giuseppe belcore
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Italy
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Inserito - 29/12/2004 : 15:20:51
IL CONIGLIETTO SAPORITO Il coniglietto stava per regalarsi una pennichella e si rallegrava, annuendo ai suoi propositi con il musetto che aspirava per poi soffiare sull'erba appena asciutta del pomeriggio primaverile. Era fiero di sé. Aveva trovato un angolo appartato dove i rumori e la voce degli altri esseri si potevano regolare a piacere con la sua attenzione, che andava adagiandosi nel perimetro del sonno. Il paesaggio di erba, di terra e di colori tutto intorno sembrava rovesciarsi, a ogni batter di ciglia, e ricomparire dall'altra parte. Gli occhi ci credettero a quelle evoluzioni e il cuore si affannò in un ultimo travaglio prima di lasciarsi addomesticare dal sonno. Poi, il silenzio lo avvolse come una pesante e soffice coperta. All'improvviso si sentì strappare la terra da sotto le zampette e chissà a cosa avrebbe pensato se non avesse incontrato gli occhi del padrone, troppo vicini ai suoi per non esserci qualcosa che non andava. Inspirò forte da lassù e poi ansimò, ma invece di svegliarsi si confuse di più. Si agitò, appeso per le orecchie che neanche adesso riusciva a maledire. Lo stringeva senza pena la mano del padrone, con la forza della rabbia, della cattiveria, quella che non si rende conto di sé. Questo pensava mentre pedalava furiosomante con le zampette ancora ribelli. Non se lo sognavano mai di obbedire alla testa, figuriamoci ora! Pedalava come se avesse una bicicletta, ma più si agitava e più quella non lo portava da nessuna parte. Sembrava gli scavasse la terra sotto le ruote... come sulla sabbia. Ansimava, ma si calmava per poi riprendere a smaniare e di nuovo a pedalare. Apriva e chiudeva gli occhietti con le venuzze che scoppiavano di sangue per la pressione, tanto si sforzava di guardarsi intorno per capire dove finisse quel gioco, dove fosse la sorpresa. Aspettava che si stancasse il padrone con quelle braccia possenti sospese in aria. Ringraziava di pesare e s'illudeva che la paura lo facesse pesare ancora di più e lo conducesse sulla amata terra. Mai come allora odiò l'altezza, le vertigini e pure il vomito che non fermò quel vortice. Voleva strappare dalla sua vista quella scena come faceva sempre con le ortiche dal prato, ma come quelle ricomparivano dalla terra più rigogliose e infide con radici più lunghe, così quella scena si ripeteva nei suoi occhi e allungava le radici del dolore nel suo stomaco e lungo i nervi. Il padrone lo scrollò ancora una volta violentemente e poi bloccò il braccio ancora un istante a mezz'aria per calmarlo con la tensione dell'immobilità. Lui un po' restò immobile, fissando dal basso in alto la bocca dell'uomo, che sembrò digrignare in uno sforzo superiore. Si scrollò violentemente con slanci verso il basso, quasi sperando che le orecchie si staccassero, finalmente. Ma anche questo non servì, né poteva servire. Ancora pensò di non capire e non capendo soffrì. Ma cosa aveva fatto, quale orto, quale ortaggio gli aveva rubato... se i suoi figli gli sorridevano quando svelto svelto divorava in un lampo tutto quello che gli davano senza discutere? Quante carote aveva fatto sparire dentro la bocca? Qualcuna era del suo padrone o dei figli? Aveva pestato la lattuga migliore? Aveva sotterrato i suoi bisogni, come faceva Luky, vicino a quelli del padrone? Gli aveva rubato il posto? Eppure lo ringraziavano i bambini con le loro carezze e i sorrisi proprio perché giocava e mangiava. Qualche volta aveva sentito che dicevano di lui che era tenero e sicuramente saporito... e ridevano appena era uscita l'aria da quelle parole e si erano scomposte evaporando. "Saporito" doveva essere un complimento che rendeva felici anche loro, i figli del padrone. Glielo dicevano solleticandogli il mento mentre lui gli rifaceva il gioco riducendo in briciole l'ennesima carotina, guardandosi meravigliato le zampette subito vuote. Glielo dicevano i loro occhi, con i visi allargati sulla sua testa, che quello era sicuramente un onore che riservavano solo a lui. Neanche i suoi fratellini erano oggetto di tante attenzioni. Aveva conosciuto il caldo delle loro lenzuola e la furbizia delle loro bugie mentre lo nascondevano nel cassetto del comodino, la sera. Aveva conosciuto nei suoi primi giorni di vita anche il loro strano modo di allattare i piccoli: quella tettarella era proprio scomoda, oltre che fredda e dura da masticare, ma era contento di farli contenti. Carezze e ancora quel complimento glieli facevano sempre i loro occhi, ancora loro, che lo cercavano impazienti nella foresta del giardino. Imparò presto a dire lo stesso delle sue adorate carote, così saporite, dolci e