IL GENERALE NAAMANovvero:
UNA QUESTIONE Dl PRINCIPIO
Lettura fantastica di II Re 5.1-19
C'era nel paese di Siria un generale che si chiamava Naaman. Quest'uomo era potente e famoso, e il Re di Siria lo stimava molto e lo teneva in grande considerazione perché per mezzo suo la nazione aveva vinto molte guerre e si era guadagnata il timore e il rispetto dei vicini.
Ma questo generale potente e famoso, che sul piano militare aveva raggiunto le più alte vette del successo, sul piano personale aveva un piccolo cruccio: era lebbroso.
Il generale Naaman, che davanti a un normale nemico avanzante con un regolare esercito di uomini armati di lance e spade non aveva mai avuto né dubbi né timori, davanti a un nemico subdolo e inafferrabile come la lebbra si sentiva impotente e sprovveduto.
Che fare? In famiglia ne parlavano spesso.
Avvenne così che un giorno una serva della moglie del generale si rivolse alla sua padrona e disse: «Ah, se il signor generale potesse incontrare il profeta che c'è al mio paese! Sono certa che lui lo guarirebbe.»
La signora ne parlò al marito. Ma il generale non restò del tutto convinto. La serva era una ragazzetta ebrea avuta in dono da alcuni predoni siri che a loro volta l'avevano rapita nel paese d'Israele durante una delle loro solite scorribande. Per il generale non era facile mandar giù l'idea che un personaggio del suo rango dovesse ricorrere ai buoni consigli di una ragazzina ebrea per riuscire ad avere ragione di quel suo particolare nemico che era la lebbra. Una serva! Donna! Serva di sua moglie, un'altra donna! Ebrea! E quanto al guaritore, anche lui un ebreo, cioè un abitante di quell’odiato e disprezzato paese che da tempo la Grande Siria teneva in posizione di vassallaggio. Non era possibile. Per motivi di principio, di prestigio.
Così pensava il generale, in certi momenti. In altri però, quando la lebbra si faceva particolarmente sentire, fastidiosa e tenace, il generale si chiedeva se per caso, chissà, forse, in mancanza di meglio, non valesse la pena di tentare anche la carta del guaritore ebreo.
Stretto da un lato dall'intenso desiderio di guarire e dall'altro dalla responsabile consapevolezza che per un uomo come lui ogni fatto privato è sempre anche un fatto politico, decise di seguire la via gerarchica e si rivolse al suo diretto superiore, Sua Maestà il Re di Siria.
«Mio caro Naaman», gli rispose il Re dopo averlo ascoltato con benevolenza, «capisco il tuo problema personale e per i servizi che hai reso alla nazione ben volentieri vedrei soddisfatti i tuoi desideri. Temo però che la tua più che comprensibile voglia di guarire ti abbia un po' oscurato il giudizio e impedito di avere una visione lucida e realistica della situazione. Ti farò allora qualche domanda, e tu rispondimi.
Da quand'è che in quello squallido paese d'Israele si trovano uomini capaci di guarire dalla lebbra? Guarire un lebbroso è come risuscitare un morto! E sarà proprio in Israele che andremo a cercare chi è capace di risuscitare i morti? La servetta di tua moglie va dicendo che al suo paese c'è un profeta che è capace di farlo! E si capisce! Lui è un profeta, e quindi può mettere in movimento la forza del suo dio. Così veniamo a sapere che in Israele ci sono divinità così potenti da riuscire a risuscitare i morti. In Israele! Nella Grande Siria, invece, no! E il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria deve andare di persona ad implorare uno stregone samaritano di convincere il suo dio a guarirlo dalla lebbra! Dovremmo dunque ammettere pubblicamente che il dio che protegge Israele è più grande e potente del dio di Siria? Non è questo un affronto blasfemo al nostro dio, l'eccelso, temuto e venerato Rimmon? E poi spiegami: se il dio degli Ebrei è così potente, più potente del nostro, com'è che noi possiamo andare e venire nel paese d'Israele quando e come ci pare? Com'è che possiamo imporgli tutte le tasse che vogliamo? Com'è che ci possiamo prendere tutto quello che ci pare e piace senza chiedere il permesso a nessuno? E quella tua ragazzetta ebrea che va facendo propaganda allo stregone di Samaria, come spiega che il suo grande profeta non è stato capace di impedire ai nostri uomini di prendersela e portarsela via? Mio caro Naaman, mi sorprendi! Proprio tu, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, vorresti offendere i nostri dèi e umiliare la nostra grande nazione andando a mendicare i favori del miserabile dio di quel miserabile paese?»
