Renato Attolini
Senatore
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Inserito - 26/08/2013 : 22:28:53
Tutto era cominciato in quella mattina assai lontana (alquanto difficile risalire alla collocazione temporale esatta) quando Marco Ferrini giovane impiegato presso una ditta di componenti elettrici di medie dimensioni nell'alto Varesotto, ai confini con la Svizzera, stava praticamente litigando con una pila di fatture del trimestre il cui totale non corrispondeva a quello indicato dal programma di contabilità elettronica. A dirla tutta e soprattutto a bassa voce, quell'operazione non era strettamente necessaria poiché sarebbe bastato il responso del computer ma il proprietario nonché fondatore dell’azienda, uomo all'antica che oltrepassava gli 80 anni seppure tremendamente in gamba, lucido, scattante, attivissimo e anche ruvido come la carta vetrata, soleva ripetere che” dicheirobilìmafidunò”; tradotto in Italiano corrente significava che manifestava una molto malcelata insofferenza verso i mezzi informatici, per cui preferiva sempre un riscontro manuale. Marco intrecciò le mani sopra la testa in un gesto a lui abituale e spinse indietro lo schienale della sedia girevole e si lasciò andare a un mix di riflessioni e ricordi (cosa che del resto gli capitava sovente). Gli venne in mente quando prese la laurea a pieni voti in Filosofia con una tesi sull'influenza di Emanuele Kant sul pensiero del poeta e filosofo tedesco Friedrich Schiller anzi Von Schiller come amava citarlo lui con un certo sussiego e parecchio snobismo. D'altronde l’alterigia non gli faceva certo difetto e nel suo ambiente era definito “uno che se la tirava” come si usa dire un po’ volgarmente. Nelle sue fantasie si vedeva docente universitario, in giro sempre con una pila di libri, occhialini alla moda, capigliatura alquanto lunga e volutamente lasciata leggermente disordinata, abbigliamento “casual” apparentemente modesto ma rigorosamente firmato. S’immaginava frequentare <Café Literaire> , partecipare a dotte conversazioni ed anche essere invitato a trasmissioni televisive in qualità di ospite illustre alla pari di Massimo Cacciari che lui definiva “collega” e per il quale nutriva stima e ammirazione. Ad abbassargli repentinamente e bruscamente e soprattutto definitivamente le ali fu la crisi economica e occupazionale nella quale il Paese versava ormai da parecchio tempo. Fiumi di domande, corsi, concorsi, stage costosi si rivelarono del tutto inutili. Arrivò il momento che il padre una sera a cena gli disse, fissandolo negli occhi, che era il momento di cercarsi un lavoro, uno qualsiasi che non avesse a che fare con la sua laurea, in quanto né lui né la madre potevano permettersi di mantenerlo ancora con le loro modeste entrate da pensionati. Aggiunse che avrebbe parlato col proprietario della fabbrica per la quale aveva svolto le mansioni di fattorino per tanti anni chiedendogli di assumerlo, contando anche sulla benevolenza e fiducia che erano sempre state riservate nei suoi confronti. Marco capì la situazione e chinò il capo assentendo silenziosamente. Dopo qualche giorno si ritrovò a faccia a faccia con Leopoldo Ricci unico e indiscusso padrone della fabbrica che portava il suo nome. Senza mezzi termini gli espresse tutta la diffidenza possibile (per quanto ovvio il concetto fu espresso in dialetto stretto) sul fatto che un laureato in Filosofia avesse qualche possibilità di combinare qualcosa di buono nella sua ditta, ma per il rispetto che portava per suo padre e con la speranza che gli assomigliasse non si dice in tutto e per tutto ma almeno un po’ lo volle mettere alla prova e lo assunse. Fu così che Marco il quale per tutta la sua vita aveva nutrito per la matematica e i numeri in genere un’avversione totale che sconfinava nell’idiosincrasia si ritrovò a fare il contabile. E adesso c’erano i conti di quelle stramaledette fatture che non ne volevano sapere di