zanin roberto
Senatore
Italy
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Inserito - 06/12/2005 : 20:10:09
LA FONTANAIl rumore degli zoccoli d'un vecchio cavallo cadenzavano la siesta del dopo pranzo, l'estate era prossima, il mio paese era intorpidito da dal suo semplice provincialismo campagnolo, le rare automobili non erano traffico ma curiose apparizioni. Gli anni sessanta, appena iniziati, cominciavano a portare l'eco d'un benessere nuovo, dal tragico dopo guerra, schegge di modernità rimbalzavano lente dalla città e qualche ardito parlava emozionato di televisione, cinema, di moda, di automobili ma noi ragazzi ci facevamo affascinare da un proiettore superotto che a scuola avevamo visto per la prima volta, illustrare l'organizzata vita di un alveare e dal ciclo-stile che il nostro maestro elementare di terza, goriziano, basso come Rascel, ci aveva fatto usare per stampare il giornalino di classe. Ai bar paesani si faceva la coda per vedere Carosello alla televisione in bianco e nero, il ritmo di vita veniva scandito dai rintocchi della campana del Santuario...che frenesia, che gioventù, che entusiasmo! I pomeriggi erano lunghi, gioiosi, presa la bicicletta ci raggruppavamo e si scorazzava per il nostro paese, Cordovado, in lungo e largo, dal borgo medioevale alla Piazza S.Caterina, dal Duomo Romanico a Piazza al Tiglio, dalla chiesetta di S.Antonio di Saccudello al viale della Stazione, erano caselle d'un gioco dell'oca, erano le stanze del nostro giocare, incontravamo gente conosciuta ovunque, non c'erano spazi ignoti, era casa nostra. Ma...da via Rogge, iniziava un percorso ancora misterioso e affascinante che conduceva lentamente, gradualmente in campagna, una specie di luogo iniziatico che pur essendo immerso nella natura ci raccontava di storia, di letteratura, di tradizione, di attrazione ludica, di magica atmosfera, di incanto bucolico. La bicicletta sobbalzava sulle pozze ampie, l'officina di Nicodemo era superata, sul ponticello della Roia dove finiva l'asfalto, lo sguardo si perdeva nello stradone bianco impolverato che affiancava il vecchio campo sportivo, alberato da maestosi platani e si innalzava sulle rotaie della ferrovia. La casa di Odorico vegliava paure latenti li vicino, la luce iniziava a verdeggiare riflessi arborei, i laghetti Paker chiazzavano di mare i nostri sogni, fredde acque sorgive dove i nostri genitori s'erano tuffati, nati ai primi del nocento per estrarre la ghiaia. Ormai le case, il paese s'era obliato, ora il gruppo sparpagliato si era riunito, le grida si erano attenuate, come uno scoiattolo curioso e ingenuo il nostro avanzare si fece educato, più rispettoso, inconsciamente educato. La curva secca ci fece perdere velocità, l'aroma intenso del sambuco ci inebriò la fantasia, un cane impaurito abbaiò ritirandosi al nostro passare. Ora l'ombra silvestre avvolgeva i nostri pensieri, rovi fioriti, muschi, edere a liana che richiamavano la giungla, un picchio sornione musicava quel mistico silenzio, filtrava di tanto in tanto un sole delicato che sceneggiava luci e ombre, colori pastello e rugose corteccie dal tono di tabacco s'alternavano alle lisce dei salici. Abbandonate le bici, prima dell'ingresso virtuale nella zona della fontana, ci ritrovammo abbracciati a camminare insieme. Uniti come non mai, rapiti e sognanti mentre ci appariva l'ovale in marmo di ellenica memoria che conteneva l'olla risorgiva d'un arcaico ramo del fiume Tagliamento. Era la fontana di Venchieredo. Era la nostra Stonehenge, il magico Menhir, il Totem che ci teneva legati e che iconizzava la nostra infanzia. Forse era un ottimo luogo per incontri amorosi come lo descriveva romanticamente nel suo libro Ippolito Nievo, forse era una fonte d'origine romana sull'agro Concordiese, ma forse poteva essere un magico sito dove il confine tra realtà e fantasia si dissolveva. L'incanto dell'acqua che riaffiora limpida e fresca da un letto di sassolini bianchi e inizia a scorrere tra erbe aromatiche e terre grasse, con il salice che intinge le sue fronde nel nobile liquido, gli alti olmi a racchiudere protettivi quello spazio unico, con gli uccelli a sorvegliare che la fontana sia rispettata, dava pace e serenità. I quattro gradini lunghi a degradare, in mattone rosso, ci accoglievano come spettatori nell'arena della natura, gettavamo sassolini nello specchio d'acqua, ridevamo della lucertola spaventata che fuggiva indispetita, e ci distendavamo a testa in su a giocare con i coraggiosi raggi che penetravano impudenti dal folto fogliame. Il tempo si fermava, là protetti dalla società ci sentivamo in un rifugio inviolabile e quando un leggero rumore lontano di trattore ci destava, allora inforcate le biciclette, come un unico gesto, ci lanciavamo nella strada che porta ai vecchi Molini di Stalis, con l'aria che ci spazzolava i capelli, lanciando un'ultima occhiata indietro, alla fontana, la ringraziavamo di tenere segreti i nostri sogni inconfessabili e gioiendo di avere quel posto dove l'amicizia, la speranza, la pace sono in ogni goccia del suo sgorgare. Quel tempo non c'è più ma la fontana continua a vivere, secolo dopo secolo, a tenere segrete le inconfessate pulsioni, a dare pace e serenità a chi passa di là e ha il coraggio di lasciarsi cullare dal suono della sua acqua, dalla luce irreale, dal pathos che solo un animo sensibile sa cogliere. di Zanin Roberto
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