Luigi Mannori
Senatore
Italy
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Inserito - 25/10/2006 : 20:04:13
LA PUZZA DELL'AMORECapitolo 5° L’attrezzatura a mia disposizione per elaborare gli arrangiamenti non era certo ideale, costituita da un mangianastri (mono) di scadente fattura (non disponendo degli spartiti delle canzoni da arrangiare, dovevo ricavarmeli direttamente dai nastri) e da una tastierina, stridente e relativamente intonata, ascoltata in una cuffia che già da qualche anno aveva chiesto “l’avvicendamento”, la quale contribuiva a confondere ulteriormente i suoni che vi venivano immessi; ma non si poteva lavorare in altro modo poiché, oltre a servire quale amplificatore, aveva la importante funzione di tentare di isolarmi dai rumori della vita del feudo che pareva avesse acquisito una inconsueta vivacità, costantemente fomentata dalle chiacchere e dalle risate delle sorelle validamente spalleggiate dalla Bertuccia, seconda a nessuno quale produttrice di “casino domestico”. Pupina, per ingannare il tempo eccedente i suoi quotidiani esercizi di allenamento e mantenimento personale, andava sovente insieme alla Feudataria ad aiutare “le mogli dell’organizzazione” ad approntare i costumi del costituendo spettacolo, naturalmente alla “villa padronale”, dotata di attrezzature semiprofessionali procurate allo scopo, ed era regolarmente subissata di richieste di informazioni sul mio conto; tutto ciò comunque era abbastanza normale, dato che praticamente, da quando ero arrivato a Cafoniland, nessuno mi aveva visto circolare se non per fare la spesa o comprare le sigarette (quest’ultima cosa poteva passare, ma la prima lasciava letteralmente sbigottiti tutti gli indigeni) e li meravigliava vedere una persona tanto impegnata nel lavoro, quanto incurante della presenza di ben cinque bar superaffollati, in un paese dove non esiste un autentico fruttivendolo, né un elettricista e dove i pochi negozi, per sopravvivere, hanno assunto le caratteristiche di bazar, i più moderni osando segnalare, con insegne concepite molto fantasiosamente, la presenza di Supermercati nel monolocalino sottostante. Il pomeriggio andavamo sempre a provare, ed ogni prova confermava la persistenza dei difetti d’insieme e la superficialità dello studio, condotto troppo rapidamente, senza curare nulla di quanto veniva sottoposto alla nostra lettura, ma non avevamo ancora provate tutte le canzoni del repertorio e questo rimaneva una valida scusante, anche se non condividevo tale metodo di studio, che il mio punto di vista riconosceva dispersivo, per tanta fatica inutile e scarsamente realizzante, per i risultati che poteva produrre. Dato i discorsi che avevamo fatto, mi ero decisamente avvicinato al Regino per studarne le abitudini ed imbastire un’ipotesi di approfondimento di un’eventuale amicizia: da che mondo è mondo, una donna non tradisce senza motivo ed anche lui, in fondo, era un indigeno e quindi potenzialmene soggetto a tutti i difetti derivanti dalla presunzione e dalla insensibilità della categoria. Non mi era mai stato presentato alcuno dei presenti e se ero riuscito a conoscere il nome di qualcuno di loro, era stato per mia iniziativa o per “spifferamento” dell’Antropofago. Il Maestro trattava tutti con indulgente cortesia e familiarità, ma pareva non avesse alcun interesse a favorire conoscenza e confidenza tra noi. L’Antropofago cominciava nel frattempo a frequentare il Feudo con maggiore intensità, più che altro per manifestare la sua ammirazione per la mia rapidità nel rintracciare melodie ed armonie, dai nastri che dovevo tradurre in spartiti e si era meravigliato, essendo la prima volta che ne avvicinava una, nel vedermi eaborare ogni brano sulla “partitura” (nome che indica la stesura completa, di tutto ciò che viene suonato da un’orchestra, percussioni incluse, su un unico fascicolo composto a mo’ di libro, che permette al Direttore di seguire tutti gli strumenti contemporaneamente). Non aveva perso tempo a farmi presente che “lì” nessuno lavorava “in quel modo”, neppure il Maestro che, a parer suo, sarebbe rimasto molto