David Di Luca
Esploratore
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Inserito - 18/12/2004 : 19:24:25
Finalmente avrei saputo come faceva. Leggevo di lui sulle riviste di business, e mi ero pure divorato una biografia su di lui di oltre mille pagine. L'avevo finita in una sola sera, alla luce della lampadina di cucina, l'unica che avevo in casa, pendente da un filo. Erano mesi che cercavo il coraggio di fare quello che adesso stavo per portare a compimento. Mi è servito tutto quel tempo per liberarmi dall'influsso della gente, amici parenti conoscenti. Mi dicevano che no, una persona così occupata non avrebbe certamente trovato il tempo di ricevere e/o stare a sentire uno come me, che nel mondo pareva decisamente essersi perso per strada. Che aveva rifiutato, uno via l'altro, una paccata di lavori tutti interessanti, con stipendio non altissimo, certo, ma sicuro. Tutti i mesi, bing, una sommetta si sarebbe materializzata sul mio conto bancario. Non io. Io ero quello che si dice un anarchico, proprio nel senso etimologico del termine, uno che non riconosce autorità al di sopra di sè. Per questo, secondo la vox populi ero destinato ad un amaro naufragio sull'isola della solitudine e dello scoramento. Devo essere sincero, a volte anche a me sembrava in effetti di aver imboccato una rotta del genere. Succedeva quando mi arrivava qualche bolletta, luce acqua gas telefono, e vedevo scemare sempre di più i quattro spicci del libretto postale. In quei frangenti mi prendevo la testa fra le mani e mi dicevo cazzarola come sono nel casino, e altre considerazioni di questo tipo. Durava poco. Ben presto recuperavo la consapevolezza che avrei sopportato quello ed altro pur di non tornare a far il carrellista in un supermercato. Avevo un capo che era senza mezzi termini una *****ccia. Sempre ad abbaiare. Sembrava che il suo lavoro (la sua pena?) fosse trovare ogni momento qualcosa che non funzionava e farne la base per cicchetti che levavano il pelo. Un bel giorno di quelli che mi giravano un po' di più gli lasciai il carrello carico di cassette di albicocche lì in mezzo al piazzale, mi tolsi la tuta verdolino smorto e me ne andai a casa, senza mai più rimettere piede nel superipermegamaxi del menga, neppure come cliente. Adesso stavo per sapere tutto. Come dicevo, c'era voluto parecchio impegno da parte mia per togliermi dalla testa tutte quelle vocine che ripetevano incessantemente "Non ce la puoi fare". Ma alla fine decisi che, al diavolo i miei dubbi, dovevo comunque tentare. Così, mi recai nella sede della ditta di G. A., un enorme complesso nella periferia nord della città. Mi ero vestito di tutto punto, e per la prima volta da qualche mese ero pure rasato di fresco. Così, mi avvicinai all'ingresso, agguantai la maniglia e spinsi la porta. DLINNNN DLONNNN, fece. La guardia giurata alzò di scatto la testa dal giornaletto dei cruciverba su cui, ne ero certo, si stava ormai appisolando. Androide. Attivato probabilmente da fotocellula. "Buongiorno, lei dove vaaaaaa?" Buona domanda, anzi ottima. "Voglio vedere G. A." "Hahahahaha - fa lui - intanto, dottor cavalier G. A. E poi, lei chi è?" "Uno che vuole parlare con lui, mi pare evidente". "Ha ha ha. Ma, signor mio caro e bello, si immagina lei se il dottore e cavaliere - nonchè docente di economia aziendale, è vero, e quindi anche professore, non so se mi spiego - può avere tempo da perdere con tutti gli squinternati che capitano qui dentro." Squinternato io? Ma come si permette, questa mignatta del sistema capitalistico postindustriale? "Squinternato oppure no, io adesso mi metto qui e non mi muovo finchè non sono riuscito a parlare con G.A." "Col dottor cavalier G. A. Lei non ha capito. Deve andarsene, o io..." Non ebbi mai l'indubbio piacere di conoscere le intenzioni del solerte portiere, perchè ammutolì improvvisamente. Io, che neanche lo stavo a sentire, da quel silenzio fui indotto ad alzare la testa. Davanti a noi stava G. A. in persona. Poco dopo eravamo