quadrare. “Allora professorino, qualcosa non va?” Una voce rauca impastata di nicotina lo colse di sorpresa alle sue spalle. Non aveva bisogno di sapere a chi appartenesse, in primo luogo perché in quell’ufficio erano soltanto in due e secondo perché esisteva solo una persona che lo chiamava in quel modo. Si volse a guardarlo e incrociò lo sguardo beffardo del ragionier Tullio Marchetti, suo collega anziano ed essere per il quale Marco nutriva un sincero e genuino disprezzo. Costui era ormai prossimo al pensionamento, motivo per il quale era sopportato da tutti, Ricci compreso. Passava le giornate lavoricchiando ma perlopiù leggendo attentamente quotidiani sportivi, interrompendosi solo per dare qualche furtiva occhiata a riviste per soli uomini di cui abbondava un cassetto della sua scrivania. Un’altra sua specialità era di lamentarsi continuamente di non aver fatto una brillante carriera e di come le sue “indubbie” doti non fossero state appieno valorizzate. A suo dire erano tutti incapaci e se qualcuno erano andato avanti più di lui si doveva al fatto che era un leccapiedi se uomo mentre se donna si poteva ben immaginare come. Non molto alto, quasi pelato era debordante in un corpo appesantito negli anni dagli eccessi alimentari per il quale l’unica attività fisica prevista era la contrazione del bicipite quando portava la posata alla bocca. Risultava sgradevole persino alla vista: perennemente sudato, la giacca aperta sul petto, la cravatta sempre slacciata. Marco pensava che se avessero istituito un Premio Nobel per lo Squallore (la maiuscola è voluta), Marchetti avrebbe ricevuto una lunga fila di nominations con ottime probabilità di ottenere la vittoria finale giacché ne era la quintessenza stessa. Il nomignolo affibbiatogli, le continue frecciatine sulla sua “inutile laurea” e sulla sua vita privata e sentimentale avevano più volte fatto venire a Marco la voglia di rovesciargli in testa il cestino della carta straccia ma si era sempre trattenuto, per rispetto a Ricci e soprattutto a suo padre. Era lì a lavorare grazie a loro e non poteva certo deluderli. “Si qualcosa non quadra” rispose Marco cercando di sembrare cordiale senza riuscirci molto. “Il totale di queste centinaia di fatture non corrisponde a quello dichiarato dal sistema.” Marchetti stranamente si trovava in quei rarissimi momenti in cui sembrava interessato al lavoro per cui si avvicinò di più e gli chiese: “Magari ne hai saltata qualcuna. Hai controllato la quantità?” “Sì, corrisponde.” “Di quant’è la differenza?” “Di 4.689 euro.” Rispose Marco sconsolatamente. Marchetti prese la calcolatrice e fece due brevissimi conti. “Il tuo totale è superiore o inferiore a quello del sistema?” “Inferiore, perché?” chiese Marco, leggermente perplesso. “Diamo per scontato che il sistema non sbaglia, checché ne dica quel vecchio rincitrullito di Ricci.” <Ha parlato il teenager.> pensò il giovane fra se, ma ribatté: “E dunque?” “E dunque guarda se nella <strisciata> che hai fatto con la calcolatrice c’è un importo di 521 euro.” Alquanto scettico Marco esaminò la cosiddetta <strisciata> che era molto lunga ma non un fu difficile trovare subito quella cifra. “E’ vero!” esclamò sorpreso “Effettivamente esiste.” “Bene, se adesso controlli bene vedrai che c’è una fattura di 5.210 euro che tu hai scambiato per 521.” Era proprio così e Marco, attonito e più incuriosito che mai chiese a Marchetti come avesse fatto. “E’ semplice, molto di più di quello che tu possa pensare. Non è altro che la regola del 9, conosciuta credo da tutti i contabili. Nel tuo caso per esempio se sommi i numeri che compongono la differenza che avevi ottieni: 4+6+8+9=27 e infine 2+7=9. Quindi già questo ti dice che hai fatto o un’inversione di cifre o hai omesso uno zero. Se poi dividi 4689 per 9 hai come risultato 521 che è la cifra che tu hai scambiato per 5210 dimenticando lo zero finale. Infatti se sottrai 521 a 5.210 ottieni appunto 4.689”. “Molto interessante” osservò Marco “ma cosa intendi per inversione?” “Quando scambi due cifre fra loro. Per esempio 97 con 79 o 58 con 85. Se fai la differenza otterrai sempre un numero divisibile per 9. Per esempio 97-79= 18 1+8=9. Volendo essere ancora più precisi se dividi 18 per 9 ottieni 2. Questo cosa significa? Che la differenza fra ciascuna cifra che compone la sottrazione è 2. Tra 9 e 7 è appunto 2, lo stesso ovviamente per 7 e 9. Invece 85-58= 27 che diviso per 9 dà come risultato 3 la stessa differenza che c’è fra 8 e 5 e quindi 5 e 8.”