MattNon chiedetemi di dimenticare. Non posso.
Sono passati sette mesi da quando Matt è morto, e a volte, quando mi immergo nei ricordi alla ricerca di qualche segno premonitore del destino, una sensazione strana si impadronisce di me e mi fa star male. Ancora adesso, e’ come se lo vedessi passare davanti a me, con tutta la naturalezza di questo mondo, e sorridermi affettuosamente. E’ come se sentissi la sua voce, e il rumore dei suoi passi mentre sale le scale e si dirige nella sua camera a studiare o a giocare col computer. Mi sembra persino di sentire il rumore del tasto di accensione, e il ronzio – che un tempo mi faceva venire il mal di testa – emesso dalla stampante quand’è in funzione. A volte entro persino in camera a vedere, ancora convinto che per distrazione ci siamo dimenticati qualcosa acceso. Ma non appena apro la porta, e il mio campo visivo si riempie del mare di oggetti appartenuti alla realtà di Matt, di colpo il ronzio cessa di esistere, e le presunte voci scompaiono, soppiantate dal silenzio imperturbabile di una stanza vuota.
E’ stata una delle prime volte che ciò mi capitava che mi sono seduto sul letto ed ho iniziato a chiedermi com’era successo. Perché era successo. Per quale squallido scherzo del destino, un attimo prima ero felice, e un attimo dopo non ero altro che la patetica ombra di un uomo alla ricerca di una ragione di vita.
Ancora adesso, se ci penso, rivedo tutto, nei minimi dettagli…
Eravamo appena rientrati da un week-end nella nostra casa sul lago, consumata, come sempre da quando Matt aveva compiuto sedici anni, da soli. Christine indossava un vestitino di cotone bianco, che alla luce del pomeriggio destinato ad estinguersi di lì a poco lasciava trasparire il disegno delle gambe sottili e dei fianchi sinuosi, con una cinta di tulle rossa; quella cinta doveva essere stata confezionata con lo stesso tulle del fazzoletto che le avvolgeva i capelli per non farli scompigliare troppo dal vento, ricordo di averlo pensato, ma non glielo chiesi.
Io avevo ancora la mente piena delle risate di Christine e delle immagini dei suoi sguardi sottilmente intrisi di malizia mentre si sfilava la sottoveste, avvolta dalla luce soffusa della lampada che si amalgamava col buio e col bagliore dei raggi della luna piena che penetravano attraverso la finestra aperta; lasciavamo la finestra aperta di notte, perché il clima del lago è molto più mite che da noi, e poi allora eravamo agli inizi di giugno e la calura iniziava a farsi sentire, col suo fare appiccicoso e torpido.
Ma mentre fermavo la macchina davanti alla serranda abbassata, chiedendomi quanti giorni sarebbero passati prima che avessi potuto nuovamente passare un week-end all’insegna del non far niente in riva al lago, mi venne in mente che a differenza di sempre Matt non era venuto ad accoglierci sulla soglia dell’ingresso posteriore della casa, seminascosto dall’edera e dalle piante rampicanti che tappezzavano col loro verde acceso la ringhiera e le assi incrociate della verandina in legno di mogano.
Fu un problema sul quale non mi soffermai troppo mentre mi accingevo a sollevare la serranda, e incrociavo il mio sguardo con quello di Christine, che se ne stava spaparanzata sul sedile davanti col suo fazzoletto di tulle e con la sua aria da diva di Hollywood, e che tutto a un tratto mi inviò un bacio soffiandolo sul palmo della mano.
Non risposi mai a quel bacio.
Fu proprio mentre lei me lo spediva, o forse mentre le sue labbra dipinte di rossetto assumevano la forma di un cuore rosso fragola, che cominciai ad avvertire una certa resistenza nell’aprire la serranda. Di norma la lasciavamo aperta, perché in garage non c’era niente che valesse più di mucchi di giornali dalle pagine ingiallite e serie di bottiglie polverose vuote allineate negli scaffali in legno; e comunque Matt era in casa, e la tradizione in casa Kendall voleva che se in casa c’era qualcuno la chiave non dovesse fare nella serratura più di quattro giri al giorno, ripartiti a metà fra il mattino – all’incirca alle nove – e la notte – verso le undici se c’ero io, abbondantemente più tardi se Matt usciva con gli amici. Ragion per cui non c’era niente che mi suggerisse che la serranda dovesse essere ancora chiusa a quell’ora del pomeriggio.
