La bellezza (Gustav e Tadzio)
(Vecchioni) Passa la bellezza
nei tuoi occhi neri,
scende sui tuoi fianchi
e sono sogni i tuoi pensieri...
Venezia "inverosimile
più di ogni altra città"
è un canto di sirene,
l'ultima opportunità
ho la morte e la vita tra le mani
coi miei trucchi da vecchio senza dignità:
se avessi vent'anni
ti verrei a cercare,
se ne avessi quaranta, ragazzo,
ti potrei comprare,
a cinquanta, come invece ne ho
ti sto solo a guardare ...
Passa la bellezza
nei tuoi occhi neri
e stravolge il canto
della vita mia di ieri;
tutta la bellezza,
l'allegria del pianto
che mi fa tremare
quando tu mi passi accanto...
Venezia in questa luce
del lido prima del tramonto
ha la forma del tuo corpo
che mi ruba lo sfondo,
la tua leggerezza danzante
come al centro del tempo
e dell'eternità:
ho paura della fine
non ho più voglia di un inizio;
ho paura che gli altri
pensino a questo amore
come a un vizio;
ho paura di non vederti più,
di averla persa...
tutta la bellezza
che mi fugge via
e mi lascia in cambio
i segni di una malattia.
Tutta la bellezza
che non ho mai colto,
tutta la bellezza immaginata
che c'era sul tuo volto,
tutta la bellezza
se ne va in un canto,
questa tua bellezza
che è la mia
muore dentro un canto.
Struggente e molto sentita ballata presente nell’album “Il lanciatore di coltelli” (sublime metafora dei sognatori) di Roberto Vecchioni. Lo schema della ballata dona una elevatissima “dignità letteraria” a tutta la composizione con un ritornello iniziale seguito da una stanza e da continue riprese. A dire la verità la già nominata “dignità letteraria” è assicurata dal riferimento esplicito della canzone, già presente nel titolo.
Il tema dell’opera, infatti, è tratto liberamente dal racconto di Thomas Mann “Morte a Venezia”, già citata in altre parti del forum, che tratta dell’innamoramento del rigido – evidentemente solo all’apparenza – artista Gustav von Aschenbach, cinquantenne scrittore di successo, verso il quattordicenne Tadzio, un ragazzo polacco in vacanza a Venezia. Gustav si era recato a Venezia perché artisticamente in crisi e con una salute instabile.
Secchioni riesce, come spesso accade nelle sue canzoni, a cogliere i punti salienti dell’opera. Prima di tutto il titolo. In primo piano è posta la bellezza, naturalmente si allude alla bellezza di Tadzio ma la bellezza è anche l’unica ragione di vita di Gustav, da sempre la persegue, è vissuto per anni inseguendola nelle sue opere e nella sua vita. La seguiva in modo errato però. Era fermamente convinto che l’arte fosse insegnamento, didattica. Aveva passato anni a scrivere la vita di Federico II e si ritrova disarmato di fronte alla poesia del volto di Tadzio “che stravolge il canto della vita mia di ieri… mi fa tremare quando tu mi passi accanto”. Questo amore è anche trasgressione, proprio lui che aveva fatto per anni della virilità la sua bandiera (si alzava all’alba ogni giorno ed iniziava la giornata con una doccia fredda). Ha paura di ciò che pensa la gente “pensino a quest’amore come a un vizio”.
Tutte questa sensazioni sono mirabilmente riportate anche nel film di Luchino Visconti, omonimo del racconto.
L’inizio è un riferimento alla temporalità della bellezza che “passa”. Gli occhi neri di Tadzio sono una rivisitazione di Secchioni, un evidentemente significativo spostamento del colore degli occhi che nel racconto di Mann sono grigio-crepuscolo. Forse il rafforzamento del colore sono metafora di una bellezza piena, senza mezze misure, una bellezza per la quale vale la pena di dedicare gli ultimi istanti di una vita da esteta.
“Sono sogni i tuoi pensieri”, grande Secchioni! Leggendo il libro e vedendo il film di Visconti ci si rende conto che sono il silenzio e l’osservazione l’unica arma di Gustav. I pensieri di Tadzio, così, diventano le speranze sognanti dell’artista, una immaginazione che si sforza di apportare quel conforto, quella soddisfazione dei sensi impossibile da raggiungere a causa dell’età (“a cinquanta… ti sto solo a guardare”) sia per il pudore che porta il pensiero di un amore impossibile e perverso.
Nella prima stanza della canzone c’è una diretta citazione dal racconto. Venezia è “inverosimile”. Città particolare, non comune come l’arte e, se ci si pensa bene, è proprio l’assenza di banalità che rende gradevole una qualsiasi metafora e dona arte ad ogni cosa. A Venezia è possibile sognare e c’è spazio anche per quell’amore impossibile, per quella “ultima opportunità”, per quel “canto di sirene” dopo una vita di porti sicuri all’orizzonte. Gustav è diviso tra la sua malattia che lo porterà alla morte e la vita rappresentata da Tadzio (e delle quale, alla fine della canzone, si impossesserà).
Importante è “l’allegria del pianto”. Il marmoreo Aschenbach in passato non avrebbe mai piegato la sua esistenza al pianto, sicuro di una vita rigida e ligia. Tadzio gli fa conoscere l’importanza del pianto, quell’ossimora allegria del pianto (che tanto ricorda l’allegria di naufragi ungarettiana) fonte di ispirazione e di arte allo stato di purezza assoluta (che ben si sposa col canto di sirene veneziano).
La stanza successiva ripropone l’ultima immagine di Gustav sulla sdraio, pochi istanti prima di morire, magistralmente descritta da Mann e meravigliosamente riproposta da Visconti. Tadzio che danza rubando la bellezza del tramonto, in un attimo eterno come raggiungimento della verità assoluta. La ricerca di un artista, infatti, raggiunge il suo culmine nell’eternizzare l’attimo (Baglioni). In quel momento prima della morte Gustav vede Tadzio danzare ed è come se capisse la vera bellezza e la vera arte “come al centro del tempo e dell’eternità”. Ora che ha capito l’eterno non vuole più tornare indietro a quando era nell’ignoranza ma ha paura anche della fine, di non potersi godere questa sua scoperta “la bellezza fugge via e lascia in cambio i segni di una malattia”, la sua bellezza, giovinezza, fugge, si perde in una malattia che lo trascina alla morte. In quell’attimo però Gustav si appropria della bellezza del ragazzo, la idealizza, la “leggerezza danzante” lo invade e gli fa comprendere l’assoluto.
La bellezza muore dentro un canto, ultimo grido di dolore e vero canto. Vero canto dopo la scoperta della bellezza di Tadzio, vero canto dopo aver stravolto il canto (fasullo) “della vita mia di ieri”.
Spiace che questo capolavoro di Vecchioni sia diventato per molti “la canzone delle patatine”.
So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta,
da un fondale,
da un fuori che non c'è se mai nessuno
l'ha veduto.