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Roberto Mahlab
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Inserito - 13/04/2009 : 21:07:09
IMi ero assopito nello scompartimento del treno diretto a Trieste, il tambureggiare sferzante della pioggia sul vetro del finestrino mi fece riemergere alla coscienza, "Monfalcone", indicava il cartello della stazione che avevamo appena superato. Un uomo appena salito e coperto da un impermeabile si scusò per aver urtato involontariamente il braccio sporgente di una ragazza seduta nel sedile di fianco, attraversò il corridoio e si accomodò due posti avanti, :"sarò al Duchi di Aosta", sentii le poche parole che sussurrò al cellulare. Non ci pensai troppo e mi godetti il paesaggio, presto apparve sulla destra il mare, un verde acceso e ordinato di prati lo divideva dalla linea ferroviaria. Il giorno precedente mia nipote mi aveva suggerito scherzosamente di controllare le previsioni del tempo, "se trovi la bora, guarda che è un'esperienza", osservò, ma la carta meteorologica segnalava bel tempo. "Spero di poter provare l'esperienza della bora", le risposi divertito, "lo prendo come obbligo d'onore, ne ho sentito tanto parlare, altrimenti che viaggio a Trieste sarebbe?". Mi guardò come se mi mancasse una rotella. Erano settimane che preparavamo il viaggio, i nostri contatti erano felicissimi di rivedermi dopo tanti anni, avevano prenotato per me una stanza nel più classico e rinomato albergo della città, il Grand Hotel Duchi di Aosta, "non è possibile venire a Trieste e non dormirci", avevano concluso. La mia segretaria era andata a cercare il sito internet, c'erano le splendide immagini della bellissima piazza Unità di fronte all'hotel, le stanze di stile asburgico, l'Harry's Bar, gemello dell'omonimo locale di Venezia. All'arrivo in stazione a Trieste, pioveva ormai a dirotto, ebbi la sorpresa di incontrare Vanna, proprietaria di una antica azienda della città, mi era venuta a prendere. Prima mi portò all'albergo a prendere possesso della stanza e poi fece un giro largo con l'auto, mi mostrò gli edifici storici che erano i gioielli della città, il lungomare fronteggiato dalle montagne imbiancate, le stradine dell'antico ghetto, poi mi condusse al suo ufficio, ci aspettava il marito Paolo. Come tanti anni prima. E la missione era la stessa. Trieste, 1983 "Nel corso della premiazione del romanzo vincitore, uno dei nostri agenti le passerà un fogliettino con un nome, sarà quel nome che lei dovrà dichiarare vincitore del premio", Giovanni non fece domande, prese il biglietto e se lo mise nella tasca dell'elegante completo grigio. "Lo merita davvero di vincere", mi disse deciso. Eravamo riusciti a far uscire Dimitri Vassiliev dalla Bulgaria con la scusa del libro, un romanzo sui sentimenti senza alcun riferimento politico e così ben scritto, che il regime non aveva potuto porre obiezioni all'invito che era arrivato allo scrittore tramite l'insospettabile comitato del premio letterario, insomma, era talmente tutto perfetto che nessuno aveva potuto trovarci una pecca per non collaborare, del resto il regime del paese balcanico dietro alla cortina di ferro sovietica, riteneva che un premio prestigioso ad uno dei suoi scrittori potesse portare nient'altro che buona pubblicità e confondere i circoli occidentali dediti alla disinformazione sulle patrie del socialismo internazionale, ben protette dai carri armati del Cremlino, sotto il nome di patto di Varsavia. La guerra del terrorismo divampava in Libano, nei Caraibi gli americani avevano scacciato i cubani da Grenada, l'emittente di contropropaganda di radio Sofia aveva stranamente riportato un servizio su movimenti di truppe sovietiche, nei notiziari seguenti la notizia scomparve, mentre in occidente i media titolavano a caratteri cubitali dell'abbattimento del volo di linea coreano da parte dei caccia di Mosca. Solo uno dei nostri analisti sospettò che si trattava di intimidazioni contro il dispiegamento dei missili della Nato in Europa e che qualcuno da oltre cortina avesse voluto avvertirci. Non scoprimmo mai chi fosse e che fine fece. Dimitri Vassiliev non era solo uno scrittore, la sua famiglia era scampata alle deportazioni naziste durante la guerra, ma poi rimase prigioniera del nuovo regime comunista, Dimitri aveva detto addio ai genitori, "hai talento figlio mio", gli aveva detto il vecchio padre abbracciandolo il giorno della partenza, "è un peccato che vada sprecato qui". Dimitri se ne era andato con solo una valigia con il necessario per un paio di giorni di permanenza a Trieste, sotto il controllo assiduo dei responsabili dell'ambasciata di Sofia