattutto le categorie più deboli, i poveri e quelli che si servono dei mezzi pubblici. Il suo rapporto, reso noto in questi giorni a Parigi, contiene il risultato di un'inchiesta condotta durante la seconda intifada insieme alla Fidh (Federazione internazionale diritti umani), la stessa organizzazione che aveva definito «crimine di guerra» il «comportamento dell'esercito israeliano nei confronti della popolazione civile palestinese» durante l'operazione a Nablus dell'aprile 2002. MdM, invece, ha affermato ora che gli attentati, in particolare quelli che mirano a civili o quelli nei quali l'aggressore si suicida uccidendo quante più persone possibile, «per il loro carattere "sistematico o generalizzato", nell'intenzione rivendicata di uccidere civili e seminare il terrore nella popolazione israeliana rappresentano dei crimini contro l'umanità e sono di competenza del Tribunale penale internazionale».
   L'inchiesta di Medecins du Monde, basata sulle testimonianze di superstiti, famiglie delle vittime, organizzazioni non governative, personale medico, poliziotti, militari, funzionari dei ministeri degli Esteri e della Sanità, evidenzia le violazioni palestinesi "particolarmente ovvie dell'obbligo di distinguere tra civili e combattenti". Alla base di quest'affermazione vi è il dato statistico che vede la proporzione di civili fra le vittime essere «almeno del 70%», fra i quali c'è una maggioranza di anziani, giovani e bambini. «Le categorie sociali più modeste sono le prime colpite» sottolinea MdM, spiegando che un abitante di Gerusalemme che prende l'autobus per andare al mercato rischia di più di un alto funzionario della periferia ricca di Tel Aviv che si sposta in automobile facendosi consegnare la spesa a casa.
 
La MDM ritiene che i civili israeliani non debbano essere presi per obiettivi neppure "in rappresaglia alle violenze dell'esercito israeliano". Due medici della missione MDM hanno concluso che gli attentati riguardano tutta la popolazione israeliana senza distinzione, bambini e adulti, e che le vittime e le loro famiglie subiscono danni irreparabili, creando un numero incalcolabile di invalidi da cui derivano necessità di ogni genere che pesano fortemente sull'intera collettività. Hanno anche notato che questi attacchi hanno creato una sensazione permanente d'insicurezza nell'ambito della popolazione israeliana.
Non c'è che dire: un notevole passo in avanti nello stabilirsi di un criterio di equità di giudizio almeno verso la sofferenza delle parti in conflitto. Se la tregua durerà e se finalmente la pace trionferà, magari assisteremo anche al trionfo della verità che, in tante circostanze, è rimasta sepolta sotto le macerie dei pregiudizi, come dimostra il caso Jenin. In attesa che l'Europa si decida a dichiarare fuorilegge le organizzazioni terroristiche Hamas e Hezbollah, sempre meglio che niente... Eppure, inserire le due formazioni nella lista nera aiuterebbe l'ala moderata dell'Autorità Palestinese, portando ad una diminuzione della loro influenza nefasta sulla società palestinese e dando finalmente il via alla ricostruzione dell'intera area secondo la Road Map approvata dal Quartetto (USA, Russia, Onu e UE). Non si capisce cosa l'Europa aspetti a farlo.
 

Bertinotti a parte…

LA SINISTRA EUROPEA DEVE CAPIRE LA SVOLTA DI SHARON E TOGLIERE IL SIMBOLO ARAFAT DALLE PROPRIE BANDIERE

On. Giuseppe Caldarola, "Il Riformista", 21 Luglio 2003

Il prossimo viaggio americano di Abu Mazen dovrà confermare al nuovo leader palestinese il conforto dell’appoggio Usa. Questo viaggio è una tappa fondamentale, ma non decisiva, nel nuovo, incerto percorso di pace. Israele ha aperto una linea di credito a vantaggio di Abu Mazen e gli israeliani non nascondono di investire anche su un altro leader palestinese, Marwan Barghouti, che pure detengono nelle loro carceri.

Mai come ora la scelta fra pace e guerra è nelle mani dei palestinesi. Il leader israeliano Ariel Sharon sembra aver imboccato la strada della trattativa dopo un lungo, doloroso periodo di contrasto armato di quella Seconda Intifada che ha stremato i palestinesi e dato vita alla terribile stagione degli attentatori suicidi le cui vittime l’Occidente farebbe bene a ricordare almeno con la stessa giustificata passione che mette nei confronti del dolore dei palestinesi.

Ariel Sharon è un uomo della destra, con un passato discusso e discutibile, che cerca ora di mimare il tragitto dei generali israeliani, ultimi i laburisti Rabin e Barak, che, forti di una ineccepibile biografia militare al servizio dello Stato ebraico, hanno cercato di spendere il loro prestigio sul terreno della politica e della trattativa. Ciò è tanto più significativo in quanto l’approdo alla logica della trattativa non era così scontato viste le posizioni e i gesti anche recenti di Ariel Sharon. Tuttavia si fa strada l’impressione, che la sinistra europea e italiana fa male a sottovalutare o a guardare con eccessiva diffidenza, che il capo della destra, attuale capo del governo di Gerusalemme, abbia messo al centro dei propri obiettivi il raggiungimento di un accordo con i palestinesi. La determinazione di Sharon nell’azione di contrasto militare contro la terribile Seconda Intifada non può far velo su un suo progressivo spostarsi verso posizioni più ragionevoli, e politicamente di centro, riguardo la possibilità di una trattativa che comprenda anche importanti concessioni da parte di Israele.