impressionato da quanto stavo dimostrando e mi avrebbe sicuramente affidato l’incarico di “arrangiargli i repertori” di tutte le sue “orchestre”(pareva ne avesse tre), per le stagioni a seguire. Il suo entusiasmo rasentava le stelle e, fatto eccezionale per le sue abitudini, lo induceva a trascorrere ore a vedermi lavorare ed a subissarmi di domande che tendevano ad informarlo su cosa avrebbe potuto fare per diventare come me, ma i suoi discorsi miravano sempre alla ricerca di uno strumento capace di confezionargli sibilline vendette e non al gusto di essere professionalmente preparato per propria soddisfazione e realizzazione; per quanto poteva trasparire, il suo problema più grande era riuscire a insaccare il cappello di Luogotenente, senza contare che il Maestro, in fatto di scelte delle musiche e relativi arrangiamenti, collaborava troppo con la coppia del Regino e della Regina, mentre lui era convinto di poter scegliere con gusto maggiore. Soprattutto lo irritava la convinzione che la Regina potesse scegliere le cose più belle e moderne, per realizzare il proprio repertorio, mentre sua moglie, la Feudataria, era forzata ad accontentarsi di quanto le veniva imposto, pur essendo maggiormente dotata come catante ed artista di provata esperianza e professionalità. Mi aveva confermato risolutamente che quanto avevo visto sino a quel momento, avrebbe rappesentato il massimo delle “partiture” a mia disposizione per l’intera stagione, dal momento che il Boss aveva il vizio di curare solo la sezione dei fiati e che tutto il resto, come sempre, era affidato alla fantasia degli elementi a disposizione, e quando alla mia meraviglia avevo aggiunto che molti spartiti mi parevano errati, aveva risposto che non c’era da sorprendersi, dal momento che la maggior parte li aveva “copiati dai dischi” il Regino stesso, che in fatto di musica era notoriamente digiuno. Nei dintorni di ‘sì accorata partecipazione, si era affacciata l’occasione di conoscere più da vicino anche l’altro dei Sax Contralto, venuto a trovare l’Antropofago e forse anche a spiare quel mio lavoro, tanto decantato dall’amico. Era un ragazzone dotato di un fisico da culturista, ma abbondantemente ricoperto dalle evidenti, eccessive cure dei suoi genitori, espresse sotto forma di grasso, che comunque non ne sbilanciava la linea, essendo disposto in maniera assolutamente uniforme su tutto il corpo; lo sguardo entusiasta, tradiva la sua serenità e spensieratezza, tipico esempio di giovane senza problemi, votato al divertimento improvvisato e spontaneo. Era molto dedito alla cura dei capelli, dai quali pretendeva la continua ed assoluta compostezza, onde non permetter loro di alterare il controllo di un’adonica estetica di cui era convinto possessore: non eccessivamente pronto nei riflessi ma desideroso di dimostare dinamismo e capacità, senz’altro. Anche lui non aveva risparmiato al mio lavoro, elogi ed ammirazione, ma decisamente indirizzati al riconoscimento di un valore professionale che aveva subito confrontato con quanto apprezzava nel suo insegnante del Conservatorio. Era chiaramente stufo della vita di Cafoniland e nel commento delle mie “peregrinazioni professionali”, che già conosceva per i “comizi” dell’Antropofago, sembrava trovasse riscontro il suo sogno di evasione dalla monotonia del paese, forse unica, grande oppressione dei suoi giovani anni. Fedele amico di “scorribande” dell’Antropofago, ne era inseparabile compagno per tutta la giornata “extradomiciliare”: tendente allo spaccone e sempre pronto a minacciare violenza, era in realtà la pubblicità vivente dell’ amicizia più sincera, della bontà e dell’educazione, anche se distorta in alcuni aspetti per il livello di interpretazione, diffuso negli ambienti umili ma onesti della parte operaia dell’Italia, di cui la sua famiglia era un classico e simpatico esempio. Strumentalmente poteva senz’altro essere considerato uno degli elementi più utili, essendo dotato di una buona tecnica e di una gradevole voce, che cercava sempre di intonare e perfezionare, dimostrando una serietà che suppliva di gran lunga