Il generale stava sulle spine. «Ha ragione, ha ragione», seguitava a ripetere tra di sé, «si può essere più stupidi di così? Ma che idea m'è venuta di stare a sentire le chiacchiere di quelle donne! Io, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria. Che figura!»
Il Re, che a parlare del prestigio della Grande Siria si era infervorato, stava fissando intensamente il generale. D'improvviso s'accorse dello stato di cupa prostrazione in cui era sprofondato il povero Naaman e si pentì un po' della durezza con cui aveva parlato. Il fedele servitore di mille battaglie stava lì, davanti a lui, a capo chino, con la sua lebbra e la sua umiliazione.
«Tuttavia», continuò il Re in tono più disteso, «mi rendo conto che per chi, come te, cerca disperatamente una via d'uscita dalla sua sofferenza, anche i ragionamenti più semplici e lineari possono essere poco convincenti. E poiché non vorrei che tu mi accusassi in cuor tuo di ingratitudine, voglio mostrarti la mia buona volontà tentando tutto quello che è possibile tentare. Dicono che in Israele si può avere la guarigione? Benissimo, allora andremo lì e ce la prenderemo. E' un nostro diritto. Siamo o non siamo i più forti? In Israele ci siamo sempre presi tutto quello che volevamo: terre, denaro, schiavi. Perché non dovremmo prenderci anche la guarigione dalla lebbra? Si potrebbe imboccare subito la via della forza, ma forse è più saggio tentare prima una via più morbida. Israele è un paese vassallo e i paesi vassalli vanno, sì, spremuti, ma per quanto è possibile è bene evitare il nascere di pericolose reazioni. Andremo per via diplomatica. Ma faremo valere tutto il peso politico della nostra forza militare. Scriverò io stesso una lettera al Re d'Israele, in tono gentile ma fermo, e senza mezzi termini gli chiederò di guarirti dalla lebbra. E sarai proprio tu, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, a portargliela in forma ufficiale. Quando ti avrà visto arrivare e dopo che avrà letto la mia lettera, sta tranquillo che se davvero in Israele c'è qualcuno capace di guarirti, ci penserà lui a farsi in quattro per trovarlo. Naturalmente mi guarderò bene dal menzionare la serva di tua moglie o lo stregone samaritano. Il Re di Siria non può rischiare di esporsi al ridicolo. Sono affari del Re d'Israele: se lo cerchi lui, il guaritore, se veramente ce l'ha. Tu arriverai lì in forma ufficiale, accompagnato dal tuo seguito, portando una formale richiesta del Re di Siria. E poiché abbiamo scelto la via diplomatica, non arriverai a mani vuote ma, secondo il protocollo, consegnerai opportuni regali al Re che ti ospita. A questo punto i casi sono due: o torni guarito, oppure... oppure, e questo forse è il lato più interessante della faccenda, il Re d'Israele sarà costretto a commettere uno sgarbo verso di noi. E gli sgarbi verso il Re di Siria si pagano sempre, non è vero, caro Naaman? Chissà che alla fine di questa strampalata vicenda la Grande Siria, condotta dal suo prode generale Naaman, non riesca ad annettersi un' altra fetta di territorio a spese d'Israele. Eh, Naaman, che te ne pare?»
Naaman stava ascoltando, ammirato, sorpreso dai fini risvolti politici che il suo acuto sovrano sapeva sempre trovare e che a lui, uomo d'armi, non passavano mai nemmeno per la testa. Ma davanti al lucido quadro presentatogli dal Re, per la prima volta in vita sua cominciò a sperare che la Siria non riuscisse a ingrandirsi.
Quando il maestoso convoglio entrò in città, la popolazione di Samaria si mise subito in subbuglio. Immediatamente si sparse la voce che si trattava di un altissimo personaggio: nientedimeno che il famoso generale Naaman, il temutissimo capo dell'esercito di Siria. Che era venuto a fare? La gente stava con il fiato sospeso, temendo il peggio: da un po' di tempo dalla Siria arrivavano solo cattive notizie. Non sarà mica una dichiarazione di guerra?
Se questo era lo stato d'animo della popolazione, quello del Re non era migliore. Con trepidazione aperse il plico che il messaggero siriano gli aveva messo tra le mani, e dopo averlo letto sbiancò in volto. Ma cercò di contenersi. Con poche parole congedò il messaggero dicendogli che avrebbe fatto avere al più presto una risposta e immediatamente diede ordine di convocare il Gran Consiglio.