. Chiaro?” “Non del tutto” si disse fra se Marco che era piuttosto confuso ma, pur non volendolo ammettere a se stesso, anche affascinato. Marchetti doveva essere stato comunque un buon contabile ai suoi tempi, prima che si lasciasse andare e Marco se lo immaginava col berretto a visiera, i copri- maniche neri che faceva andare la calcolatrice con la manovella. Forse era andato un po’ troppo indietro col tempo, quell’immagine non poteva appartenere al suo collega che ignaro dei pensieri di Marco e approfittando del suo silenzio incalzò. “I numeri hanno una loro simbologia ed anche una loro filosofia. Questo tu dovresti saperlo perché è il tuo campo.”. Marco fece per obiettare risentito perché gli sembrava l’ennesima presa in giro, ma si fermò. Nella voce di Marchetti come nel suo sguardo non c’era traccia alcuna di sarcasmo per cui lo lasciò continuare. “Non sono entità fredde e senza vita. Si dice che la Matematica non è un’opinione ma questo è vero solo se ci atteniamo ai freddi calcoli. Perché il 13 e il 17 incutono timore? Perché questi numeri non compaiono in molti alberghi o nelle file di molti aerei? Superstizione? Certamente. Ma il motivo? Tu lo sai? Certo di teorie ce ne sono tante. Il 13 probabilmente si riferisce ai componenti dell’Ultima Cena e il 17 perché in lettere romane si scrive XVII che anagrammato risulta VIXI cioè <vissi> in Latino, parola che evoca la morte. Ma torniamo al 9. Hai notato come questo numero ti segnala in modo inequivocabile che hai sbagliato qualcosa e ti suggerisce pure il modo per correggere l’errore. Non a caso ho usato il verbo segnalare. Il 9 ricordalo è un segnale che qualcosa non va, non quadra, non solo nei conti. Nasconde un significato segreto, inquietante. Hai presente qual è il numero del Maligno? 666, 6+6+6=18, 1+8=9. E questo è solo uno dei tanti esempi. Te ne potrei fare a centinaia.” Marco rimase a bocca aperto, allibito. Marchetti aveva parlato tutto d’un fiato, ma a parte questo sembrava in trance. Oltretutto era il discorso più profondo che fosse mai uscito dalla sua bocca dato che quello più impegnativo che riusciva a imbastire riguardava il “Lato B” di qualche velina o attricetta e mai si era espresso in questi termini. L’uomo sembrò destarsi dal suo stato d’ipnosi e uscì dalla stanza dicendo che andava a fumarsi una sigaretta. Marco era sconcertato, delle due l’una: o aveva mal giudicato il suo collega o lo stesso si era già fumato qualcosa ma non certo tabacco. Successivamente si sarebbe reso conto che si sbagliava in entrambi in casi: Marchetti, passata quella parentesi nella quale per la prima volta aveva parlato di cose non volgari seppure strambe, sembrò ritornare a essere quel disgustoso personaggio che era sempre stato e ad ogni modo non aveva mai fatto uso di droghe neanche leggere, semmai alzava un po’ troppo il gomito ma non in quella circostanza. Da quella volta Marco non ebbe più grossi problemi con le quadrature dei conti, anzi quasi si divertiva i quando aveva una differenza a scomporla numero per numero e trovare immediatamente l’errore. Inconsciamente però la sua attenzione si soffermava sempre più spesso sui numeri che vedeva in giro anche al di fuori dal lavoro. Se doveva fare una cosa, guardava prima l’orologio e se le cifre che componevano l’ora davano per risultato 9, provava un moto di fastidio e preferiva aspettare un