alla carenza di esperienza. La sua amicizia verso di me si era manifestata dai primi contatti, probabilmente favorita dalla riconosciuta parentela col suo inseparabile amico, ma misurata dal rispetto per la mia età, per la maggiore preparazione professionale e soprattutto per il mio “curriculum vitae”: l’insieme delle sue caratteristiche mi ha importo di ricordarlo come “il bimbone”. Aveva collimato perfettamente con le scadenze richieste dal Maestro, il giorno che mi vedeva arrivare alle prove, munito del primo arrangiamento, completato e trascritto. Tutti si erano dimostrati impazienti di suonarlo e non avevano nascosta la meraviglia anticipata dall’Antropofago, alla vista della Partitura. Dopo la distribuzione degli spartiti, si era diffusa un’atmosfera di tipo “parlamentare”, quelle che preannunciano importanti votazioni a scrutinio segreto preda di pericolose votazioni trasversali e dell’attività di “franchi tiratori”: “i fiati”, avevano gioito per la vista di uno spartito finalmente completo, anche delle indicazioni relative all’espressione, il batterista, con l’aria di chi si deve confessare prima di un’esecuzione capitale, mi aveva timidamente precisato che non leggeva la musica, e l’organista, incapace di altrettanta sincerità, cercava di dimostrarsi insoddisfatto poiché lo spartito, scritto per esteso, privo delle sue “adorate” siglature semplificative, non era sufficientemente chiaro. Avevamo cominciato a suonarlo, ma questo verbo è chiaramente una pura esigenza indicativa, poiché di quanto si era potuto udire, nulla aveva la parvenza di suoni e ritmi, né tantomeno pareva stessero leggendo quanto gli avevo sottoposto: sicuramente la Banda “Rumpi e Strassa” di Savona, avrebbe ottenuto risultati più eclatanti. Il Maestro, cercando di sopprimere un’evidente imbarazzo, aveva commentato molto favorevolmente il lavoro ma, sottolineandone le difficoltà, lo aveva giudicato bisognoso di particolare cura ed applicazione. Aveva suggerito di rimandarne la prova al giorno successivo, dal momento che avremmo potuto dedicargli l’intero pomeriggio in quanto, per improrogabili impegni, lui sarebbe stato costretto ad assentarsi. La mia precisazione che il giorno successivo avrei consegnato pronto, anche il secondo arrangiamento, aveva sottolineato la genialità dell’intuizione del rinvio e gli spartiti, con una rapidità da personaggi Disneyani, erano stati raccolti ed accantonati. Quel pomeriggio si era inoltre presentata l’occasione di conoscere la Regina, come al solito non presentata, se non dalla necessità di provare le sue canzoni. Non era certo una donna bellissima, ma sicura di se ed aggressiva dall’aspetto, certamente intelligente, dotata di predisposizione al dialogo, ma molto distaccata e superiore nei rapporti coi terzi, decisamente conscia dell’ investitura di particolari poteri che riuscivano a confermare la fondatezza, una volta tanto, della “voce del popolo”. I lineamenti del volto, irregolari, lo dividevano in due metà nettamente distinte, differenza accentuata anche dalla mobilità indipendente delle sopracciglia che sovrastavano due occhi azzurri e interessanti, coronati da una capigliatura biondo platino, curata, ma tendente ad uniformare l’insieme per la presenza di una carnagione molto chiara: su tutto spiccavano nettamente le lunghe ciglia, che come sempre arricchivano lo sguardo, a prima vista stanco, anche se visibilmente attento. Il tutto era comunque coordinato a tal punto da imporre un suo fascino, facilmente paragonabile al bello e certamente un buon trucco l’avrebbe valutata al massimo, esposto alle luci della ribalta. Il fisico non era un gioiello di perfezione ma sicuramente attraente, capace di esprimere la sua evidente, accentuata femminilità, soprattutto se rivestito con il gusto che lei sapeva dimostrare: a giudicare dai tacchi che utilizzava, aveva chiaramente il complesso dell’altezza. Professionalmente era senza dubbio sufficientemente esperta per figurare, anche se chiaramente impreparata da un punto di vista tecnico e culturale. La sua voce, come si suol dire, “ineducata” ma piacevole