Concerto di Sogni
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 14 Concerto di Gola
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Uccio
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Storia del Forte n°2

Mai fidarsi delle bionde!
Giovanna, la sorella di Giordano, mi sembrò più bionda del solito quando mi chiese: "Vuoi un gattino?"
Ora, io ero un ragazzetto ingenuo e sprovveduto ma una piccola lista delle cose che avrei voluto da Giovanna me l'ero fatta, a mente.
E un gatto non era esattamente in polposìscion.
Cominciamo dal basso, mi dissi, e mi portai a casa il micino stretto al petto come fosse la cosa più preziosa del mondo.
Lo misi a dormire su una seggiola e gli costruii una magnifica casetta di cartone con porta basculante. Sopra la porta scrissi, con un pennarello, il nome che nel frattempo avevo scelto per lui: Isacco.
Quando mia madre lo vide mi toccò riprendere in mano il pennarello.
Rebecca si dimostrò da subito una eccellente cacciatrice. La vedevo, dal terrazzino su cui mi mettevo a studiare, appostarsi sul tetto di un rustico, poco più in basso. Appiattita a filo della colma dei coppi, con le orecchie basse, aspettava che qualche passerotto si posasse dalla parte opposta. Non portò mai a casa una preda, però. Forse quello è un gioco per gatti maschi, come dice Cansado, e lei non aveva tempo da perdere in giochi.
Già adulta, quando mio padre tornava dalla pesca col bilancino ed iniziava la distribuzione del pescato, guai ai suoi figli se osavano avvicinarsi. Con un pesce in bocca ed uno sotto la zampa mandava in giro un saettante sguardo giallo e soffiava tra denti e pesce.
La sua caccia più avventurosa avvenne quella sera che saltò sul tavolo di cucina, azzannò un involtino e scappò dalla finestra.
La rincorsi e la trovai ad una svolta delle scale.
Non soffiò ma mi regalò quel suo sguardo giallo.
Pareva mi dicesse: "Che vuoi? Ormai me lo sono mangiato mezzo. Puoi anche picchiarmi ma l'involtino non l'avrai indietro. Gira i tacchi e lasciami mangiare in pace."
In quell'istante capii che anche Rebecca era una bionda.

INVOLTINI REBECCA
Battere bene della lonza di maiale e salarla.
Disporre su ogni fetta del prosciutto cotto, della fontina e qualche cappero dissalato.
Arrotolare le fette, infarinarle e fermare i lembi con un paio di steccolini.
Cuocere lentamente, incoperchiati e a fuoco basso, rigirandoli da tutti i lati, in burro spumeggiante.

Anche crudi non erano male. Magari, la prossima volta, non mettete gli steccolini.
Grazie. Miao.
Vostra Reb.
p.s. Non ci sono mai entrata, in quella ridicola casetta di cartone.

Io, come sempre, faccio quel che posso. (F.Guccini)

Edited by - uccio on Apr 08 2003 09:46:25

Uccio
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Dimenticavo... adoro le cipolle!


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Uccio
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Storia dell'avamposto n°8

I carabinieri mi fanno paura.
Tutta colpa della Tiziana, la nipote della nonna Giacomina. Quella donna è responsabile di quasi tutte le mie fobie.
Ufficialmente magliaia, la sua vera principale occupazione era quella di controllare quotidianamente e minuziosamente, maniacalmente, lo stato d'igiene delle mie orecchie.
Mi credete se vi dico che, ancora oggi, non esco di casa se non ho un cotton fioc in tasca?
I carabinieri, dicevo...
"Se non fai il bravo chiamo i carabinieri"
"Se fai i capricci chiamo i carabinieri"
"Se non mangi tutta la minestra chiamo i carabinieri"
"Se non ti lavi le orecchie..."
Roba da invidiare quelli che avevano il lupo o l'uomo nero, a spaventarli!
Eh, già, perché all'avamposto un lupo o un uomo nero non s'erano mica mai visti. Un carabiniere, invece, veniva tutte le settimane.
Veniva da solo, in motorino.
Percorreva l'unica strada, beveva un bicchiere al bar di Nemo, seduto fuori, e se ne andava.
Niente da ridire su quella personalizzazione di pattugliamento del territorio, sia chiaro.
Ma... casa mia era proprio di fronte al bar di Nemo. E se tornavo dall'asilo e lui era lì entravo con la schiena rasente il muro.
Stavo giocando con i soldatini, quel pomeriggio, nell'andito. Quando vidi quella braga nera con la riga rossa fui tentato di alzare le mani. Forse perché tanto innocente non mi sentivo...
Perché mi stava arrestando? Non poteva essere per quella volta che avevo messo la sabbia nella tromba dell'acqua. No, per quello ero già stato punito: mia madre me le suonò sonoramente e pubblicamente per dare soddisfazione all'intera corte. Forse per quella volta che feci una montagnetta (sempre con la sabbia, oh) sul bordo di un gradino della maestra Francesca e poi ci misi l'acqua così di notte ghiacciava, la maestra Francesca scivolava e per un po' non si andava a scuola? Non mi vide nessuno. E poi non funzionò.
Per cosa, allora? Forse per quella volta che...
A quel punto arrivò la domanda: " Chi vince, gli indiani o i cauboi?"
Feci a meno di guardare: avevo solo cauboi.
Non risposi, per non compromettermi.
Ma guardai lui, per la prima volta.
Era alto, con i baffi, pochi capelli.
Praticamente come sarei diventato io molti anni dopo. Ma ancora non lo sapevo e per questo non mi ispirò nessuna simpatia.
Visto che non rispondevo e mi limitavo a guardarlo come un idiota varcò la porta. No, non la mia... quella della nonna.
Magari andava ad arrestare la Tiziana. Le stava bene, brutta carogna.
Non arrestò nessuno.
Venne molte altre volte ma non mi fece più domande.
Ci misi un po' a capire che andava a morose dalla Tiziana.