minuto, solo fissando il quadrante fino a quando il display cambiava. In ufficio niente era cambiato al di fuori di questo, ignorava pazientemente il suo collega e le sue battutacce e cercava di svolgere i suoi compiti nel modo più diligente possibile. A rendere meno pesante la giornata c’era il pensiero di una ragazza di nome Gisella che lavorava nella stessa azienda al reparto Spedizioni. Spesso la incontrava nei corridoi e i sorrisi che si scambiavano stavano a indicare una reciproca simpatia. Per niente brutta, anche se le belle erano fatte diversamente era comunque graziosa, simpatica e soprattutto molto dolce. Volendo guardare neanche lui era un adone e lo si poteva scambiare per Raoul Bova o George Clooney solo visto di spalle a cento metri di distanza in una notte di nebbia. Talvolta s’incontravano alla macchinetta del caffè per una brevissima pausa nella quale scambiavano due parole. A Marco piaceva molto Gisella e un giorno finalmente, vinta la timidezza dovuta alla sua scarsa esperienza in fatto di relazioni amorose, trovò il coraggio di fermarla e invitarla per andare al cinema nel fine settimana. Si aspettava che la ragazza si schernisse o addirittura rifiutasse ma quale non fu la sua sorpresa nel ricevere subito una risposta affermativa. “Allora passerò a prenderti venerdì sera alle otto e mezza. Andiamo a bere qualcosa e poi al cinema per il secondo spettacolo.”. le disse quasi euforico. La sera stabilita Marco, fresco di doccia e profumato arrivò puntuale sotto casa di Gisella. Guardò l’orologio digitale del cruscotto che segnava le 20.30 e rimase in attesa ma i minuti passavano e Gisella non scendeva. A un certo punto sentì aprire la portiera e la ragazza con un sorriso smagliante lo salutò. Marco diede un’altra occhiata all’orologio: le 20.43. Seppure avesse poca dimestichezza con gli appuntamenti galanti, avrebbe comunque dovuto sapere che quando una donna si presenta con meno di un quarto d’ora di ritardo ciò vuol significare che è assolutamente puntuale. Ma più che altro quello che preoccupava Marco era l’ora in cui era arrivata Gisella: le 20.43! Quindi 2+0+4+3=9. Rispose con un saluto imbarazzato e nervoso provocando perplessità alla ragazza che si affrettò a dire: “Sono tanto in ritardo?” “Ma no figurati” replicò Marco frettolosamente “Solo di poco”. Per tutta la serata Marco cercò di essere brillante ma una certa inquietudine non lo lasciava in pace. Al momento dei saluti Gisella un po’ mortificata gli chiese: “Ho detto qualcosa che non andava bene? Scusa, ma mi sembravi un po’ strano.” Quell’affermazione detta con un tono di voce così remissivo spazzò via di colpo tutto il nervosismo di Marco che esplose in una risata e facendole una carezza sul viso le disse: “Ma no, scusami tu piuttosto. Ero in preda all’emozione. Vedrai che la prossima volta sarò più disinvolto.”. Era praticamente un invito a rivedersi che Gisella accettò di buon grado. Non appena solo Marco si diede dello stupido per un’infinità di volte, chiedendosi come aveva potuto rovinare una serata per causa di quella che stava cominciando a essere una vera e propria ossessione. “Se non mi passa vado da uno psicologo, anzi da uno psichiatra” si disse deciso. Da quella sera Marco visse un lungo periodo di conflittualità interiore. Se da un lato il suo rendimento sul lavoro migliorava continuamente proprio in virtù di quello che ormai era diventato un tarlo nel suo cervello tanto da fargli scovare in un lampo differenze contabili che normalmente avrebbero richiesto più tempo, dall’altro la sua vita privata era in balia di quest’ossessione da numero 9 che ricordava parecchio un film “Number 23” in cui Jim Carrey, abitualmente impiegato in ruoli assai frivoli, offre una magistrale e drammatica interpretazione di un individuo alle prese con una fissazione analoga. Non ebbe più il coraggio d’invitare fuori un’altra volta Gisella e con lei si limitò a brevi sorrisi di saluto