in Italia. In una cucitura interna della valigia, c'era un microfilm, era quello che ci interessava, conteneva i codici di trasmissione degli ordini alla marina militare sovietica nel Mediterraneo. Era il prezzo che gli avevamo chiesto per aiutarlo a fuggire, lui ci aiutava ad avere il microfilm sottratto da uno dei nostri agenti nell'est, così evitavamo di bruciarlo, e noi aiutavamo lui. Appena Giovanni avesse chiamato Dimitri Vassiliev al tavolo della giuria, i nostri lo avrebbero circondato e gli avrebbero fatto da scudo confondendo i bulgari che lo pedinavano, appena Dimitri avesse preso nelle mani il premio, si sarebbe levato un applauso fragoroso e, nella confusione, lo avremmo scortato verso l'uscita di servizio. Sapevamo che gli agenti avversari avrebbero avvisato il comandante di un sommergibile sovietico nascosto sui fondali dell'Adriatico, l'ufficiale avrebbe dato ordine di affiorare e di inviare a terra con un gommone una squadra incaricata di intervenire e di rapire Dimitri, per riportarlo indietro sotto l'effetto di pesanti droghe. Non avremmo potuto attaccare il sottomarino, avremmo causato una crisi internazionale e le timide trattative per una pacifica convivenza sarebbero naufragate, non che avessero un qualsiasi senso, ma servivano a mantenere meno fredda la guerra fredda. §§§
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Inserito - 13/04/2009 : 21:10:33
IITrieste "Ehi", Vanna mi scuoteva, "a che stai pensando?" "Alla garanzia che abbiamo dato a Ahmed Zabrhani, che non avrà da temere rappresaglie, di modo che ci segua con fiducia all'aereo pronto sulla pista dell'aereoporto in disuso dove lo condurremo e poi il salto in Oregon, il cd con i file dei siti nucleari che avrà portato fuori dall'Iran, il prezzo che gli abbiamo chiesto di pagare, per non bruciare il nostro agente a Teheran che lo ha sottratto al funzionario che abbiamo corrotto. "Dove avevate portato Dimitri?", domandò Paolo con curiosità. "Una villa nel Wisconsin, un conto sulla Wells and Fargo che ha coperto tutte le spese per lui e per la sua nuova famiglia, buone scuole per i figli e una plastica facciale per far perdere definitivamente le sue tracce". "E poi, dopo la caduta del comunismo?", fu la volta di Vanna a chiedere. "Divenne tutto di dominio pubblico e i suoi nipoti sono orgogliosi di Dimitri". "Per una volta è andata bene", sospirò dubbioso Paolo. "Sì, per una volta, non come la precedente, Smetieny era un vero eroe, mi sentivo ripagato dallo sforzo per portarlo fuori dall'Ungheria, era una giornata fredda e ventosa come oggi, mi telefonò spaventato, diceva di essere seguito da 'loro', avevo lasciato cadere le scartoffie che stavo compilando e mi ero appena infilato l'impermeabile, seppi dopo che fu l'esatto istante in cui gli spararono". Vanna e Paolo rimasero in silenzio per qualche minuto, poi cambiarono discorso per allentare la tensione, mi indicarono la costruzione rettangolare del "salone degli incanti", una antica gigantesca pescheria dove ai primi del novecento si tenevano le aste per il pesce, l'edificio fu in seguito dedicato alle mostre d'arte. Pochi metri dopo accostarono l'auto di fronte ad un molo, scendemmo e ci avviammo verso l'interno di una palazzina a tre piani, l'Adriaco, lo yacht club più antico dell'Adriatico. Era vuoto, i miei contatti aprirono le porte del grande salone e poi mi invitarono a seguirli per le scale, alle pareti erano appesi quadri di navi e di imbarcazioni, il grande salone delle riunioni dava su un terrazzo, spingemmo le grandi porte-finestre ed uscimmo all'aperto, una vista a trecentossessanta gradi da far rimanere senza parole, la bora si faceva più forte e facevamo fatica sia a tenerci che a parlarci, ma a noi premeva solo avere la certezza che nessun agente ostile ci avesse seguito o potesse ascoltarci. "La premiazione si svolgerà al Castello di Duino", spiegai i dettagli del piano ai miei amici, "il metodo sarà il solito, ha funzionato in passato e...", "lo conoscono a memoria anche gli altri", osservò Paolo. "Dobbiamo essere pronti per una eventuale veloce modifica durtante il corso del progetto". Non potei che annuire. "Non ci lasceranno arrivare al castello", riprese dubbiosa Vanna, "siamo stati di recente ospiti dei principi di Thurn und Taxis, possiamo stare sicuri che nasconderebbero essi stessi Zabrhani nel palazzo, l'amore per la cultura e la letteratura ha visto ospiti alcune tra le più illustri personalità del novecento, suonavano Strauss e Listz, passeggiavano per il parco Mark Twain e James Joyce, erano sempre benvenuti Sigmund Freud e Italo Svevo, Paul Valery, Eugene Ionesco, Karl Popper, Gabriele