nel suo ufficio. Mi aveva fatto cenno di accomodarmi su una poltrona che, in effetti, era molto avvolgente. Devo dire a onor del vero che in quella stanza non c'era alcun segno di ostentazione. Tutto era certamente molto comodo, ed ogni cosa aveva come scopo rendere il lavoro più semplice e produttivo possibile. G. A. mi ispirava davvero una simpatia incredibile. Di là dalla scrivania, rimase a guardarmi per un po'. Sembrava mi facesse le lastre. "Allora giovanotto, ha idea del perchè ho accettato di parlare con lei?", disse ad un certo punto. "Non saprei." risposi io, ed era verissimo. Nonostante tutta la mia prosopopea, mi aspettavo di essere preso per la collottola e calciato via durante il mio piccolo show con il portiere. "Ebbene, mio caro - disse G. A. - Ho molto apprezzato la sua capacità di iniziativa. Mi piacciono quelli che si buttano. Così ho deciso che come minimo dovevo sentire quello che aveva da dirmi. Bene - aggiunse - adesso siamo qui. che cosa voleva dirmi?" Incredibilie ma vero, avevo la mia grande occasione. "L'ho sempre ammirata - spiegai, e mi piacerebbe conoscere qualcuno dei metodi che usa per gestire i suoi affari." "Bé, sono qua, chieda pure." Tutto molto facile, perfino troppo facile. "Ecco, per esempio mi piacerebbe molto conoscere le tecniche che usa per il time management." "Ahhhh, andiamo dritti al punto, eh? Mi piace, subito al nocciolo della questione." Mi guardó di nuovo per un lungo istante. Poi chiuse gli occhi, e parve perso in qualche pensiero. "Sí - disse alla fine - a lei credo di poterlo raccontare." "Raccontare che cosa?" Ovviamente, peró, una cosa del genere non poteva essere detta cosí alla buona. Venni invitato a cena per qualche sera dopo, direttamente a casa di G. A. . Inutile dire che passai quelle ore in uno stato di eccitazione non indifferente. Sentivo che questa volta la mia vita stava davvero per cambiare. Comunque, il tempo passa veloce, specie se lo si osserva a posteriori. Non so se vi è mai capitato di pensare a quanto velocemente sono passati gli ultimi quindici giorni, compresi quei momenti che sembravano interminabili. Mi sembravano passati pochissimi istanti quando mi ritrovai seduto in macchina, diretto verso la villa di G.A.. Ma forse, in effetti chiamarla villa è un po' esagerato. In realtà si trattava di una costruzione appena un po' più grande di una palazzina. Anche in questo, G.A. raccoglieva incondizionatamente la mia simpatia. Potevi essere la persona più importante di questo mondo, ma la vera grandezza d'animo stava proprio nel fatto che non lo facevi pesare. Probabilmente, si trattava anche di un modo per mantenere la propria privacy. Ma non la privacy ossessiva di chi cerca sempre di nascondersi. G. A. amava moltissimo stare con le persone, partecipare al mondo che girava. Però sapeva anche che per fare ciò occorreva avere dei momenti in cui uno si lasciava tutto alle spalle e raccoglieva taluni cocci sparsi, rimetteva in ordine le onde cerebrali. Mi accolse insieme a sua moglie, presentandomi come "un giovane di ingegno assai brillante". La signora A. non era quello che si dice una gnocca. Ma si capiva subito che il sagace capitano d'industria l'aveva scelta per la sua intelligenza pi che per la sua bellezza. Del resto, quante volte mi é capitato di avere a che fare con donne che appagavano la vista - ma appena si trattava di dialogare ti facevano cadere le braccia - per non dire altro. La cena fu decisamente piacevole - fra le sue abilitá, la signora A. era un'ottima cuocoa. Mi stupí molto vedre che un gran signore come lui mangiava in modo piuttosto semplice. Per primo, lasagne con ragú, una porzione non troppo abbondante, ma comunque discreta. Per secondo, bistecca di maiale, e di contorno, a scelta, patatine fritte e/o insalata. Quindi frutta mista e, infine, un delizioso tiramisú. Da bere, acqua o aranciata. Di alcoolici, manco l'odore. Non lo vidi accendere una sigaretta in tutto il tempo che rimasi in casa sua. Anche la