Invece lo era. Circostanza passibile di diverse interpretazioni, ma in quel momento nemmeno una di esse sfiorò me o il solido castello di certezze che imperava fino ad allora nel mio io, e tutto sommato, penso che se qualcuna l’avesse fatto, non sarebbe certo stata quella giusta.
Più volte dopo di allora mi sono tornate in mente le parole di un autonoleggiatore che quando ero studente aveva veicolato me e la mia valigia stracolma di biancheria sporca fino ai gradini dell’ingresso di casa Kendall, inoltrandosi con la sua vettura nell’impervia strada bianca costeggiata dalle distese erbose e dai sempreverdi maestosi che conduceva alla tenuta agricola dei miei genitori senza aggiungere un centesimo alla tariffa routinaria.
“Viviamo in un mondo di egoisti – mi aveva detto cupamente – E i nostri figli sono in cima alla lista degli egoisti che ci circondano.”
Avevo capito subito che stava prolungando il suo viaggetto in mia compagnia solo per dar sfogo al fuoco che gli bruciava dentro a causa della presunta ingratitudine di qualcuno dei suoi figli.
“Fai gli straordinari per mandarli a studiare. Ti privi di tutto, smetti persino di fumare per vestirli di abiti decenti e permettergli di andare a scuola coi libri nuovi invece che comprarli di seconda mano. Sogni di vederli il giorno della laurea, con la cravatta al collo e il cappello in testa. – e lì il suo tono si era fatto tetro e il suo sguardo buio come una giornata uggiosa – E un bel giorno te li vedi entrare a casa con un orecchino nel naso e uno nell’ombelico, e ti dicono che dopo il diploma non hanno nessuna intenzione di continuare a studiare; nossignore! Caschino pure i fulmini dal cielo, che loro si cercheranno un lavoro e tanti saluti a tutti.”
Se penso alla sofferenza che trapelava dalle sue parole e a quella che ho provato io dopo la morte di Matt, o per meglio dire dopo il modo in cui è morto, concludo senza pensarci due volte che avrei preferito vedere Matt arrivare in casa coi capelli lunghi fino alla schiena e una dozzina di orecchini appesi alle orecchie, al naso, all’ombelico, persino alla lingua, e sentirlo dirmi nel modo più brutale che non voleva più studiare; e penso che l’avrebbe preferito anche l’autonoleggiatore al mio posto.
Non appena mi resi conto che la serranda non si sarebbe aperta comunicai, un po’ seccato, a Christine che era chiusa, e subito lei aprì la portiera e mi precedette fino alla porta. Neppure lei si domandò perché.
“Matt, tesoro, siamo tornati!” gridò battendo con le nocche sul vetro della porta.
Nessuna risposta.
“Matt, vuoi aprire?” cominciavo innervosirmi; a dispetto di Christine bruscamente voltò il capo.
“Matt, apri! Siamo tornati a casa!”
“Perché invece di sgolarti non vai a prendere la borsetta che hai lasciato in macchina? E’ probabile che all’interno trovi le chiavi.” Suggerii sarcastico.
Le pupille nere fremettero nel mare verde in burrasca degli occhi di Christine; lei non lo sapeva, ma era lo stesso mare tempestoso che aveva fatto si che m’innamorassi di lei.
“Victor, il nostro ragazzo non si è fatto trovare in casa come sempre, non risponde ai nostri richiami, e la serranda del garage è insolitamente chiusa. Ti sembra il momento di fare dello spirito, per caso?”
“E a te sembra il caso di fare tragedie per così poco?”