D'Annunzio, Rainer Maria Rilke vi compose le "Elegie duinesi", che dedicò alla principessa Maria di Torre e Tasso". Quando ascoltavo Vanna e Paolo parlare delle loro conoscenze così importanti con le nobili casate dell'Europa centrale, mi sentivo contemporaneamente ammirato e intimidito, immaginavo le loro serate eleganti negli sfarzosi saloni dei castelli triestini, attorniati dalla crema della cultura mondiale. E comprendevo la ragione della loro convinta lealtà alla causa della democrazia e all'aiuto che ci davano nelle azioni segrete, era una caratteristica dell'intera famiglia, da generazioni, il padre di Vanna si rifiutò di collaborare con il fascismo e si oppose al nazismo e in seguito fu una voce coraggiosa contro il tentativo postbellico dei comunisti titini di occupare Trieste. Mi raccontarono delle foibe e di come Trieste fosse la città di frontiera per eccellenza durante la guerra fredda, tirandomi su anche il cappuccio della giacchetta troppo leggera che indossavo, osservai con voce che tremava, :"e ci credo". Mi morsi le labbra, sperando che non avessero sentito, mi guardarono per un attimo con apparente rimprovero, poi si sciolsero in una risata, l'alternativa sarebbe stata gettarmi tra le gelide onde del mare. §§§
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Inserito - 13/04/2009 : 21:17:58
III"Ecco l'auto del consolato iraniano", avvertii gli amici, avevamo ripreso il vagabondaggio quasi turistico per la città, "bene, siamo fortunati", ribattè lieta Vanna. "E perchè mai?", le chiesi pregustando l'obiettivo del suo sorriso, "é il 'Ritrovo Marittimo', uno dei migliori ristoranti di Trieste" e ci trascinò dentro. Il locale era caldo e raccolto, era rimasto un tavolo in un angolo, avremmo potuto così controllare chi entrava e chi usciva, cosa che non guastava mai nel nostro mestiere, alle pareti stampe antiche e moderne, dalle cucine un profumo di cottura di pesce freschissimo. Da buoni professionisti, l'occhiata che demmo ad uno dei primi tavoli vicino alla porta non venne neppure notata dai due uomini che stavano mangiando di gusto, anche se a me andò quasi di traverso il fiato, a fianco di Zabhrani era seduto l'uomo che avevo intravisto sul treno, un colpo di scena, dunque gli iraniani avevano una talpa nel paese, oltre agli addetti del consolato e doveva essere un personaggio di alto livello, visto che era toccato a lui far da angelo custode allo scrittore. Comunque fossero andate le cose, Teheran avrebbe potuto smentire il coinvolgimento di propri diplomatici. La qualità del pranzo a base di pesce fu superba, Vanna e Paolo erano due anfitrioni di una tale profondità culturale che gli argomenti di cui dibattemmo furono estesissimi, dalla scienza all'etica, dall'esterno saremmo apparsi come un gruppetto di grandi amici senza altro pensiero che la gioia di essersi rivisti. Zabrhani si alzò, facendo cadere il tovagliolo sul pavimento, fece cenno verso la toilette, tirò indietro la sedia, si diresse verso il centro del ristorante e poi, appena fu a un paio di metri di distanza dal suo tavolo, dando le spalle al suo accompagnatore, cambiò direzione, si mescolò agli avventori del tavolo vicino che, dopo aver pagato il conto, si dirigevano verso l'uscita e si lanciò fuori dal locale. Dopo pochi secondi entrò l'uomo che avevamo visto seduto nell'auto del consolato, si avvicinò all'ospite del tavolo i cui lineamenti tradivano allarme, confabularono per qualche secondo, evidentemente decisero che qualcosa non andava, sul tavolo finì una banconota da cento euro ed entrambi si precipitarono fuori. "Caffè?", si era avvicinata al nostro tavolo la proprietaria sorridente, noi eravamo paralizzati dalla velocità degli avvenimenti, fu Vanna a scuotersi per prima :"no grazie, siamo proprio sazi, era tutto squisito", con un'eleganza che le ammirai, trasse una serie di banconote dal borsellino, si alzò con una espressione felice che rese altrettanto felice la proprietaria del ristorante e Paolo e io ci dovemmo sbrigare per non farci seminare da lei quando, sulla strada, si mise a camminare velocemente dalla parte opposta a quella dei guardiani dello scrittore. Paolo e io eravamo ansimanti quando la raggiungemmo pochi metri dopo, ci indicò con un movimento del mento Zabrhani, era seduto all'interno del bar Tommaseo, appena sotto le colonne dalla parte opposta rispetto al lungomare. Ci sedemmo anche noi ad un tavolino non troppo distante, un cameriere stava parlando con lo scrittore che gesticolava verso le ante degli armadietti di vetro che contenevano i ritagli degli scritti degli irredentisti che si batterono un secolo prima per il ritorno