colorate. Come scrocchiavano sotto i suoi denti e che spavento per il rumore, le prime volte! Allora, perché quella lama si voleva far spazio dentro al suo cuoricino, un po' più su della gola, in verità? Non finì quella domanda, che era un pensiero confuso dalle immagini, che la lama fece il suo lavoro, in fretta ed in silenzio. Lui voleva gridare, ma senza spaventare il padrone per non fargli capire subito che non ci stava più a quello stupido gioco. E poi non era sicuro che fosse un gioco. E se era una punizione? Sicuramente la meritava. Gridò, ora, ma per la sorpresa di quel dolore, quando la lama uscì da quel fodero morbido e caldo ed incontrò soddisfatta gli occhi del padrone, che sembravano proprio parlare, ancora una volta dire "Com'è saporito il coniglietto". Con le zampette abbracciò il polso del suo assassino, ma questo subito se lo scrollò di dosso graffiandosi e imprecando. Così dovrebbe finire il racconto, ma non posso, non posso far morire anche lui.... Ed ecco che nel giardino comparve d'incanto Luca, il figlio minore del padrone. Non vide la lama ma il sangue che schizzava forte sul braccio del padre e gli occhietti del coniglio che guardavano senza vedere proprio nella sua direzione, quasi come si vergognasse di farsi vedere da lui con la lingua di fuori e con il vomito che gli insaponava il pelo grigio e vellutato. Luca non credette a quello che vedeva: atroce, troppo atroce era quello che stava accadendo; ed era il padre l'artefice? No, non ci credette e gridò con tutto il fiato che aveva in gola: "No, no papà, non farlo, ti prego, non fare del male al mio Lucariello. Se muore lui, te lo giuro, morirò anch'io". E si accasciò al suolo un attimo dopo che il padre aveva lasciato andare finalmente quell'inutile preda, come beccato in flagranza e senza attenuanti né movente. Si spaventò: il bambino era bianco in viso e tremava con tutto il corpo, anzi il braccio destro tremava un po' di più. Sembrava quasi indicare con decisione il corpo del coniglietto che inzuppava con il suo sangue la lattuga, che stava diventando il suo morbido letto di morte. Mentre il padre lo raccolse come avendo paura di toccarlo con quelle sue mani insanguinate, Luca indicò veramente quel batuffolo sporco che ancora si agitava per terra facendo strazio, con il sangue, pure dei finocchi col pennacchio. Corse dentro il papà di Luca e chiamò la moglie, ma Luca indicò ancora il giardino e ripetè il nome, battezzando il coniglietto. Il padre dovette capire, anzi fece finta, ma mai suo figlio aveva chiamato Lucariello il coniglio e questo lo dovette impressionare molto se fece quello che fece. Senza capire, ancora senza capire, lasciò il figlio, che si era già ripreso, alle cure della moglie, si precipitò fuori, in giardino, e si fermò per un attimo davanti al corpicino aspettando un segno. Questo arrivò con uno scatto delle zampette e lui non stette indeciso per capire se fosse l'ultimo anelito di vita e afferrò il piccolo. Corse dentro e mentre cercava le chiavi della macchina gridò rivolgendosi al bambino: "Lo porto in ospedale, non ti preoccupare; s'è fatto male con le forbici. Ti prego, non ti preoccupare". Lui si vergognò di questa sua debolezza, ma si ripagò quando vide suo figlio che d'incanto si calmò e guardando la mamma, che era più arrabbiata che spaventata, disse: "Lo sapevo che papà non era un assassino...". La confusione e il desiderio di essere deboli per farsi perdonare di amare così tanto a volte fanno fare cose bellissime: il coniglietto fu fasciato per fermare l'emorragia e portato da un veterinaio che abitava proprio lì vicino. E lui guarì miracolosamente. Si riprese e Luca, il bambino, volle vederlo; ma vederlo non gli bastò. Lo accarezzò quando il suo papà glielo portò, ma nemmeno gli bastò e lo adagiò sul suo lettino. Pretese che il medico che lo stava visitando controllasse anche il suo amichetto e tranquillizzasse anche lui come aveva fatto con i suoi genitori per lui. Il medico non ebbe il coraggio di opporsi, complice lo sguardo dei genitori, che sembravano meravigliarsi della sua meraviglia. Il bambino si stancò di vigilare e, ormai tranquillizzato, si addormentò. Pochi giorni dopo il coniglietto svegliandosi incontrò il contatto premuroso proprio del suo padrone, che lo sistemò meglio sul cuscino vicino al bambino. D'istinto il piccolo si spaventò agitando le zampette come spade e si parò il petto. Ma poi, guardandolo fino agli occhi, capì e sbuffò soddisfatto: "Lo sapevo io... che sono saporito. Mi hai fatto prendere un bello spavento. Quella punizione forse non me la sono meritata... ma come è morbido questo cuscino!". E finalmente il sonno si prese cura anche di lui dolcemente. giuseppe belcore
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