La fucina Sanzogni è una delle poche che ha resistito all’avvento della modernità. Ha rischiato di scomparire come altre vestigia del nostro passato.
Ma l’acquisto dell’immobile da parte del comune di Sarezzo, il suo successivo restauro e ora l’utilizzo come museo consentono di restituirlo ai cittadini che così hanno modo di conoscere un tassello importante della loro storia, quello relativo alla lavorazione del ferro. Grazie al restauro nella fucina Sanzogni è possibile immaginare come si lavorava il ferro prima della scomparsa dei lavori artigianali, cancellati dall’industrializzazione.
Ecco alcune briciole di storia della fucina Sanzogni.
I macchinari della fucina erano attivati dalle tre grandi ruote di legno, mosse a loro volta dall’energia dell’acqua.
L’utilizzo dell’energia idraulica, almeno nel mondo occidentale, è più recente di quanto si possa immaginare.
Per muovere le macine dei mulini, non era più conveniente usare forza umana o animale. Alcuni secoli furono poi necessari per applicare la stessa energia alle gualchiere e ai magli. Gli atti dei notai della Valgobbia evidenziano che ruote per la lavorazione di metalli erano in funzione a cavallo tra XV e XVI secolo. Ma si trattava di attività in pieno sviluppo e quindi sicuramente apparse in precedenza.
La condizione fondamentale era ovviamente la disponibilità di acqua. Nel comune di Sarezzo, nel corso dei secoli, vennero create derivazioni dal fiume Mella e dai torrenti Redocla e Gobbia per muovere le ruote di mulini e magli. Furono realizzate seriole che fornivano forza motrice fondamentale per le attività produttive.
Le fucine erano numerose.
Sono da segnalare in particolare quelle di Ponte Zanano, di Zanano, di Noboli e di Sarezzo. La fucina della Valgobbia è quella che ci interessa. La Valgobbia è una delle località del territorio di Sarezzo con vocazione produttiva. Posta sulla strada che saliva in Valtrompia sulla sponda sinistra del Mella, era bagnata dal torrente Gobbia e attraversata dall’acquedotto romano che scendeva da Lumezzane. Queste premesse rendevano la Valgobbia un luogo ideale per la lavorazione del ferro.
La lavorazione del ferro è continuata quasi ininterrottamente fino ai primi anni ’80 del XX secolo. Nella fucina della Valgobbia sono stati prodotti per secoli soprattutto attrezzi agricoli. Le grandi dimensioni dei magli hanno consentito di realizzare aratri, vomeri, versoi, tutta la gamma degli strumenti necessari per praticare l’attività agricola, secondo i ritmi e le tecniche tramandati per secoli e trasformati solo negli ultimi decenni.
La fucina Sanzogni è uno dei monumenti di archeologia industriale della nostra Valtrompia.
E’ collocata in località Valgobbia, uno dei poli produttivi del passato, nel territorio di Sarezzo. E’ stata attiva per molti secoli.
Dopo la chiusura nei primi anni ’80, il colpo di grazia all’edificio è stato dato dalla nevicata eccezionale del gennaio del 1985. Ora ritorna a nuova vita come museo della storia della lavorazione del ferro.
E’ una delle principali “stazioni” di un itinerario che comprende anche le miniere dell’alta Valtrompia, il forno fusorio di Tavernole, il Maglio Averoldi di Ome.
Il ferro veniva scaldato tramite forni che funzionavano a carbone, legna, nafta, metano.
Questi sono stati i passaggi dell'alimentazione dei forni nell'arco di cinquant'anni: un passaggio precedente a questi è riscontrabile nell'utilizzo dell'acqua per formare l'aria.
L'acqua giungeva in una grande vasca, trascinando con sé una notevole quantità d'aria che, arrivando in un grande contenitore posto alla base delle tubature, veniva poi diretto verso i forni: funzionava come un soffietto del fuoco.
L’officina della Valgobbia era composta da tre magli: due di lavorazione e uno di stampaggio, poi c'erano tre forni che surriscaldavano i vari prodotti, due o tre incudini, due trance, tre mole e due bilanceri a mano. A fianco dell'officina c'era una stanza per la manutenzione degli stampi.
Il maglio era composto da una ruota azionata dalla caduta dell'acqua, un albero, cioè un perno di cento quintali che poggiava su un tornio, ed era rinforzato da anelli ogni quattro dita. Il maglio batteva su un basamento di ferro di cinquanta quintali incastrato su una grossa pietra di cento o duecento quintali. Al fianco del maglio c'era un ragazzo che muoveva la stanga: una lunga asta di ferro che permetteva, grazie a ordini impartiti dai capi mediante movimenti della testa, di regolare l'afflusso di acqua, perché il ferro aveva bisogno di diverse velocità durante la lavorazione. Per tenere fermo il maglio si costruivano dei cunei all'interno dell'officina. Il peso totale del maglio era circa 2.30-2.40 quintali, ma prendeva una forza di 11 tonnellate a colpo. Se si rompeva il manico occorrevano 10-12 ore per risistemarlo. Il maglio arrivava a circa 220 colpi al minuto.
All'interno della fucina si producevano tutti i tipi di vomeri che avevano un peso da 1,5 a 25 chilogrammi. Oltre ai vomeri si producevano coltri, versoi, colmatori, "saparine" e "moderne": in generale attrezzi agricoli per l'aratura dei terreni. Il ferro lavorato coi magli acquisiva resistenza e nervatura e si consumava molto meno. Il peso era fondamentale per rispettare le misure finali degli oggetti. Il taglio avveniva a mano, tranne negli ultimi dieci anni in cui si usava il gas. .
Dopo aver fatto i vomeri con il maglio, si aspettava il giorno seguente per portarli alla stampatura, poi venivano bucati per poter essere montati sugli aratri ed infine venivano affilati
Il lavoro era molto duro. Negli anni dal 1945 al 1965 la produzione aumentò notevolmente fino ad arrivare a nove quintali: tre per ogni turno di lavoro. I turni erano tre: dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22, dalle 22 alle 6.