all'Italia di quelle terre occupate dall'Austria. Quando il cameriere si avvicinò al nostro tavolino, gli ordinammo del té e della cioccolata calda che arrivarono insieme ad un piattino di saporitissimi dolcetti, lo ringraziammo con cordialità e i miei amici gli spiegarono che io visitavo per la prima volta la città e che cercavano di sorprendermi, "per esempio", aggiunse Vanna, "se il nostro amico fosse da solo come quel signore..." e indicò Zabrhani. "Quel signore parla con un accento del medioriente", si confidò il cameriere e mi ha posto una domanda un poco strana, "dove posso trovare il libro 'Le passioni della mente' di Irving Stone?'". "Un libro che non si trova più da anni", intervenni con stupore. "Be', sa com'è, Trieste è un centro della letteratura e ci sono librerie famose che hanno di tutto, compresi libri che non si trovano più altrove, ho indicato a quel signore quelle del vecchio ghetto qui dietro, la rigatteria Di Pinto tanto per fare un esempio". Fu mentre ruotavo il cucchiaino per far sciogliere lo zucchero nel tè che mi venne l'illuminazione, :"il profumo della libertà per Zabrhani è posare le sue mani sulle copertine dei libri, accarezzarli. Mi ricordo a New York, accompagnai Vassiliev a Barnes&Noble, une delle librerie più gigantesche del pianeta, quasi piangeva dalla commozione, toccava i volumi uno ad uno, qualcuno lo apriva quasi religiosamente, lo sfogliava, lo rimetteva al suo posto con attenzione, ci rimanemmo fino al pomeriggio, ero stupefatto, poi Vassiliev si avvicinò ad un addetto alla cassa e iniziò a recitargli a memoria una lunga serie di titoli che avrebbe voluto leggere, mi spiegò dopo che aveva memorizzato nella sua mente un catalogo di autori e di titoli alla cui lettura aspirava da sempre, che per la sua vita prigioniera rappresentavano i raggi del sole, c'era un po' di tutto, dalla grande letteratura, ai gialli, ai fumetti, un mondo che quando era dietro le sbarre della prigione della tirannia poteva solo assaporare nella fantasia, adesso finalmente gli era disponibile, non potei che pensare come non ci rendiamo conto noi dei paesi liberi di quanto non siano per nulla banali le cose che riteniamo scontate". §§§
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Inserito - 13/04/2009 : 21:19:45
IVZabrhani terminò velocemente di bere l'aperitivo che aveva ordinato, si guardò attorno, prudentemente noi tenevamo gli occhi bassi o diretti in direzione dei compagni di tavolo, e si rimise in cammino. "Lo seguo a piedi, voi tenete sempre pronta l'auto, in caso avessi bisogno di assistenza, vi chiamo al cellulare", ci abbracciammo e mi misi alle calcagna di Zabrhani. Camminava velocemente, con una cartina in mano, attraversò la grande piazza dell'Unita d'Italia e si immise nel colonnato che faceva da passaggio al quartiere del vecchio ghetto ebraico, le targhette colorate per i turisti indicavano che esso era stato eretto nel 1696, erano solo un paio di blocchi di costruzioni, tra di esse si scorgevano dei lunghi cortili piastrellati ai lati del quali si affacciavano le vetrine dei negozi di antichità e di tessuti. Attesi dal lato opposto che lo scrittore entrasse nella rigatteria Di Pinto, poi attraversai e scrutai verso l'interno, Zabrhani stava parlando con la proprietaria, lei scuoteva la testa, lui parve ringraziare e si volse verso la piccola porta di vetro, mi ritrassi dietro all'angolo. Non lo seguii subito, entrai nella rigatteria, enormi banconi ricolmi di libri antichi, scaffali altrettanto pieni, poi altre stanze con rilegature di volumi storici, anche se non mancavano i cd assai più recenti dei testi. La proprietaria non mi chiese nulla, stava parlando con altri avventori, fino a che mi avvicinai e le chiesi se per caso avesse una copia di 'Le passioni della mente', di Irving Stone. Lei scosse il capo, con aria stupita, si volse verso uno scaffale e rispose :"pensavo di averne una copia qui, mi ha chiesto lo stesso titolo il signore che è appena uscito, se aspetta un attimo, riguardo per scrupolo, eppure mi pareva...", ma dopo pochi secondi rinunciò e mi diede lo stesso suggerimento che mi disse aveva dato alla richiesta precedente :"provi da Misan, qui a duecento metri sulla sinistra". Il negozio di Misan aveva una vetrina alta almeno cique metri e l'interno era ricoperto da scaffali altissimi, i gestori avevano bisogno sempre di una scala per trovare i testi richiesti dai clienti, l'elenco dei quali era raccolto in un computer, di modo che bastava una interrogazione per sapere in che punto dell'immenso spazio si trovassero. Zabrhani non c'era quando arrivai, ma appena esposi la richiesta del libro 