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 Oyvavvoyssip
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Roberto Mahlab
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Inserito - 24/04/2009 :  23:53:14  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

L'espressione "oyvavvoy" in ebraico significa :"mamma mia, che disastro" e viene pronunciata portando una mano alla bocca e sgranando gli occhi, meglio se in sottofondo risuona beffarda la musica di un violino, mentre il gossip è il gossip, a qualunque latitudine. E quando il gossip bisbiglia la fine del mondo, ecco a voi l'oyvavvoyssip. Devo brevettarlo.

Accadde tutto nella settimana di Pesach, la Pasqua ebraica, in cui si legge l'Haggadah, che significa "il racconto", il racconto tramandato di generazione in generazione che narra l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto e la salita nella Terra di Israele, dalla schiavitù alla libertà e si continua da allora a raccontare perchè di generazione in generazione si tramandi il valore della libertà e la memoria della sofferenza per ottenerla. I passi dell'Haggadah terminano con la dizione :"così si dice che avvenne".

E quale evento migliore della sera della cena di Pesach al Tempio per ascoltare i bisbigli dei pettegolezzi, per esempio sapete che Rivka ha scioperato proprio quella sera e si è rifiutata di preparare la cena per il marito e i figli? Le ragioni? Be', dipende, se ve le racconta Tzipora o se ve le racconta Ariela che a loro volta le hanno ascoltate da Sarah e da Leah. Insomma il gossip pretende che Rivka si sia offesa perchè la sua famiglia non si era ancora fatta vedere alle sei e lei non sapeva se mettere in forno l'agnello. E così si è arrabbiata e ha telefonato al marito Joseph Mandel e ai figli Mordechai e Uri che se la preparassero loro la cena della festa, quando si fossero decisi a tornare, dal lavoro il primo e dal tennis i secondi. C'è da dire, o almeno Sarah ha detto a Leah che ha detto a Ariela che ha detto a Tzipora, che i figli ce l'hanno messa tutta, ma si sono arresi al momento di leggere le istruzioni per l'accensione del forno. E infine Joseph ha esclamato :"e va bene, la cena della festa andiamo a farla al Tempio, insieme al rabbino e agli amici". Certo era per questo che la famiglia Mandel era seduta al tavolo vicino al nostro, la sera della cena di Pesach, al Tempio. O forse erano lì solo perchè avevano deciso in precedenza di festeggiare con noi, forse il gossip era solo un gossip e, se non era veritiero, comunque era ben trovato.

E, di gossip in gossip su tutto quanto era possibile spettegolare, il brusio poco a poco cedette il passo al tintinnio del cucchiaio sul bicchiere con il quale il rabbino chiedeva l'attenzione necessaria per iniziare la celebrazione.
Il testo dice che non si è fatto Pesach se non si sono dette le tre parole che lo caratterizzano : Pesach, Mazà e Maror. Pesach è il nome della festa del passaggio dalla schiavitù alla libertà, Mazà è il pane azzimo che per una settimana mangiamo al posto di qualsiasi cibo lievitato, per ricordare che gli ebrei in fuga dall'Egitto non ebbero il tempo di far lievitare il pane, Maror è l'erba amara, in ricordo degli stenti della schiavitù.

"Ma perchè" sussurrai rivolto alla mia nipotina, "non si può mangiare il pane e invece si può mangiare l'orribile zuppa di verdura?", mia nipotina mi osservò perplessa e il suo sguardo attrasse anche quello di mio nipotino, di mia sorella, di mio cognato e di mia mamma, nonchè quello della famiglia Mandel al tavolo vicino. "Così come non ebbero il tempo di far lievitare il pane, non ebbero neppure quello di far bollire la zuppa", conclusi con tono di evidenza, "e dunque non vedo per quale motivo, anzichè rinunciare al pane e ai pasticcini per una settimana, non possiamo invece rinunciare semplicemente alla zuppa di verdura", e nella mia mente comparve l'orrenda visione del brodo ribollente stracolmo di cipolle, peperoni, ceci e bucce e semini di pomodoro.
"Chiedilo al rabbino", sibilò mio nipote, ma il suo tono non mi invitava per nulla a porre la questione in pubblico. "Coraggio, chiediglielo", mi si rivolse mia nipotina lanciando uno sguardo infuocato. "Tu provaci solo", disse mia sorella. Mio cognato alzò le braccia al cielo e mia mamma disse alla signora Mandel che non mi conosceva.

"... adesso prendete in mano l'erba amara e recitiamo..", stava dicendo il rabbino che aggiunse :"nel piatto troverete altre verdure su cui è possibile recitare la benedizione, come le cipolle...".
Ora io non sopporto le cipolle, non perchè non mi piacciano, ma perchè proprio non sono buone e questa convinzione mi separa dal resto del genere umano. Del resto la Torah ci insegna che di cinque vivande gli ebrei ebbero nostalgia dopo la fuga dall'Egitto e tra esse c'erano le cipolle, o almeno le loro antenate. Per questo, sostengo io, mangiare le cipolle significa avere nostalgia della schiavitù. Solo io lo sostengo però.
"Bene, adesso lo dico al rabbino, visto che ha iniziato lui a parlarne", sussurrai rivolto alla mia nipotina. Come era già avvenuto, lei mi guardò perplessa, mio nipote mi guardò torvo, mia sorella mi lanciò un :"tu provaci solo", mio cognato alzò le braccia al cielo e mia mamma ripetè alla signora Mandel che davvero non mi conosceva.