e sufficientemente estesa per mascherare alla massa degli ascoltatori il difettoso sfruttamento del fiato, del diaframma e del timbro: lei cantava per istinto e crude doti naturali, come la maggior parte delle ragazze che non riescono a spiegarsi l’irrealizzazione dei sogni giovanili, sotto forma di “carriera” e che si rifugiano per consolazione in questi “gruppi marginali”, ove possono trovare una dimensione che le illuda di aver ottenuto un risultato. Il difetto principale era sicuramente l’ eccessiva imitazione degli originali di cui interpretava le canzoni, ed una generica glacialità, che non riusciva ad entusiasmare, per lo meno me, mentre si stava esibendo. Ma, come ho detto, ostentava un’esperienza che le permetteva di apparire sicura e decisa e questo, all’occhio del profano, può essere facilmente confuso con la bravura. Pensando alla presentazione che mi aveva anticipato l’Antropofago, avevo dedotto quanto non avesse capito niente e chiaramente si era espresso per invidia, poiché la Regina, culturalmente era sullo stesso piano della Feudataria, ma come resa, anche per una maggiore cura di se stessa (e l’occhio influisce sempre sul giudizio delle orecchie), era di gran lunga superiore e dimostrava una sensibilità, anche se allo stato latente e frustrata, che stimolata avrebbe potuto dare risultati eccezionali, ma già così nascosta le forniva quella cosiddetta “marcia in più”. Quella sera l’Antropofago, supergasato dallo svolgimento delle prove, si era dimenticato completamente dell’ esistenza dei Bar, aveva cenato con noi e non sapeva più cosa dire per rivivere in qualche modo gli avvenimenti della giornata, una volta di più. Lo divertiva immensamente ricordare la faccia dell’Apache quando si era visto presentare lo spartito e non finiva di sottolineare che il Regino non sapeva più che scusa trovare per nascondere l’ incapacità a leggere il suo; anche con il Boss riusciva a dimostrare risentimento, asserendo che lui non sarebbe stato capace di fare altrettanto e che “era ora che qualcuno gli insegnasse a scrivere gli arrangiamenti”: non era comunque riuscito a cogliere il concetto che lui stesso aveva ceffato tutto, sin dalla prima nota e solo la decisione del Maestro, di rinviare la prova, lo aveva salvato dalla sua abituale, quanto inevitabile figuraccia. Per tutta la sera mi aveva “pregato” di arrangiare anche il repertorio di sua moglie, perché potesse prendersi qualche rivincita sulla Regina, e che gli realizzassi dei brani moderni, in particolare “Vacanze Romane” (Best seller del momento) dei Matia Bazar. La Feudataria si era dichiarata non all’altezza, ma lui, decisissimo, aveva ribattuto che era un ordine e che il giorno dopo avrebbe convinto il Maestro ad inserirla nel repertorio: “ In casa i pantaloni li porto io”, aveva sottolineato, “e nessuno mi può impedire di decidere qualcosa per il futuro di mia moglie”. Dopo un’occhiata di casuale intesa, le avevo rubato la parola per prendere al balzo una palla irripetibile:” Io posso aiutarla a farcela, ma in quel disco la parte del clarino è fondamentale e lo faccio solo se ti impegni a suonarla tu: attento che ti sto dicendo che ti farò studiare, non poco ed io come maestro sono cattivo!” Per indorare la pillola ed iniettare la necessaria dose di incentivazione, avevo affiancato alla dolorosa immagine del sacrificio per lo studio imprevisto, quella delle soddisfazioni che avrebbe potuto raccogliere già in quella stagione. Mi aveva risposto affermativamente e con tale entusiasmo, da farmi supporre di aver trovato la strada giusta per aiutarlo fattivamente e la Feudataria, riaccesa dalla medesima supposizione, si era impegnata a studiare a sua volta la canzone, se lui avesse effettivamente dimostrato di mantenere la promessa, unitamente a quella di smettere di bere la birra, della quale L’Antropofago era un poderosissimo consumatore, a tal punto, da distanziare di parecchie lunghezze persino gli emigranti portoghesi, che fino a quel momento ne avevo ritenuto i più terrificanti tracannatori. (continua)
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