«La situazione è gravissima», comunicò il Re, concitato, ai membri riuniti del Gran Consiglio. «La Siria comincia a muoversi, e dopo questo primo passo c'è solo da chiedersi quale sarà il successivo. Sentite che cosa mi scrive il Re di Siria:
Caro Collega,
spero che tu stia bene con tutta la tua famiglia. Mi permetto di disturbarti per un piccolo favore che vorrei chiederti. Si tratta di Naaman, il mio fedele e valoroso condottiero. Ha la lebbra. Ti prego di guarirlo. Grazie.
Cordiali saluti,
Il Re di Siria
Preparati al peggio, ai Consiglieri la lettera non sembrò così tragica: qualcuno si arrischiò perfino a dire che, dopo tutto, il Re di Siria chiedeva soltanto un favore, e anche in modo molto garbato. A questo punto il Re, che aveva già i suoi buoni motivi per essere nervoso, andò su tutte le furie.
«E voi sareste i Consiglieri del Re? Quelli che mi dovrebbero aiutare a governare la nazione? Si può essere così ingenui, così ottusi, così privi di senso politico da non capire che il Re di Siria mi chiede, nella forma più gentile, una cosa semplicemente impossibile? Sono forse il Padreterno, io? Ho forse il potere di far morire e vivere, da riuscire a guarire un uomo dalla lebbra? E credete che il Re di Siria non lo sappia? Credete davvero che si aspetti che io gli guarisca il suo scagnozzo dalla lebbra? E' chiaro come la luce del sole: cerca solo un pretesto per aggredirci e invadere il nostro paese.»
E al colmo dell'indignazione si stracciò le vesti e abbandonò rabbiosamente la sala del Gran Consiglio.
I giorni passavano e la situazione non si sbloccava. Il Re, non sapendo come rispondere e temendo di far precipitare la situazione, cercava di prendere tempo. Ma da Naaman arrivavano ormai segnali di impazienza. Il Re era sull'orlo della disperazione.
Inaspettatamente, quando ormai l'incidente diplomatico sembrava inevitabile, si aprì un piccolo spiraglio di salvezza nella forma di un messaggio che il Re trovò sul suo tavolo. Era di Eliseo, il profeta di Samaria.
«Perché ti disperi?» diceva il messaggio. «E' vero che tu non sei Dio e non hai il potere di far morire e vivere, ma sei il Re di una nazione che ha come Dio Colui che ha il potere di far morire e vivere, il Dio che ha dimostrato la sua potenza e la sua misericordia liberando il suo popolo dalle mani del Re d'Egitto. Manda pure da me il tuo temuto personaggio, e così vedrà e potrà riferire al suo sovrano che in Israele ci sono davvero i profeti del Dio vivente.»
Al Re d'Israele non parve vero di poter dare finalmente una risposta a Naaman, anche se, a dire la verità, non capiva bene che cosa esattamente si proponesse di fare Eliseo. Non avrebbe scommesso su una conclusione positiva di tutta la faccenda, ma almeno poteva far mostra di buona volontà e prendere un altro po' di tempo.
La risposta del Re però non piacque al generale. Aveva l'impressione di non essere trattato con tutti i dovuti riguardi. Il profeta, e non lui, avrebbe dovuto spostarsi. Il Re avrebbe dovuto convocare a corte l'esperto di guarigioni e offrire all'ospite i suoi servizi. In fin dei conti, lui era andato in visita dal Re d'Israele e non da un anonimo profeta.
Tuttavia, anche se infastidito, non considerò opportuno rompere a questo punto i rapporti diplomatici col Re straniero. La cosa non gli sembrava conveniente né per il bene della sua nazione, né per il bene suo personale. In fondo, un po' di speranza ce l'aveva ancora. Ma era mischiata a incertezza e irritazione; e il risultato era un confuso stato d'animo di risentita attesa e trepido nervosismo.
Alla fine il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria si decise, e l'imponente carovana di carri, cavalli, bagagli e uomini si mosse alla volta della casa del profeta.
Dopo un viaggio né breve né facile, il convoglio si arrestò davanti alla casa di Eliseo. Qui il generale ebbe un nuovo motivo per innervosirsi: ad aspettarli non c'era nessuno. Nessuna accoglienza, nessun ricevimento ufficiale, nessun discorso, niente. E del profeta neppure l'ombra.
Passò un po' di tempo, e finalmente dalla casa uscì qualcuno.
«Alla buon'ora», pensò Naaman. «il profeta si è deciso a venire fuori.»