Si meriterebbe che le dedicassi un piatto di orecchiette, come minimo. Ma le voglio bene.
Qual è l'ultima cosa discreta che ho fatto?


RISOTTO TIZIANA

(per 5)
400 g. di riso vialone nano
un paio di broccoli pugliesi o calabresi.
300 g. di Robiola
uno scalogno
brodo vegetale (solito granulare)
un cotton fioc

Tagliuzzare lo scalogno e i gambi dei broccoli e farli stufare in olio e.v.
Farvi tostare il riso.
Aggiungere le cimette del broccolo e cominciare a bagnare con il brodo bollente.
A due minuti dalla fine della cottura del riso aggiungere la Robiola a tocchetti e l'ultimo goccio di brodo. Portare a fine cottura tenendo all'onda continuando a rimestare.

E il cotton fioc?
Buttatelo, che è pure pericoloso.

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E' ora di presentare un personaggio citato nella storia precedente.
Nessuna ricetta.
Mi riservo di inserirla appena mi riuscirà di fare qualcosa di veramente eccezionale.
Non perché sia eccezionale la storia ma perché è stata eccezionale, per me, la persona a cui è dedicata.

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Uccio
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Storia dell'avamposto n°3

Si chiamava Giacomina. Solo una vicina di casa.
Divenne "la nonna Giacomina" quando mia madre partì per la risaia e mio padre andò a lavorare a Sondrio. Doveva essere per un mese e mi tenne per la vita. Guai a mia madre se osava picchiarmi!
"Voi il mio bambino non lo toccate", diceva.
Il "nonno" era muratore di giorno e fisarmonicista di sera, con l'Antonio al violino ed il Léur al contrabbasso. Dopo pranzo andava sempre a dormire e la nonna, perché non lo disturbassi, mi teneva in cucina e mi raccontava delle storie. Erano sempre storie tristi, di bambini che si perdevano nel bosco e non trovavano più la strada di casa. Oppure mi insegnava la poesia dei fratelli Bandiera, Emilio ed Attilio, e sul secondo nome aveva un piccolo mancamento della voce perché così si chiamava il figlio morto in guerra.
Una volta mi raccontò di Gesù. I chiodi, la croce...
Mi impressionò, quella orribile morte. Ero molto piccolo e della morte non avevo un concetto preciso ma riuscivo a capire che non doveva mica essere un bel lavoro.
Ci pensai a lungo, prima di farle la domanda.
Forse temevo la risposta.
"Nonna, io non muoio, vero?"
"No, tu no"
Cosa volete che vi dica, tutte le volte che passo dal piccolo cimitero dell'avamposto per salutare mio padre non posso fare a meno di fermarmi, qualche minuto, sulla tomba della donna che, per troppo amore, mi ha promesso l'immortalità.

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Storia dell'avamposto n°5

Sono stato battezzato due volte.
Il prete sempre lo stesso, Don Gino detto Don Sgàlmara. Prete fumantino assai, era noto per la curiosa abitudine di allungare micidiali pedate ai chierichetti indisciplinati. Non era raro vedere turiboli fare improvvisi balzi in avanti senza motivo o, durante le processioni, qualche insegna vacillare.
Finita la lezione di catechismo Don Sgàlmara ci convocò, noi piccoli che dovevamo fare la Prima Comunione, in sacrestia. Estrasse da un cassetto un quaderno, ve li ricordate quei quadernini con la copertina nera?, e cominciò ad annotare i nostri nomi. Non solo: ad ogni nome abbinava una parola e scriveva pure quella. Arrivò il turno mio e della mia parola. Mai sentita prima! Il suono non era male anche se misterioso. Ma poi, su, se l'aveva detto il prete non poteva essere una cosa brutta...
Questa granitica certezza si sfaldò appena usciti di chiesa quando Luigi, il mio compagno di giochi, cominciò a prendermi in giro ripetendo il mio nome e quella parola, il mio nome e quella parola...
Ne conosceva il significato, lui? Ma certo! Sapeva anche le bestemmie perché la sera i suoi lo lasciavano andare in Cooperativa e lui imparava dai grandi che giocavano a carte. E poi suo padre gli lasciava bere il vino. Che invidia!
Non potevo neppure controbattere con la stessa arma perché io la sua parola misteriosa non l'avevo ascoltata, non c'avevo fatto caso.
Accidenti, che ne potevo sapere che poteva essere importante?
Con questi grami pensieri arrivai a casa. Non dissi niente, mi rintanai a giocare nel sottoscala della nonna Giacomina in mezzo alle verdure.
Venne l'ora di cena. E quella minestra non ne voleva sapere di scendere.
Forse per fame, confessai: "Al prét l'a dét ca son un cumunista".
Mio padre rise di gusto e la minestra andò giù.