Per tutta risposta Christine girò sui tacchi e corse in macchina, col vestito bianco che sbatteva leggero sulle gambette nude, e afferrò la borsa abbandonata sul sedile. Ricordo di aver pensato che certo per avere quarant’anni aveva proprio delle gambe niente male. La porta si aprì, e l’unico rumore che udimmo fu l’eco del cigolìo dei cardini della porta – era da tempo che necessitavano di una generosa oliata – mentre si spandeva nell’ingresso vuoto.
Dopodiché, silenzio.
“Matt, amore…”
Ancora niente.
“Sarà uscito.” Dissi, innervosito dal terrore che a poco a poco si dipingeva negli occhi di Christine.
“Non l’ha mai fatto quando sapeva che dovevamo rientrare…”
Salii in camera sua: Matt non c’era.
“Victor! Vieni!” urlò da sotto Christine. Corsi giù e vidi la porta, che dal cucinino conduceva all’ingresso dall’altra parte del garage, aperta sullo zerbino consunto recante la scritta verde “Welcome”.
Avrei voluto che gli occhi di Christine fossero colmi di semplice apprensione, invece erano intrisi di paura. Paura allo stato puro, s’intende; la stessa paura e lo stesso smarrimento che doveva sicuramente leggersi negli occhi di Pollicino non appena si fu reso conto che mamma e papà non sarebbero tornati a prenderlo; la stessa paura che certamente provò Rossella O’Hara quando Rett l’abbandonò nel bel mezzo di una guerra con una carrozza, un cavallo bolso, una negra ritardata, una donna semidistrutta da un parto travagliato e un bimbo appena nato che strillava come una sirena della polizia.
E quella paura io l’avrei presa per il collo e l’avrei gettata nella spazzatura, se mi fosse stato concesso.
Vattene, maledetta!, provai a dirle col pensiero.
“Victor….” Mi disse con un filo di voce.
Sgattaiolai verso il garage e ne aprii la porta, con Christine dietro di me.
L’odore del monossido di carbonio mi riempì le narici giungendo fino a carezzarmi la gola…
“Victor, perché è tutto buio?”
Era buio, buio pesto. Dai vetri opachi delle piccole finestre giungevano sottili spiragli di luce, che per entrare dovevano lottare con pezzi di cartone fissati apposta col nastro adesivo, presumibilmente da Matt. La Ford che gli avevamo comprato per il diploma era ferma davanti a noi, e sui fari spenti rifulgeva la luce del sole del pomeriggio caldo di giugno, in un’immagine che da allora in poi rimase come forgiata a fuoco nei nostri occhi spauriti…
“Matt!” urlai, mentre un atroce sospetto cominciava a insinuarsi nella mia mente.
No, non era possibile.
Mi avvicinai e scorsi la sagoma di mio figlio abbandonata sul sedile…
Forse stava dormendo…
Il cofano anteriore era leggermente sollevato, e da vicino vidi che un tubo di plastica era stato fatto passare da sotto la lamiera fino a penetrare attraverso il finestrino, il quale era stato sollevato tanto da lasciare una fessura larga circa tre dita.
Il tanfo del monossido di carbonio si avventò sopra di me appena ebbi aperto la portiera…
Fai che sia un sogno, Signore ti prego, fa che sia solo un sogno…
Come nel più squallido degli incubi, e poi ancora peggio, cento, mille volte peggio, vidi il corpo di mio figlio riverso all’indietro sulla spalliera…
Non farmi questo, ti prego
…gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, i capelli neri lunghi fino alle spalle che ricadevano negligentemente indietro…
Se non è un sogno, fai almeno che sia ancora vivo…
D’istinto lo afferrai per la bretella della tuta in jeans che indossava sopra una felpa nera, e lo strattonai fuori dalla macchina. Il piede dentro la scarpa da tennis dalla suola in gonna scivolò con un rumore stridulo dal pedale del maledetto acceleratore.
Solo allora mi accorsi di Christine.