conversazione fu molto interessante. G. A. - come del resto tutti i grandi conversatori, tendeva piú a fare domande a me che a parlare lui. E di domande me ne fece veramente un sacco e una sporta. Volle sapere tutto di me, ed io glielo raccontai di buon grado. D'altra parte erano ormai anni che non parlavo piú con nessuno di quello che mi frullava nel cervello. Gli spiegai che la mia massima aspirazione era fare un lavoro che che mi desse da vivere senza rendermi un esere acefalo che la sera si piazzava davanti alla televisione a rimbambirsi con reality show e fiction. Apprezzai tutto questo, naturalmente. Ma altrettanto naturalmente non vedevo l'ora di sapere quello per cui ero venuto. E cioè, il segreto che permetteva a G. A. di organizzare il suo tempo, di fare tante cose e di farle tutte benissimo. E venne anche quel momento. "Bene, carissimo, credo di averla fatta aspettare anche troppo." disse a un certo punto G.A. dopo il caffé. Si alzó, e io feci altrettanto. Attraversammo un pezzo di corridoio, finché arrivammo in una stanza che sembrava un'altro salotto. C'era un divano amaranto con il suo bravo accompagnamento di poltrone. Steso a terra, un enorme tappeto persiano. Alle pareti, parecchi quadri astratti, che sicuramente avevano un valore non disprezzabile. Ma quello che mi colpí immediatamente fu un tavolinetto in legno, di fattura decisamente pregevole. Sulla cima del tavolinetto c'era un vecchio registratore a bobine. Si trattava ad occhio e croce di un modello assai datato. Uno poteva pensare che fosse stato conservato che so io, perché appartenuto a un qualche bisnonno, o cose del genere. Ma si cambiava idea non appena, guardandolo meglio, si notava attorno ad esso come una luminescenza violacea. Sicuramente sarebbe stata percepibile anche se l'ambiente fosse stato in piena luce. Nella semioscurità saltava immediatamente all'occhio. "Fa sempre quell'effetto anche a me - disse G.A. - E si che ormai dovrei esserci abituato." "Ho davvero la faccia così stravolta?" "Un po'." "Ma non mi dica che questo apparecchio è... il suo segreto." "E invece sì." "Ma com'è possibile?" Era accaduto ormai moltissimi anni fa - dopotutto non era così giovane, anche se si manteneva più che bene. All'epoca era un ragazzotto di belle speranze. I suoi se la passavano discretamente, ma certo la loro condizione non era nulla rispetto a quella che G.A. avrebbe raggiunto in seguito. Comunque, si poteva permettere qualche viaggetto in estate. Amava i climi freddi, in particolare i paesi dell'Est. Inoltre, amava rovistare sulle bancarelle e nei negozi di bric-à-brac, alla ricerca prevalentemente di libri, ma anche, se ne trovava, di oggetti curiosi. Un giorno, in una viuzza di Brno, trovò una bottega di rigattiere che si chiamava "Safarà". La gestiva un tipo stranissimo, completamente calvo e con la testa a forma di uovo, le orecchie a sventola assai e due occhi che parevan succhielli. Hamlin - questo il nome del singolare personaggio - lo aveva accolto con grandi feste, quasi come se lo avess conosciuto da lungo tempo. "Prego, prego, si accomodi. - aveva detto - ho sicuramente quello che fa per lei. Sa, oramai sono secoli, ehm decenni che sto qua dentro, e ho imparato a conoscere le persone. Sono diventato un fine psicologo. Lei ha l'aura... ehm volevo dire l'aria di uno che sicuramente farà grandi cose, o almeno ci proverà. Sìsìsìsì. Sento che a lei posso far vedere un articolo che tengo in negozio da tantissimo tempo. Venga, è nel retrobottega." Ad esser sinceri, G.A. pensava che il buon vecchio Hamlin volesse rifilargli qualche pataccone galattico. Ma questa evidentemente era una convinzione superficiale. Di fatto si ritrovò a seguirlo fino ad una stanzuccia male illuminata, laddove - il lettore lo immaginerà - era anche più evidente la luminescenza violacea del registratore a bobine. "Cos'è, uno scherzo?" sorrise G.A. Quel vecchietto gli era sempre più simpatico. Matto come un cavallo. "Oh no, no, no, nessunissimo scherzo." si