Non pretenderete davvero che mi ricordi la minestra di quella sera, eh?
Facciamo finta che sia quella che ho preparato ieri sera.
Una cosa semplice, a mo’ di saluto all’Inverno che se ne va.

MINESTRA DI DON SGALMARA
Si prenda allora della cipolla e la si triti grossolanamente, a lama di coltello. Si faccia appassire in olio. Si aggiunga una piccola patata a persona, ridotta a cubetti non più grandi dell’unghia di un alluce di Don Sgàlmara. Precedentemente si avrà avuta cura di scottare in acqua bollente un paio di foglie di verza a persona. Asciugate, arrotolate una sull’altra e tagliuzzate dello spessore di un’ostia, aggiungere pure queste.
Lasciare insaporire il tutto, mescolando e salando, per alcuni minuti. Versare acqua bollente quanta abbisogna per la minestra. Uno sguiz di triplo concentrato e si lasci cuocere per una mezz’ora o quanto basta perché le patate siano cotte. A quel punto, dopo aver aggiustato di sale, aggiungere dei ditaloni.
100 grammi possono bastare per 5 persone.
Portare a cottura ed impiattare.
Un giro d’olio, una macinata di pepe, un Pater Noster e grana grattugiato a piacere.


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Se fossi uso a mettere sottotitoli quello giusto per questa storia potrebbe essere...
avventura erotica in gita scolastica.


Storia del Forte n°3

Ci fu gente che andò a piedi alle Grazie.
Era successo che noi della Terza G elettronica si andava in gita, tre giorni a Firenze, con la Terza A e la Quarta A di chimica.
E nei corsi di chimica c'erano le più belle ragazze di tutto l'istituto.
Sarete d'accordo con me che un giro al santuario, per grazia ricevuta, era d'obbligo.
Si visitò Firenze, dunque.
Ma non è di questo che dobbiamo occuparci, ora.
(però, domani, se mi ricordo, porto una foto)
Ultima sera.
Ci si ritrovò, un bel gruppo, in una stanza.
Antonio suonava la chitarra e tutti si cantava.
Ricordo che io feci il solista in Jezael dei Delirium, tanto per storicizzare.
Ad un certo punto la gente cominciò a sparire.
Chi aveva sonno, chi doveva preparare la valigia, chi doveva comprare le sigarette...
Ancora oggi sto a chiedermi se fu un caso o se ci fosse sotto una organizzazione ma... rimanemmo soli. Io e lei.
Lei...
Strano. Molto strano! Per quanto ci pensi non riesco a ricordarne il nome.
Era una di quarta, con i capelli rossi e il musetto tempestato di efelidi.
Carina, l'avevo già notata a scuola.
Ed era lì.
Seduta sul letto.
Anch'io ero lì.
Seduto sullo stesso letto.
Conversazione.
"Ti piace chimica?"
"Sìììììììììììììì?"
E si fece più vicina.
"Ci siamo divertiti, eh?"
"Sìììììììììììììììì?"
Ancora più vicina.
"Simpatico Antonio, eh?"
"Sìììììììììììììììììììììì?"
Ad un palmo.
"Come vai in matematica?"
"Sìììììììììììììììììììììììììììììììì?"
Ormai riuscivo a distinguere solo un gran turbinio di efelidi.
Potevo chiaramente sentire il battito del suo cuore contro la mia spalla quando lei, inaspettatamente, disse: "Ho voglia di fare la lotta".
Mi riscossi. Il turbinio di efelidi svanì.
Ero in me, ora.
E risposi. Oh, se risposi...
"Non vorrei farti male"
Non mi rivolse mai più la parola.

A pensarci bene non è poi così strano se non ricordo il suo nome.


Minestra per la rossa.

Prendi della cicoria ben lavata ed affettala finemente. Mettila a cuocere in acqua salata per una mezz'ora. Aggiungi un po' di concentrato di pomodoro, se vuoi. Butta dei ditalini, 50 g. a persona, e fai cuocere.
"Senti, finora non è che questa ricetta mi entusiasmi tanto."
"Zitto! La storia non ti ha insegnato che, a volte, è meglio stare zitti?"
Impiatta e completa con un giro d'olio.
"Tutto qui? Ma almeno un po' di parmigiano posso metterlo?"
"No. Così impari, brutto imbranato!"


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