quando la incrociava in azienda, suscitando il sarcasmo volgare di Marchetti che reputava il giovane incapace (usando un eufemismo) di sedurre una ragazza. Era proprio questo che tormentava Marco, non le frecciate di quell’idiota di collega ma l’aver di fatto rinunciato alla ragazza che pure gli piaceva tanto. Fu questa la molla che lo spinse a rivolgersi, come si era ripromesso, a uno specialista. Fin dalla prima seduta rivelò allo psicologo tutti i blocchi mentali e questa mania che lo attanagliava impedendogli di avere una vita normale e questi, dopo averlo ascoltato attentamente, lo rassicurò. “Non c’è assolutamente nulla di strano nel suo comportamento o quantomeno nulla di così grave. Potremmo probabilmente definirlo un caso di <nevrosi ossessiva> che affligge molte più persone di quello che lei pensa e delle cui varianti potrei farle un elenco lunghissimo. Lei può guarirne o no ma non è questo il punto: quello che deve imparare e su cui lavoreremo e conviverci riuscendo alla fine a non farci caso. Ha presente quel tizio che è disperato perché tutte le notti si fa la pipì a letto? Dopo aver chiesto aiuto a un dottore ed esserci andato molte volte, questi lo vede finalmente tranquillo e gli chiese se quel disturbo lo affliggesse ancora e lui gli rispose che invece gli capitava continuamente ma non gliene fregava più niente. Ecco questo potrebbe essere il suo caso. Ci rivedremo.” Quando Marco gli chiese il suo onorario per la visita impallidì di fronte alla richiesta di 90 euro non tanto per il prezzo, tutto sommato abbordabile per quel genere di prestazioni mediche, quanto per la cifra divisibile per 9. Il dottore capì e sorridendo gli disse: “Va bene facciamo 100 allora” e guardando la sua faccia aggiunse subito: “Stavo scherzando, si rilassi e cominci immediatamente ad accettare questa realtà che non è assolutamente tragica.” Le sedute avevano una cadenza settimanale e ogni volta Marco era sempre più rinfrancato e sicuro di sé. Non aveva dimenticato il suo chiodo fisso ma come aveva detto il medico, ci faceva sempre meno caso. Si sentiva proprio bene, se solo ci avesse pensato prima! Con questo nuovo spirito invitò nuovamente Gisella a uscire e questa volta andò notevolmente meglio tanto che fu l’inizio di una lunga serie. Ormai si poteva dire che stavano insieme e fra loro era nato un bel sentimento. Marco sembrava un’altra persona e arrivò persino a sorridere quando seppe la data di nascita della ragazza: 21-6-1989, numeri che sommati fra loro davano ovviamente 9 per risultato. Ecco un’altra coincidenza, pensò fra se, ma il tormento ormai apparteneva al passato. Una mattina entrò allegro e sorridente come sempre in ufficio e Marchetti, che sembrava più trasandato del solito, lo apostrofò: “Eh allora, professorino in che motel siamo andati ieri sera?” Marcò lo fissò a lungo e senza alzare la voce con un sorriso glaciale lo sferzò: “Marchetti, la sai una cosa? Se gli escrementi potessero volare tu saresti un Boeing 707.”. Dopodichè si sedette e iniziò a lavorare. Il collega rimase annichilito quasi pietrificato. I due non si parlarono tutto il giorno e arrivati a sera al momento di uscire Marchetti lo avvicinò. “Marco, mi spiace per oggi. Volevo solamente scherzare ma mi sono comportato invece da villano. Che ne dici di un aperitivo riparatore?” Stavolta fu il giovane a rimanere senza parole: mai e poi mai in tutto questo tempo lo aveva chiamato col suo vero nome e inoltre quell’essere non sembrava proprio il tipo da porgere le scuse. “Lascia stare Marchetti, non è il caso. Dopotutto anch’io ci sono andato pesante. Siamo pari.” rispose Marco abbastanza freddamente e in modo sbrigativo. “Questo è vero, però per favore accetta” replicò l’altro. Era l’ultima persona al mondo con la quale avrebbe condiviso anche un solo caffè, ma il suo collega sembrava non solo sinceramente pentito ma anche diverso, quasi “umano” lo definì ironicamente nella sua mente