L'uomo si avvicinò al convoglio e chiese di parlare col capo della spedizione. Lo condussero subito al carro del generale.
«Il profeta Eliseo manda a dire che oggi è molto occupato», comunicò l'uomo allo sbigottito Naaman, «e purtroppo non può riceverla. Però dice che non importa perché sa già tutto. Basta che Lei raggiunga il fiume Giordano e vi si immerga per sette volte di seguito. Vedrà che dopo starà subito bene.»
Detto questo salutò, si girò, tornò indietro e sparì dentro la casa.
Dopo qualche attimo di silenzioso smarrimento il convoglio ebbe modo di assistere a una delle famose, formidabili scenate di furore del generale.
«Basta! Quello che è troppo è troppo!» prese a urlare il generale facendosi udire distintamente anche da quelli dell'ultimo carro «Qui mi si prende in giro! Qui si vuole coprire di ridicolo il nome del Re di Siria che io rappresento. Il Re samaritano mi spedisce dal profeta e il profeta senza nemmeno guardarmi in faccia mi spedisce al fiume. E io qui a fare la figura dell'allocco! Basta! La storia è finita, la faccenda è chiusa. Si torna a casa. Aveva visto giusto il mio Re: può forse venire qualcosa di buono da questo lurido paese? Andiamo via, andiamo via subito! Ma torneremo, ah se torneremo! E non più a portare regali e chiedere favori. Se ne accorgeranno!»
Il convoglio si era ormai incamminato sulla via del ritorno, ma il generale non riusciva ancora a calmarsi.
«E' mai possibile», diceva a quelli che gli stavano intorno, «trattare in questo modo il rappresentante del Re di Siria? Tutto mi potevo aspettare fuori che una cosa come questa! M’aspettavo che lui uscisse fuori, che mi venisse incontro con i suoi servi e mi ricevesse con tutti gli onori. E poi pensavo: si fermerà lì, davanti a me, mi esaminerà con attenzione, dirà le sue preghiere, invocherà il suo dio, agiterà la mano, la poserà lentamente su di me e, tra lo stupore di tutti, farà avvenire il prodigio: l'inguaribile lebbroso guarisce. Gridi di meraviglia, lacrime di commozione, abbracci, regali, manifestazioni di reciproca simpatia fra le due nazioni, progetti di scambi culturali fra i due popoli. E invece niente. “Vatti a lavare nel Giordano.” Come se ci mancassero i fiumi, a noi, in Siria! Non bastano i fiumi di Damasco? No, quelli non vanno bene! Per guarire bisogna venire in Israele! Ci vuole il Giordano! C’ha le acque miracolose, il Giordano! Cialtroni, pezzenti!»
I servi di Naaman ascoltavano, in silenzio, non osando interrompere quel fiume infocato di parole. Erano abituati a subire gli scoppi d'ira del loro collerico generale; eppure, nonostante tutto, gli volevano bene.
Perciò pensavano che era un peccato sprecare in quel modo una buona occasione come quella. Loro, le questioni di principio non le capivano. Capivano solo che il loro generale se ne tornava a casa con la lebbra e che invece, dopo tutto, si poteva anche tentare.
Alla fine uno dei servi si fece coraggio e ci provò.
«Signor generale», cominciò con cautela «Lei ha tutte le ragioni e quello che dice è giustissimo. Ma supponiamo che il profeta le avesse chiesto di portargli una pelle di leone, Lei che avrebbe fatto?»
«Dieci gliene avrei portate. Li avrei ammazzati io stesso, i leoni, con le mie proprie mani.»
«E se le avesse chiesto la testa di dieci nemici?» Il generale scoppiò in una risata.
«Cento, duecento gliene avrei portate. Sarebbe stato per me un vero piacere ammazzare qualche centinaio di nemici con la speranza di guarire dalla lebbra.»
«Vede dunque che in questi casi Lei avrebbe seguito le indicazioni del profeta. E l'avrebbe fatto anche senza essere sicuro al cento per cento che poi sarebbe veramente guarito. Anche adesso, Lei non è sicuro di poter guarire; però, solo perché il profeta le ha chiesto una cosa facile facile, Lei si offende, torna a casa e rinuncia anche a provare! Ci pensi, signor generale! In fondo, che le costa? Male che vada, avrà solo fatto un bagno in più per niente.»
A sentire queste parole così prive di ogni senso dell'onore, così piene di basso e servile utilitarismo, il generale si sentì fremere. Stava per sbottare un'altra volta, ma poi si trattenne. La voglia di guarire c'era ancora; e l'indignazione non riusciva a coprire del tutto la delusione.
