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 Storia di strada
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Mavec
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Inserito - 29/05/2007 :  19:35:35  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Mavec

Storia di strada

Mosche. Mai viste tante attorno ad una sola persona. Sembrava che gl’insetti avessero finalmente pescato l’unico posto al mondo da cui non sarebbero state più scacciate. Dal loro ronzio si capiva che stava avvicinandosi l’essere che le ospitava: un mucchietto di stracci logori e unti che ricoprivano uno scheletro di donna con poca carne addosso. Non aveva età. Il viso smunto e nerastro di sporco, appena visibile sotto una medusa intricata di capelli scurissimi, doveva essere stato bello in passato, ché recava ancora la forma di un ovale ben proporzionato con due occhi, sebbene sprofondati in due caverne d’abbandono e di bisogno, fieri,quasi gitani. Ed, infatti, la gente del quartiere, per le cui strade e viuzze la donna trascinava la sua vita con la mano tesa, pensava che fosse proprio una zingara, anche per il fatto che si portava appresso, stringendolo forte al seno, un fagottino seppellito sotto una coltre di panni laceri e variopinti, come fanno tutte le nomadi per impietosire i passanti. Solo che nessuno aveva mai visto il viso del piccolo o della piccola. La madre reggeva l’infante con il braccio sinistro, accostandolo al corpo quanto più vicino possibile, a rischio di soffocarlo, e con l’altra mano spesso gli carezzava il capo, tenendola per un po’ aperta sugli occhi a protezione dalla luce. Ancora: a memoria d’uomo, nessuno poteva assicurare d’averla sentita pronunciare una parola. Stendeva la mano e basta, tanto era il suo sguardo il suo modo di comunicare, più espressivo di mille discorsi. Forse era muta, si pensava. Fatto sta che non rispondeva nemmeno alle persone più partecipi del suo stato di miseria, compreso i volontari della parrocchia che tentavano timidi approcci. Lei puntava su tutti quei suoi occhi fiammanti, respingendo un eventuale gesto d’amicizia. Ormai erano mesi che la vedevano bazzicare per il quartiere: mistero sulle sue origini, persino sulla sua nazionalità. Era un po’ come quei randagi che, d’improvviso, compaiono, eleggendo, a proprio domicilio, un pezzo di marciapiede per poi, di colpo, ritornare nel nulla. Tutti erano abituati alla sua presenza e, in modo automatico, senza guardarla, le allungavano una monetina o una banconota. Probabilmente spendeva i suoi soldi in un altro quartiere: questo, dove girellava, diciamo era il suo “posto di lavoro”. Si vedeva già per strada alle sette del mattino, sempre in movimento per tutto il giorno, fino a sera, allorché spariva in un certo vicolo, stretto come la punta di un imbuto, che menava sullo stradone asfaltato, confine tra il quartiere e la prima periferia dei casermoni popolari. Inizialmente, la sua comparsa destò la curiosità generale, soprattutto delle donne, anziane massaie e madri, intenerite da quell’esserino avvoltolato nei cenci, esposto alle intemperie e, di sicuro, malnutrito, ma poi, come succede, ci si fa l’abitudine a certe scene e si dimentica o si volta lo sguardo. Questo, però non valeva per Luca, uno dei tanti del posto: lui non scordava e si struggeva per l’impotenza. Avrebbe fatto carte false per levare dalla strada quella poveretta col suo piccino: lui era fatto così, non accettava la sofferenza degli altri, dopo che aveva penato tanto negli anni precedenti prima con la moglie ammalata e poi con la perdita dell’unico figliolo, caduto volontario in Bosnia. Ma non si risolveva mai ad avvicinarla: ne aveva quasi timore. Era pronto ad offrire ad entrambi un tetto, la sicurezza, col tempo l’affetto, ma, si chiedeva, aveva poi il diritto d ‘intromettersi nell’esistenza della donna? Che ne poteva sapere lui dei motivi che l’avevano costretta a quel modo di vivere così aberrante? E se fosse stata una sua scelta? Ma una sera Luca decise di seguirla fin dentro il vicolo: la pioggia cadeva fitta e il vento sciabolava gli alberelli dei marciapiedi. I pochi passanti, figure spettrali nello scrosciare del temporale, avanzavano, spediti, raccolti nell’umido calore dei loro soprabiti. La mendicante camminava lenta, il capo scoperto, intrisa d’acqua, sempre stringendo al seno la sua creatura. Penetrò nella cupa stradina e dietro di lei Luca. Oltre s’intravedeva nella nebbiolina l’inespressiva geometria delle case popolari. Affrettò il passo, Luca, prima che lei sbucasse sulla via maestra. La donna se ne avvide e tentò di aumentare l’andatura, ma i miseri indumenti l’ostacolarono. Allora si bloccò, la destra tirata su a difesa del fantolino: gli occhi, però, non svelarono paura: erano fissi su Luca che, intanto,le era arrivato vicino. “Non ti spaventare. – esordì l’uomo – Voglio solo aiutarti”. E le offrì la mano, ma lei si ritrasse, squadrandolo con odio. “Ma no, tranquilla. Vedi come la manda giù? Non è meglio aspettare un po’, prima di proseguire?”. La donna continuava ad osservarlo, gelida come le gocce d’acqua che le rigavano il volto. “Poi, non è giusto che il tuo bambino si bagni, non ti pare?”. A quel punto il suo sguardo si ammorbidì, le guance, tese come archi, sembrarono sciogliersi in un aspetto più fiducioso e fu allora che le lacrime iniziarono a venire giù, copiose, a confondersi con le stille, fino a mutarsi in un lamentio pietoso. E, con voce roca, esclamò:”Quale bambino!!”. E, scostando quei cenci logori e fradici, mostrò a Luca l’immagine, impassibile,di una bambola, piegandosi sulle gambe in dolore immane!!

Mario Vecchione

   
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