'Le passioni della mente', il giovane proprietario mi rispose prontamente che non c'era, già una persona era entrata a chiederlo. Fu lui a domandarmi se per caso ci fosse in città un incontro di appassionati del genere, gli risposi facendo finta di cadere dalle nuvole e gli chiesi se a suo parere esistevano dei luoghi che eventualmente accogliessero lettori e scrittori con interessi comuni. "Certo", ribattè, "il caffè degli artisti, il nome vero è caffè San Marco, in fondo a via Battisti, è il ritrovo solito per chi desidera incontrare gli scrittori o i lettori appassionati dello stesso genere che si ricerca". Mi bastava, chiesi solo, con tono quasi disinteressato, le indicazioni per arrivare al caffè degli artisti. Mentre risalivo via Carducci, riflettevo velocemente, benchè distratto dagli splendidi negozi sui lati della via, dai profumi all'alta moda, dalle pasticcerie agli articoli da regalo, più volte feci violenza a me stesso impedendomi di entrare in ciascuno di quegli eleganti punti vendita e più volte feci violenza a me stesso impedendomi di girare troppo gli occhi verso la stupefacente bellezza delle donne di Trieste. Non quadrava, c'era un problema, poco a poco lo misi a fuoco. Evidentemente Zabrhani non solo era sfuggito ai suoi controllori, ma era anche riuscito a crearsi un contatto negli ambienti letterari cittadini, probabilmente il libro che cercava era anche una specie di riconoscimento quando avesse incontrato i suoi corrispondenti letterari, mi rimproveravo di non aver pensato prima alla possibilità che uno scrittore riuscisse ad avere dei contatti con scrittori di altri paesi, un canale che voleva utilizzare per sganciarsi anche da noi. Forse non si fidava fino in fondo, era del tutto ovvio, il mondo dei servizi segreti non è famoso per la fiducia o per il rispetto della parola data. E fino a qui non importava molto, se fosse fuggito usando i suoi canali, avremmo potuto recuperarlo successivamente e prenderci il cd, con tanti ringraziamenti e senza dovergli più nulla. Ma non era così, lo sapevo. Perchè era già successo. §§§
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Roberto Mahlab
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Inserito - 13/04/2009 : 21:21:41
VSan Francisco, 1979 Imre Smetieny non era un uomo prudente, era coraggioso, era un idealista, convinto di poter superare qualsiasi difficoltà. Era un omone alto e massiccio, si vantava di aver conciato per le feste una squadra di agenti del regime quando una sera a Budapest lo attesero sotto casa, per dargli una lezione di sana cultura socialista. Fu lui a dare loro una lezione di karate. E fu allora che lo avvicinammo e lo portammo fuori con quanto ci interessava. Si sentiva al sicuro negli Stati Uniti, invano lo invitavamo a fare attenzione, gli ricordavamo che lo scherzo che aveva giocato al patto di Varsavia non era di quelli che i 'compagni' sono diposti a dimenticare. Adorava la letteratura americana, aveva dieci edizioni di 'Furore' di John Steinbeck e non gli mancava un solo Hemingway, nè Faulkner, e poi Saul Bellow e Norman Mailer e sovente, quando parlavo con lui ai debriefing, mi rispondeva con dei versi delle poesie di Walt Whitman e fu così che lo avvicinarono, o meglio fu così che fu lui, ignaro, ad avvicinare loro. Oltre alla letteratura Smetieny amava anche le donne. E quella donna in particolare lo faceva andare fuori di testa, dalla prima volta che la incontrò, casualmente, alla lavanderia sulla Wolsworth, certo lei era stata gentile, lui non sapeva che le camicie non si lavavano insieme all'altra biancheria, lei era stata sollecita, era stata anche particolarmente brava ad essere sfuggente. Un giorno Imre decise di seminare gli agenti che lo proteggevano, raggiunse la donna ad un incontro organizzato guarda caso nella sede di una associazione che si chiamava :"Walt Whitman e i nuovi americani", la sua amica era una delle relatrici. Appena entrò nel garage che gli avevano indicato, si rese conto che non era una associazione letteraria, che le persone che lo avevano seguito non erano appassionati di rime, corse fuori, era allenato e veloce, entrò in un locale pubblico, chiamò per telefono il numero che gli avevamo dato per le emergenze, i sicari non si fermarono certo anche se si trattava di un locale pubblico, ci avrebbe pensato il consolato russo di San Franciso a caricarli quella notte stessa travestiti da marinai su un mercantile diretto in Giappone, dove non sarebbero mai arrivati, lo scambio di nave sarebbe avvenuto in mezzo al Pacifico. Trieste Non credevo che i russi avessero venduto solo tecnologia nucleare all'Iran, ma che volessero