e alla fine cedette alle sue insistenze. Andarono in un pub lì vicino e mentre Marcò ordinò un analcolico, Marchetti fece un cenno d’intesa al cameriere che evidentemente lo conosceva bene poiché probabilmente era un cliente abituale del locale. Insieme al drink di Marco furono serviti un “Negroni”, patatine, olivette e qualche tartina. Marchetti fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di Marco e cominciò a trangugiare il suo cocktail a base di bitter, vermouth rosso e gin, uno dei più “tosti” in circolazione. Guardò in faccia il suo giovane collega e cominciò a parlare: “Scusami per stamattina.…” e mentre Marco cercò di dire qualcosa lui lo prevenne. “No, non dirmi niente e per favore non m’interrompere. Io lo so che tu mi detesti e mi disprezzi ma non te ne faccio una colpa, lo farei anch’io al posto tuo e sai perché? Per il semplice motivo che io sono la prima persona a non avere stima di me stesso. Però ti assicuro che non sempre è stato così. Quando avevo la tua età, credevo di avere il mondo nelle mie mani ero pieno d’entusiasmo, di ambizione ma poi ho capito, o qualcuno mi fatto capire che il mio destino era segnato, che non avrei potuto non solo avere successo ma anche una vita normale, serena.”. Bevve un lungo sorso e masticando un’oliva continuò: “Io non sapevo nulla, non ci credevo a queste cose, anzi ne ridevo.” “A quali cose?” chiese incuriosito Marco mentre Marchetti svuotò il suo bicchiere e chiese un altro Negroni. “Ehi, vacci piano” disse Marco un po’ allarmato. “Non farci caso, ragazzo, sono abituato e poi ascoltami bene. Quanto ti dirò non è frutto della mia propensione a ingurgitare superalcolici ma è la realtà, la pura e semplice verità. La mia rovina è iniziata il giorno che ho scoperto le sue malefiche proprietà. Tu sai bene di chi sto parlando, vero? Di lui, del numero 9.” Marco sentì un brivido freddo lungo la schiena e gocce di sudore ghiacciato cominciarono a scendergli dalla fronte. “Vedo che ho colto nel segno” ridacchiò l’uomo. “Bene ascoltami, io sono nato il 9 febbraio del 1951. Non me ne ero mai accorto ma quando il 9 ha cominciato ha influenzare la mia vita allora mi sono reso conto che 9-2-1951 sommati fra loro fanno 27, 2+7=9. Ho iniziato a lavorare nella ditta di Ricci il 2 aprile 1974, quindi 2-4-1974 idem come sopra. E hai visto che bella carriera che ho fatto? Vogliamo parlare del matrimonio? Sposato il 2 Marzo 1975, 2-3-1975, stesso risultato, un disastro. E non è finita. Un pomeriggio mi sento male in ufficio e torno a casa prima dell’orario consueto e cosa ci trovo? Mia moglie abbracciata a un altro sul divano, ti risparmio i particolari. E sai che giorno era? L’8 gennaio 1980, 8-1-1980. Sai fare i conti, no? Ovvio che abbiamo divorziato, ma inutile specificare che le responsabilità del fallimento sono state tutte imputate a me, per cui spese, alimenti e quant’altro. Ti ricordi di quella volta che ti parlai del 9 come di un segnale? Ebbene te lo confermo.” Marco certo si ricordò di quella volta e provò una sincera pena per quell’uomo che forse aveva giudicato troppo severamente ma si chiese anche se avesse tutte le rotelle al posto giusto. Fu un’altra domanda che invece gli sorse spontaneamente. “Tullio” anche lui lo chiamò per nome per la prima volta “Perché mi racconti tutto questo?” L’uomo finì il suo secondo cocktail in un fiato, si alzò e puntandogli un dito addosso gli disse: “Per metterti in guardia, mio caro. Perché sei un bravo ragazzo e non voglio che diventi una schifezza come me. Addio.” Andò alla cassa, pagò e uscì dal bar mentre Marco rimase seduto per un po’ completamente frastornato. Sapere che c’era qualcun altro che soffriva della sua stessa mania ossessiva e anzi ne era talmente divorato da compromettere tutta un’esistenza lo turbava terribilmente. Il giorno dopo appena arrivato in ufficio ricevette una chiamata dalla segretaria di Ricci che lo convocava immediatamente da