E se nei giorni successivi Rivka avesse bisbigliato a Tzipora che aveva sentito che forse in origine era la zuppa di verdura che avremmo dovuto evitare per una settimana? E che erano le cipolle le responsabili della fuga dall'Egitto? E se Tzipora lo avesse detto a Ariela e di voce in voce, la mia convinzione si fosse trasformata nella notizia di uno scisma? Solo il futuro conosce la risposta.

Certo sempre che il futuro arrivi.

La cena della seconda sera di Pesach la celebrammo da mia sorella e, mentre sgraffignavo un dolce fatto con le mazot in cucina, il mio sguardo si appuntò su un calendario appeso alla parete e lì rimase incantato. "Che fai, vieni a tavola?", mi chiamò mia sorella.
Non rispondevo. "Ma che cosa stai combinando? Che ha quel calendario che stai guardando ipnotizzato?".
Mi volsi verso di lei con aria grave e esclamai :"Oyvavvoy!".

Tutta la famiglia mi si fece attorno per verificare che non fossi impazzito, non più di quanto ritengono che sia la mia normalità, io indicai loro la pagina del calendario e rivelai :"il 25 aprile a mezzanotte finisce il mondo, almeno per come lo conosciamo".
Devo dire a loro merito che per un attimo, per un solo attimo, rimasero senza parole, quasi mi prendessero sul serio. Ma io ero serio.

"Hanno semplicemente sbagliato a stampare", fu mia nipotina a rompere l'angoscioso silenzio.
"Un calendario del rabbinato? Con un errore di stampa?", ribattei con tono incredulo.
"Eppure le caselle sono trenta", osservò mio nipote.
"Hai ragione, ci sono due trenta, manca il ventisei, ma ci sono due trenta", gli confermai, mormorando una colonna sonora di un film dell'orrore.
"Quando si sono accorti nell'ultima casella che avevano saltato un numero, l'hanno riempita con un numero ripetuto", concluse mio cognato.
"Così può apparire, effettivamente", continuai con l'espressione di voce lugubre dei fuori campo dei film di fantascienza di cui vado ghiotto.
"Va bene ragazzi, è ora della preghiera, a tavola", mia sorella si inserì con tono pratico.
"Data la fonte, è improbabile che sia un errore", insistetti, "guardate, saltando il ventisei, hanno modificato anche i giorni dell'intera settimana successiva e hanno anticipato anche la data ebraica", sottolineai con un dito il due del mese di Iyar, corrispondente al ventisei di aprile, che invece era affidato al 27 di aprile, "Iyar, il mese della luce della guarigione, secondo la tradizione", soggiunsi gravemente.

"E va bene, e allora?", intervenne mia mamma.
"Forse dovremmo telefonare al rabbino e chiedergli perchè".
"Ok, senti telefonagli tu, adesso però andiamo a tavola", mia sorella pareva esasperata.

Li seguii e celebrammo la seconda sera di Pesach, ma il mio pensiero vagava, se avessi telefonato e avessi chiesto e mi avessero risposto che non era stato un errore e che il ventisei non ci sarebbe stato? Non era meglio non sapere? Se mi avessero messo al corrente che il tempo sarebbe scomparso a mezzanotte del venticinque aprile e poi sarebbe ripreso al primo istante del ventisette di aprile, certo un nuovo mondo confuso, con i giorni della settimana alterati, fino al trenta che si sarebbe presentato due volte. Del resto il mese di Iyar è un mese importante per la tradizione ebraica, dal due al quattro cadono l'anniversario del caballista Menachem Mendel e quello della fondazione di Israele.

Passai i giorni seguenti a riflettere e a consultare i testi per cercare di comprendere che cosa sarebbe accaduto il ventisei di aprile, tale da cancellarlo, ma stranamente gli antichi scritti non davano alcun appiglio. Vagavo per le strade nella notte piovosa, non avevo l'ombrello e una goccia mi cadde proprio al centro del capo :"e se il ventisei di aprile, anzichè accadere qualcosa, invece non accadesse quello che sarebbe accaduto se il giorno ci fosse stato?".

Ecco la soluzione all'enigma del calendario incompleto, quel giorno non sarebbe esistito apposta, di modo che non sarebbe successo quanto sarebbe successo se fosse esistito e di qualunque cosa si tratti, l'avremmo scampata bella e non avremmo dovuto esclamare :"oyvavvoy!". E il tempo riprenderà a scorrere il giorno successivo.
C'è tutto nei testi, anche quello che non c'è, perchè se non c'è, allora c'è, nulla manca per caso e, se manca, ha un senso.

Stasera ho svelato l'arcano alla famiglia, ma mia sorella pareva del tutto disinteressata alle mie conclusioni, anzi, era sorridente e allegra.
"Ma come", le chiesi, "mi sto sforzando di trasformare una pagina di calendario in un thriller del mistero e tu, invece di collaborare e mostrarti angosciata, sei contenta?", ero veramente sorpreso.
"Qual è la data ripetuta?", chiese mia sorella con tono professorale.
"Il trenta di aprile", fu la nostra ovvia risposta corale.
"E che cosa cade il trenta di aprile?", proseguì mia sorella come se fossimo i suoi allievi che interrogava sugli avvenimenti storici.
"E' il tuo compleanno!", esclamò mia nipotina.
"Esatto", si illuminò mia sorella, "e visto che il trenta capita due volte, mi dovrete fare i regali per due giorni di seguito, perchè per due giorni di seguito si ripeterà il mio compleanno e pretendo regali costosi, per due volte".

Oyvavvoy.

Roberto Mahlab

   
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