anche salvare l'investimento con l'addestramento dei servizi segreti di Teheran, il trucco dell'associazione letteraria era uno dei più usati dal Kgb nel passato, serviva sia ad attirare i dissidenti fuggiti, sia a ripescare i dissidenti in procinto di fuggire. Mi bastò un'occhiata da fuori all'interno del caffè San Marco, non c'era nessuno, poi il barista rispose con uno sguardo di incomprensione alla mia domanda se nel pomeriggio si fosse svolto o si dovesse svolgere un incontro tra artisti e letterati, mi riferì che quel giorno erano previsti i primi ospiti solo verso sera, giovani che festeggiavano una laurea. "L'hanno ripreso", quasi gridavo al cellulare, Vanna mi rispose con più calma :"però non sanno certo del cd, pensano ad un colpo di testa solitario, possiamo ancora salvare le informazioni, anche se non Zabrhani". Aveva ragione, come sempre. "Il piano A, della premiazione al castello di Duino, salta, se lo ritroviamo, passiamo al piano B, non merita di finire nelle segrete degli ayatollah di Teheran, Vanna, ne faranno un esempio, lo useranno come propaganda contro l'occidente, ci conviene tentare comunque di salvarlo". "Faccio uscire tutti i contatti per le vie di Trieste, la setacceremo palmo a palmo", rispose decisa e convinta. "Se sapessimo dove avrebbe passato la notte", mormorai, più tra me e me che a Vanna. §§§
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Inserito - 13/04/2009 : 21:23:32
VILe cose non vanno mai come si era ragionevolmente sicuri che andassero, riflettevo amaramente, contemplavo l'orrore di un altro fallimento, non mi resi neppure conto di aver camminato tanto, ero di nuovo nei dintorni della piazza Unità, poco lontano dall'albergo dei Duchi di Aosta. Decisi di salire a darmi una sciacquata nella mia camera, mi avrebbe schiarito le idee, al desk c'era una donna diversa da quella che mi aveva accolto all'arrivo, aveva un pesante accento tedesco, le chiesi dove potessi trovare una postazione internet, mi parve mi guardasse in modo ostile. Ma no, stavo vaneggiando, la tensione mi rendeva ipersensibile. Sulla destra dell'ascensore, fuori dalla vista del desk, c'era una scala interna, ricoperta da un tappeto orientale lussuoso, se solo fossi stato un normale turista, non avrei perduto l'occasione di andare a vedere la famosa piscina termale dell'albergo. Un inserviente notò la mia esitazione e fu lesto, fin troppo mi parve, a dirmi che la scala portava ad un cancello che era chiuso in quel periodo. Troppo lesto a rispondere a qualcosa che non avevo chiesto. D'accordo, ero ormai paranoico. Allungai il collo per guardare tra le finestrelle di cristallo, una piacevolissima visione di una piscina dallo sfondo blu incuneata tra pareti intarsiate a grotta mi colmò di nostalgia per un mondo sereno a cui potevo anche sognare di partecipare, un'altra volta magari, sospirai. La camera era all'altezza della fama dell'albergo, sembrava di essere in uno chalet di montagna delle Alpi austriache, la sola concessione ad una modernità assai meno in stile era uno schermo piatto, gigantesco, appeso alla parete sopra un tavolo di legno pregiato. Accesi il canale delle news, non c'era nulla di nuovo, nulla di diverso alle notizie della tensione internazionale che si faceva di giorno in giorno più calda e degli appelli alla conciliazione tra i popoli che si facevano di giorno in giorno più vuoti. Vuoti come il mio stomaco all'ora di cena. Non si può mangiare mentre è in corso una operazione segreta per recuparare un fuggitivo e le sue informazioni, costrinsi i miei occhi a staccarsi dal menu succulento dell'Harris Bar a cui si poteva accedere dal salone di ingresso dell'albergo, lanciai una occhiata storta alla donna al desk e uscii nel gelo della buia sera, la bora non era calata. Dall'altro capo della via si illuminava una scritta, :"Tea Room", pareva un locale elegante, una bevanda calda mi avrebbe ridato lo spinta per affrontare il resto di quella tremenda giornata. Era ben più di un sala da té, c'era un bancone lunghissimo all'ingresso dietro al quale erano indaffarate due donne bellissime, una mora e una bionda, che rispondevano alle ordinazioni di diversi avventori, più che altro coppie, sedute o nei tavolini di fronte al bancone oppure in una grande sala interna, tutto era in legno, il calore e l'eleganza erano dappertutto a Trieste. Quando ordinai, la barista bionda mi soppesò con lo sguardo, uno straniero evidentemente, dovette pensare, forse inglese, quelli con l'ossessione del té delle cinque, anche se dalle cinque quel locale offriva l'happy hour e tutti gli altri avventori ne stavano allegramente approfittando con pinte