Dietro di me, aveva visto tutto. E non appena ebbi tirato verso di me suo figlio, lasciandolo per metà dentro e per metà fuori, cacciò un urlo che sembrò venir su salendo a velocità vertiginosa dagli scomparti più bassi della sua persona, e travolgere tutto e tutti come una specie di uragano.
Perché cavolo non avevo pensato a farla uscire, quando mi ero accorto della puzza di monossido di carbonio che impregnava l’aria?
Mentre cercavo di trascinare completamente fuori Matt, e nel frattempo richiamavo alla mente le nozioni di pronto soccorso apprese a scuola guida anni prima, mi resi conto che dovevo agire. Spettava a me prendere in mano le redini della situazione; che lo volessi o no, ero io l’unico esponente di quello che qualcuno, forse per aumentare l’autostima di noi uomini, chiama il sesso forte.
Adagiai Matt sul terreno e presi il volto di Christine fra le mani, fino a placare le sue urla.
“Christine, amore, ti prego – le dissi dolcemente – Va a chiamare l’ambulanza. Forse possiamo ancora fare qualcosa, ma certamente non concluderemo niente se non manteniamo la calma. Per piacere, non perdere tempo, perché anche un minuto è prezioso per la vita di Matt.”
“Sii…” mi disse in un soffio, e barcollando si diresse in casa.
Mi chinai per fare a Matt la respirazione bocca a bocca, ma ben presto compresi che era inutile. E lo compresi nel momento in cui le mie labbra si incontrarono con le sue, e le mie dita si chiusero, tremanti, attorno alle sue braccia.
Fu in quel momento che nella mia mente balenò come una saetta un pensiero: la certezza ineluttabile che entrambe avevano chiuso.
Che quelle labbra dure e contratte non avrebbero mai più posato un bacio sulle labbra di un’amante, e quelle braccia rigide non si sarebbero mai più protese ad abbracciare suo padre al termine di una partita di baseball conclusasi con la vittoria dei nostri.
Le braccia e le labbra di un morto non possono fare nessuna di queste due cose, mio caro.
Il pensiero che Matt era morto mi travolse in tutta la sua cruda brutalità; mi alzai in piedi : dovevo fare qualcosa.
Senza nemmeno badare al tremore che mi attraversava le gambe, e ai frementi brividi che dalla radice delle braccia mi percorrevano fino alla punta delle dita, mi avvicinai agli scaffali incassati nella parete. D’istinto, afferrai una bottiglia di Jhonny Walker vuota che pochi mesi prima aveva festeggiato assieme alla famiglia Kendall completa di nonni e zii l’arrivo dell’anno nuovo, e con una forza inattesa probabilmente infusami dal dolore, la scagliai contro il muro.
I pezzi del vetro si proiettarono da tutte le parti sullo sfondo buio di quell’angolo del garage, e finirono in una pioggerellina di frantumi sul pavimento, ai piedi di una vecchia bilancia da farmacia.
La figura di Christine comparve come l’immagine evanescente di un angelo sullo sfondo delle ultime luci del pomeriggio, proprio mentre nel cielo cominciavano a farsi strada le tenui sfumature del tramonto, rosate e violacee in un amalgama delicato che si spandeva nel cielo.
Vidi i suoi occhi devastati spostarsi velocemente dal corpo esanime di Matt, steso poco lontano con le suole in gomma delle scarpe da tennis aperte a disegnare una larga V un po’ coricata sulla destra, ai cocci della bottiglia sparsi sul pavimento, per capitolare sui miei, di occhi. I miei occhi che dovevano essere in quel momento, il ritratto della disperazione.
Lentamente, mia moglie si avvicinò al suo bambino, e piombò inginocchiata ai suoi piedi.
Rimasi ad osservare ciò che faceva, attraverso l’opaca trasparenza delle lacrime che cominciavano a velarmi gli occhi. Per un attimo, credetti che avrebbe urlato di nuovo. Invece non lo fece.
Non emise un gemito. Solo, prese fra le sue la mano bianca esangue di Matt e la strinse con tutta la forza che il cuore affranto di una madre può infondere nelle sue stesse mani, e, silenziosamente, pianse.
FINE