lui. Un po’ sorpreso e timoroso si recò nel suo studio che aveva visto una volta sola, tempo addietro al momento dell’assunzione e poi basta. “Venga avanti Ferrini”, lo esortò Ricci “e si accomodi”. Ciò che più lo sorprese non era tanto nel tono meno burbero di come lo ricordava, anche se ancora parecchio lontano dall’essere definito cordiale quanto dal fatto, assolutamente insolito, che gli si era rivolto in Italiano, tralasciando il dialetto. La cosa era decisamente inquietante. “Arriviamo subito al punto. Il suo collega Marchetti si è preso un periodo di ferie al termine del quale non si ripresenterà più in ditta in quanto decorrerà la pensione. Per un certo periodo dovrà sbrigarsela da solo, il che non le risulterà particolarmente pesante in considerazione dello scarso apporto che le offriva. Non appena ci sarà l’occasione vedremo di affiancarle un sostituto. Sperando che sia più valido di lui, anche se non è che ci voglia molto per esserlo. Può andare adesso.” Lo congedò bruscamente. Uscì alquanto sconcertato e anche un po’ rammaricato dall’evolversi della situazione. In fondo un po’ gli dispiaceva soprattutto dopo quanto dettogli dal suo anziano collega la sera prima. Da quel momento ci pensò continuamente e ossessivamente. Cercò in tutti i modi di convincersi che era insensato attribuire a delle combinazioni numeriche, seppure inquietanti, gli insuccessi e gli episodi negativi di tutta una vita, la cui responsabilità, almeno in una buona parte, doveva ricadere soprattutto su chi ne aveva patito le conseguenze in prima persona. Nonostante i suoi sforzi i fantasmi che sembrava aver scacciato si ripresentarono inesorabilmente in maniera ancora più marcata rispetto al passato. Tutto precipitò in poco tempo. Ormai vedeva il 9 dappertutto, in ogni circostanza, in ogni dove. Le cose peggiorarono sia nel lavoro che con Gisella la quale tentò il tutto per tutto di salvare il loro rapporto ma fu costretta a capitolare. Una sera, infatti, mentre erano nella macchina di lei a chiacchierare, cercando di essere il più dolce possibile gli disse: “Sai Marco, io penso che se abbiamo dei problemi e perché non possediamo ancora una casa nostra dove vivere la nostra vita, la nostra intimità.” Gli prese le mani e guardandolo negli occhi gli sussurrò: “E’ora di sposarci, amore mio. Anzi l’altro giorno, per gioco, ho immaginato anche la data. Che ne dici del 14 giugno 2014? Una settimana prima del mio compleanno, non ti pare una bella idea?”. Marco fece subito due calcoli e poi ritrasse le mani esclamando: “Fantastico! Sposarsi il 14-6-2014 con una che è nata il 21-6-1989? E’ il massimo! Prova a calcolare, che risultato hai? E poi non hai pensato anche un’altra cosa. Con che lettera inizia il mio nome, la M cioè l’undicesima dell’alfabeto e la tua? La G, cioè la settima. 11+7=18, 1+8=9. Che matrimonio sarebbe il nostro? Tempo pochi anni sarebbe finito e anche se ovviamente non conosco il giorno preciso, so però dirti con esattezza a quanto ammonterebbe il totale delle cifre che comporrebbero quella data. 9 solo 9 nient’altro che 9!” Uscì dalla macchina sbattendo la portiera e lasciando Gisella sconvolta e in lacrime che aveva ascoltato terrorizzata quell’assurda e incomprensibile reazione. Si rese conto di aver distrutto la sua vita e prima che fosse tardi del tutto ricorse all’aiuto dello psicologo il quale senza mezzi termini, nonché un po’ frustrato dall’insuccesso del suo paziente, gli consigliò anzi per meglio dire gli ordinò di farsi ricoverare al più presto al reparto Neurologia dell’Ospedale cittadino. Qualche giorno dopo con la prescrizione firmata dal dottore, si presentò all'accettazione del reparto. La caposala prese il foglio esaminò un registro e gli disse: “Sta bene. Adesso le assegniamo una camera”. Poi chiamò un’infermiera. “C’è un nuovo ricovero. Accompagna il signore alla 9.” Marco si mise a urlare.
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