di birra e boccali di vino rosso. Il mio té arrivò in una caraffa di vetro, bollente, accompagnato da un piattino colmo di dolcetti, sorseggiai l'ottimo infuso senza dare l'impressione di osservare gli altri ospiti del locale, mi sentii scaldare e fu allora che notai che poco distante da me era appoggiato al bancone l'uomo del treno, poi rivisto al ristorante, il misterioso accompagnatore di Zabrhani. Così vicino al mio albergo. E mi ricordai all'improvviso della voce che sussurrava il nome del Duchi di Aosta. Ma certo, anche l'uomo veniva da fuori e non si poteva certo far scoprire a dormire al consolato iraniano, allora anche Zabrhani alloggiava nello stesso albergo e i suoi bagagli contenevano il cd che ci interessava. Ma dubitavo che in quel momento Zabrhani fosse nelle condizioni di aiutarci ad aiutarlo. L'uomo posò il calice di birra, lasciò sul bancone alcune monete e poi uscì. Bevvi in due sorsi quanto rimaneva del té, ustionandomi la gola e l'espressione della barista mostrava incredulità, appoggiai una banconota vicino alla cassa e corsi nuovamente fuori nell'oscurità di quella sera di gelida bora. §§§ |
Roberto Mahlab
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Inserito - 13/04/2009 : 21:25:22
VIINon dovevo neppure affannarmi a seguirlo, naturalmente l'uomo si avviò verso l'albergo, con calma. Attesi di vederlo prendere le chiavi dalla donna dall'accento tedesco dietro il bancone, ma non accadde, le fece segno che le aveva con sè o forse le fece segno di qualcosa d'altro. Entrai anche io e chiesi la chiave della mia stanza, sorrisi alla donna, che rimase fredda. Non udii il suono dell'ascensore che arrivava dietro la parete, feci uno sbadiglio e mi allontanai dal desk, appena fui fuori dalla vista della donna, premetti il pulsante di chiamata dell'ascensore e poi mi volsi verso la scala ricoperta dai tappeti che conduceva alla piscina termale. Se non era salito, allora quell'uomo era sceso, ragionai e si poteva scendere solo da lì, anche se era strano, l'inserviente mi aveva assicurato che il cancelletto alla fine della scala era chiuso. Forse era chiuso solo per me, riflettei. Iniziai a scendere prudentemente, pronto a risalire al minimo rumore di passi, il cancelletto di ferro di fattura artistica era aperto, lo superai, dalle finestrelle si vedeva l'acqua blu della piscina, notai che era increspata. Al fondo delle scale c'era una piccolissima stanzetta di due metri per due, con un appendiabiti in un angolo, evidentemente lì gli ospiti si toglievano l'accappatoio prima di attraversare la porticina che divideva la stanzetta dalla piscina. Su uno dei lati della stanzetta c'era una pesante tenda scura e feci bene a ricoprirmi con essa, appena in tempo, dalla porticina emerse l'uomo che avevo seguito, si guardò attorno frettolosamente e imboccò di corsa i gradini della scala. Lasciai la tenda e superai la porticina, non mi sorpresi più di tanto di vedere un corpo avvolto in una muta sul fondo della vasca, legato alla scaletta di metallo, una cannula rigida collegava la bocca di Zabrhani ad una bombola di ossigeno ai bordi della piscina. Brutto modo di passare la notte gli avevano escogitato, una punizione esemplare per il suo tradimento e l'indomani un furgone guidato dall'inserviente avrebbe avuto il via libera dalla donna al desk, il carico non sarebbe stato di asciugamani e lenzuola e la destinazione non sarebbe stata la solita lavanderia. Trucco da manuale che conoscevo a memoria anche io. Li avrei battuti con un metodo assai simile. Chiamai al cellulare Vanna, :"l'ho trovato, passiamo al piano B, fai arrivare stasera due dei nostri all'albergo, due turisti americani, hai la descrizione di Zabrhani, uno di essi dovrà avere la sua stessa corporatura". "Li ho pronti tutti e due, tra poco due turisti americani, Watson e Lewis, dopo un lungo viaggio da Memphis, nel Tennessee, saranno ospiti del Duchi di Aosta", Vanna aveva il pregio di avere pronta sempre la soluzione per qualsiasi richiesta, la nostra rete era consolidata e diffusa, dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda, Trieste era il nostro territorio, anche se gli avversari non lo avevano mai compreso. Slegai Zabrhani e lo sollevai dall'acqua, era pallido ma non ancora privo di coscienza, non tremava neppure di freddo, la muta era veramente a tenuta stagna. Gli feci segno di non aprire bocca e comprese, gli mostrai un documento e lui abbassò la testa, arrossendo, il sollievo di averla scampata sul filo di lana lo avrebbe reso, da quel momento in poi, l'essere più collaborativo del pianeta. Poco dopo, eravamo nella sua stanza e mi consegnò il cd. Nello stesso