Il tema è Arafat. La persona e il simbolo. E’ comprensibile che europei e americani, questi ultimi un po’ meno impegnati in verità, tengano a cuore l’autorità e la dignità del soggetto palestinese che deve sedersi al tavolo della trattativa. E’ meno comprensibile che gli europei condizionino l’appoggio al processo di pace al ruolo di Arafat. Non c’è solo il veto israeliano che deve far riflettere. Né la repulsione che molti hanno verso di lui e che è nutrita dalla sua consolidata doppiezza e dalla corruzione della sua classe dirigente.

Arafat è effettivamente un simbolo arabo-musulmano. Ma è esattamente il simbolo che la sinistra europea deve togliere dalle proprie bandiere. C’è nel vecchio leader palestinese, ora impegnato a sabotare Abu Mazen, il concentrato di tutta la cultura e la sub-culrura panarabista e fanatico-religiosa che per troppi anni la sinistra europea e la sinistra italiana hanno considerato come l’ingrediente inevitabile e indispensabile di un processo di liberazione nazionale. Questo equivoco ha alimentato simpatie verso leader arabi di profilo neo-nazista, protagonisti della più colossale operazione antisemita dopo la Seconda guerra mondiale. Questo equivoco ha alimentato anche una visione dello scontro arabo-israeliano in cui le ragioni di Israele, non solo quelle concernenti la sua sicurezza, sono spesso passate in secondo piano.

A chi parla, anche a sinistra, del rischio per i palestinesi di vivere in tanti bantustan controllati da Israele, vorrei suggerire di guardare con più attenzione sia la carta geografica sia la cultura trasmessa a milioni di arabi dalla loro classe dirigente moderata e rivoluzionaria. Ha ragione Miro Silvera ("Contro di noi", Frassinelli ed., p. 30): "Israele è il luogo più duro in cui vivere oggi; per gli israeliani, circondati dai paesi arabi, è diventato un enorme ghetto allargato in cui gli arabi giocano con le loro vite come il gatto con il topo.".

Il diritto sacrosanto dei palestinesi alla terra e allo stato deve essere confrontato con la soluzione di questo problema che è militare, culturale, psicologico. Israele non è né una dependance americana né il sogno socialista dei primi sionisti. E’ uno Stato che si difende e che va difeso. Se l’Occidente, e in particolare l’Europa e la sinistra, assumono fino in fondo questo tema come centrale aiuteranno l’emersione di nuove leadership arabe spezzando la tentazione Usa di gestire la vicenda mediorentale alternando compromessi con leader indecenti e azioni militare traumatiche magari contro i medesimi ex loro sodali. Solo così si aiutano Abu Mazen e quelli come lui. Fuori da questa logica ci sono gli Arafat e i Saddam, cioè la guerra.

 

Lettere
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A proposito degli studenti iraniani
Se in tutta questa allucinante sequenza di violazione dei diritti umani in Iran... se la rivolta degli studenti in Iran... se il Vaticano fosse interessato... se qualcosa fosse possibile addebitare a Bush o a Berlusconi, ci sarebbero manifestazioni di piazza, scioperi, attacchi sulla stampa e sulle TV, interrogazioni parlamentari, girotondi... Insomma, la faccenda alla sinistra e al Vaticano non interessa. Che gli studenti iraniani si arrangino...  Ma è anche colpa del centrodestra che non sa portare alla ribalta questi fatti e informare o sensibilizzare l'opinione pubblica. Ma perchè prendere una simile iniziativa? Cui prodest? L'unico effetto sarebbe quello di inimicarsi l'Iran, paese produttore di petrolio, nonchè tutti i fondamentalisti islamici. Morale: il fatto non sussiste. [...]
Niccolò Vergata
 
 Adriano Sofri non ha mai chiesto nulla a nessuno
In un mondo di ominicchi liberi c'è un uomo che ho imparato a rispettare: Adriano Sofri. E lo rispetto, a maggior ragione, perché rifiuta di divenire ominicchio per mantener fede alla sua parola. La storia è da Voi ampiamente conosciuta, ripetervela sarebbe noioso e perditempo, mi soffermo sull'uomo, invece. In un'Italia zeppa di pentiti più o meno falsi che vivono all'aria aperta e con la pingue pensione e che costano allo Stato (quindi a noi, attenzione) fior di eurini, c'è un uomo, come avrebbe detto Sciascia, che non vuol diventare ominicchio, continua a ripetersi innocente, al momento non firmerà la sua domanda di grazia. Aumenta il mio rispetto e mi sorge il dubbio. Visto che è di moda lasciar liberi assassini, visto che è di moda recuperarli a tutti i costi, costi quel che costi, qualche Abele ucciso in più è un rischio da correre, vuoi vedere che c'è un innocente che non vuole uscire? In un quotidiano locale un lettore ha scritto: "Io sono di sinistra ma non mi piace la grazia a Sofri". A tal signore rispondo: "Io non sono di sinistra e neppure a me piace la grazia, vorrei la giustizia e vorrei vedere vincere la verità". Sui due piatti della mia personale bilancia ho da una parte il sig. Marino, pentito libero con mille dubbi e dall'altra Sofri in carcere, mai pentito e senza dubbi, anzi credo che un dubbio ce l'abbia, uno solo: "Quanto è difficile vivere in questo mondo lubrificato a suon di eurini".
Giampiero Labbate
 

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