affrettò a rassicurarlo Hamlin. "Questa è l'incarnazione di un'idea molto importante per il nostro Universo, così come per molti altri." Adesso ne era veramente certo. Quello era sciroccato forte. "E sarebbe?" Hamlin assunse un'aria tra il misterioso e il circospetto. "Il tempo è un'illusione, -disse - e può essere moltiplicato." La frase, più che detta, fu soffiata in un orecchio di G.A., che lì per lì non afferrò minimamente il concetto. Hamlin sorrise comprensivo. "Vede carissimo - riprese - generalmente siamo portati a pensare che il tempo scorra in modo lineare. Ieri è passato, oggi è presente, domani è futuro. Questo perchè noi lo percepiamo così. In realtà la materia è sempre la stessa. Cambia forma, certo, e questo mutamento, la differenza che cogliamo in essa è ciò che noi chiamiamo tempo. Si tratta di una pura e semplice percezione, ma ha grande influenza su di noi, quindi diventa estremamente importante. Ma, immaginiamo per un momento che noi possiamo viaggiare nel tempo. Andare avanti e indietro, esattamente come se facessimo avanzare e retrocedere questo nastro. Inoltre. come può notare, il registratore è un modello da studio, professionale. Sono ben 48 piste. Il che significa che, usando il selettore, si può viaggiare anche nello spazio e nei vari Universi. Se non bastasse, l'articolo che le propongo ha nache altre due caratteristiche interessanti. LAa prima, che quando si "viaggia" il nostro corpo smette di invecchiare per due giorni. Questo risolve il problema dell'invecchiamento precoce nello spazio-tempo di partenza. La seconda che un particolare circuito consente di vedere lo spazio-tempo di arrivo senza entrarci fisicamente. Il circuito scatta anche da solo se rileva che non c' aria respirabile, in modo da evitare, ehm, spiacevoli inconvenienti. Mano a mano che Hamlin parlava, G. A. si convinceva sempre di più che era tutto vero. Certo un pensiero come il suo, di stretta osservanza positivista, escludeva in linea di principio quella che sembrava un'accozzaglia di affermazioni pseudoscientifiche. Però era anche vero che un tempo si credeva fermamente che il sole girasse intorno alla terra. E in un altro tempo si pensava che la terra di cui sopra fosse piatta. Per non parlare poi della caccia alle streghe. Insomma, c'era un solo modo per verificare quello che diceva Hamlin, e cioè provare il registratore. Non so quanto tempo fosse passato. Avevo ascoltato e riascoltato parecchie volte i discorsi di G. A., quindi ne conoscevo molto bene la capacità oratoria. Riusciva agevolmente a incantare per ore una platea di migliaia di persone, me compreso. Ma stavolta era proprio come se fossi stato lì. Avevo visto Hamlin che parlava, sentito la sua voce. Potevo addirittura sentire l'odore dei secoli che aleggiava nel suo negozietto. Evidentemente, si trattava di un'esperienza che G. A. aveva vissuto sulla sua stessa carne, nella sua stessa anima. Qualcosa che lo aveva segnato per sempre. G.A. si avvicinò al registratore con un larghissimo sorriso. Lo accese, facendo quindi scorrere il nastro all'indietro. Azionando un paio di levette per spostarsi geograficamente, ben presto ci trovammo ad assistere proprio all'istante in cui G. A. aveva comprato il magico apparecchio. Ed era tutto più o meno come lo avevo immaginato. Ma il meglio doveva ancora venire. G.A. fece ancora scorrere il nastro all'indietro, per un tempo che mi parve infinito. Quando premette il tasto play, compresi subito di trovarmi davanti a qualcosa di sconvolgente. Eravamo come sospesi nello spazio, soltanto che in questo spazio non c'era nulla, tranne una sorta di piccolo sole azzurro. E dopo un attimo, fui ancora più cosciente di quello che stava per accadere. Per un attimo il piccolo sole sembrò contrarsi ancora di più. Poi, tutto si illuminò, e quando dico tutto intendo "il" tutto. Il piccolo sole era cresciuto, e ogni cosa doveva e poteva essere, senza mezzi termini di sorta.
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