istante al desk dell'hotel si presentarono due uomini, il passaporto americano, uno di nome Watson, l'altro di nome Lewis, provenienti da Memphis, Lewis era imbacuccato fino ai capelli in un pesante giaccone, "mai visto un raffreddore così", spiegava un preoccupato Watson alla donna dall'accento tedesco. "Di solito il furgone arriva alle nove e trenta, carica asciugamani e biancheria e alle dieci parte per la lavanderia, dovrete svegliarvi presto domani mattina", la voce di Vanna al cellulare pareva divertita e nello stesso tempo sollevata. "Watson e io saremo i primi e... gli unici... divoratori della succulenta colazione, alle sei e trenta. Dopo, sia Watson che Lewis dovranno partire in tutta fretta e anche io non avrò più ragione di rimanere", confermai. "E' stato un piacere", mi disse con tono affettuoso Vanna. "Anche per me", risposi convinto e rattristato per la nuova lontananza. Alle tre del mattino Lewis scese nella hall dell'ingresso, si assicurò che il portiere di notte si trovasse nello stanzino attiguo e si diresse verso la porta di uscita, camminò rasente ai muri e si allontanò nella notte. Alle sei e venti del mattino Watson vestì Zabrhani del pesante giaccone che nascondeva le fattezze di Lewis la sera prima, poi gli ingiunse di stare seduto e in silenzio fino a che fosse tornato dalla sala della prima colazione. Alle sei e trenta fui il primo a servirmi del sontuoso buffet della colazione, c'erano tanti tipi di torte freschissime, brioches con tutti i ripieni immaginabili, al diavolo la dieta, pensai, dopo quello che abbiamo passato è il minimo che ci meritiamo. Watson entrò qualche minuto dopo, non fece segno di conoscermi e si servì di una nutriente colazione all'americana. Borbottò alle cameriere che il suo amico Lewis era rimasto in stanza, era talmente raffreddato che non si sentiva neppure di mangiare, meglio che dorma ancora un poco, concluse Watson, dato che partivano subito per la Slovenia. Alle sette del mattino un pimpante Watson e un dolorante Lewis, e c'era da dire che Zabrhani recitava bene la parte, pagarono il conto e salirono su un taxi che li aspettava all'esterno. Io non avevo tanta fretta e alle sette e ventidue assistetti ad una scena che non mi volevo perdere per tutto l'oro del mondo e mi accomodai nel salone attiguo alla hall, l'uomo del treno uscì dall'ascensore, si guardò attorno e non vide nulla di preoccupante, solo un ospite che leggeva un giornale locale seduto su una poltrona del salone, si volse verso la scala ricoperta dal ricco tappeto e, poco dopo, ricomparve, le vene del collo parevano stare per scoppiargli. Non alzai gli occhi, sospirai e riposi il quotidiano, andai al desk, chiesi il conto, pagai e ringraziai, promisi di tornare, era davvero un albergo stupendo, il portiere mi sorrise, grato, un poco infastidito per una voce di donna in sottofondo, l'accento tedesco, pareva piuttosto arrabbiata, discuteva animatamente con l'uomo del treno, vicino a loro l'inserviente che avrebbe dovuto guidare il furgone, aveva la testa bassa, una espressione meravigliata sul volto. §§§
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Roberto Mahlab
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Inserito - 13/04/2009 : 21:26:37
VIIIEra una bellissima mattinata di primavera, la bora era cessata, andai a piedi alla stazione, mi accomodai nello scompartimento, sentii dei passi e i miei riflessi si fecero pronti a reagire, ma era solo una ragazza con l'ipod alle orecchie, si sedette sul sedile davanti al mio, canticchiando e aprendo un libro. Mi rilassai, non c'era ragione di avere preoccupazioni, poco più di tre ore e sarei stato di nuovo in ufficio, la mia segretaria mi avrebbe chiesto se davvero l'hotel Duchi di Aosta era bello come su internet e la mia nipotina mi avrebbe chiesto se avessi provato l'esperienza della bora. E io avevo rivisto i miei amici, clienti da tanti anni che così spesso avevo desiderio, ricambiato, di andare a visitare, mi avevano mostrato la loro bellissima città e invitato in un ristorante squisito e poi le librerie e i castelli. Ancora tre ore che potevo dedicare alla fantasia letteraria di una vicenda di intrigo internazionale, cullato dal rilassante viaggio in treno, il lavoro offre a volte dei gradevoli effetti collaterali, di cui non è certo la copertura. Chiedete ai miei amici di Trieste, se avete dei dubbi. E, dimenticavo, 'Le passioni della mente', la biografia di Sigmund Freud, di Irving Stone, è finalmente in ristampa, sarà in libreria tra poche settimane. Quante coincidenze. Roberto Mahlab - I racconti dell'ufficio |
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