«In fondo, che le costa?» aveva detto il servo.
«Ma è mai possibile», pensava il generale ricominciando a fremere, «che qui per venire fuori da questa situazione bisogna stare a sentire solo donne, ebrei e servi? Ma com'è potuto succedere che io, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, mi sia andato a ficcare in un affare basso e meschino come questo?»
Alla fine però il basso utilitarismo dei servi ebbe il sopravvento e il generale andò al fiume.
Quando, dopo la settima immersione, uscì dall'acqua, Naaman si sentì un uomo nuovo: rinnovato non solo nella pelle, ma anche sotto la pelle, dentro. Una sensazione nuova, strana: non era più un generale, era un uomo. Un uomo che prima era stato lebbroso e adesso era sano, pulito.
L'imponente convoglio ripartì immediatamente in direzione della casa del profeta.
Quando Naaman vide Eliseo, si gettò senza alcun ritegno ai suoi piedi. Era felice, e la felicità gli aveva fatto dimenticare il senso dell'onore. Ai piedi del profeta gli uscirono di bocca parole che mai avrebbe pensato di pronunciare in vita sua:
«Ora riconosco che soltanto in Israele e in nessun altro posto della terra si trova l'unico vero Dio.»
Detto questo però, da uomo d'azione qual era, fu preso dalla voglia di fare qualcosa, non sembrandogli possibile che lui dovesse soltanto ricevere senza riuscire a fare o a dare niente. Si ricordò dei regali che aveva portato, e ad uno a uno li tiro fuori e li mostrò al profeta, scongiurandolo di accettarne qualcuno. Ma Eliseo rifiutò tutto.
«Io sono un servo dell'Eterno», rispose pacatamente, «e quello che ti ho dato non è mio, ma del mio Signore. Come potrebbe un servo accettare qualcosa in cambio di un dono che il suo padrone ha fatto ad altri? Com'è vero che il Signore vive e che io sono suo servo, non accetterò nulla.»
Naaman provò a insistere in tutte le maniere, ma Eliseo fu irremovibile.
Non riuscendo a lasciare niente in dono, Naaman pensò di lasciare almeno una promessa.
«Prometto solennemente», proclamò con voce grave, «che mai più in vita mia presenterò sacrifici agli dèi di altri paesi. Solo all'Eterno offrirò i miei sacrifici, e a nessun altro.»
Eliseo lo stava ascoltando, assorto. Naaman lo guardò e, chissà perché, si sentì a disagio. Improvvisamente il generale si ricordò della sua posizione di uomo di Stato e, un po' imbarazzato, si sentì in dovere di fare una precisazione.
«Ecco, però, c'è una cosa che devo dire. Come certamente saprai, la mia carica pubblica m'impone degli obblighi a cui, anche con tutta la più buona volontà, non mi posso sottrarre. Come sai, il Re di Siria, nella sua ignoranza, adora ancora il dio Rimmon. Io invece no, non più. Io adesso ho capito che il Signore d'Israele è l'unico vero Dio, però quando il Re di Siria entra nel tempio di Rimmon per inchinarsi davanti a lui, s'appoggia al mio braccio, e quando s'inchina lui mi devo inchinare anch'io. Ma t'assicuro che anche se m'inchino, in quel momento è solo l'uomo pubblico che s'inchina, non l'uomo privato. Io m'inchino solo di fuori, e non di dentro, capisci?»
«Capisco», rispose dolcemente Eliseo con un impercettibile accenno di sorriso sul volto, «capisco. Va', va' pure.»
La maestosa carovana riprese lentamente la via del ritorno. Sui carri gli uomini erano silenziosi: c'era una strana calma nel convoglio. Uno dei servi dell'ultimo carro, riandando con la mente ai fatti accaduti, pensava:
«Abbiamo seguito il nostro generale in questa sua strana battaglia contro Israele, alla conquista della guarigione dalla lebbra. Abbiamo provato a intimorire il nemico con il nostro prestigio, e non ci siamo riusciti. Abbiamo provato a comprarlo con il nostro oro, e non ci siamo riusciti. Ce ne torniamo a casa con il nostro oro e senza il nostro prestigio. Mi sbaglierò, ma questa volta il nostro eroico generale ha perso una battaglia.
Però è strano. Di solito chi perde una battaglia ne esce con le ossa rotte, ferito, trucidato, maciullato. Per la prima volta vedo un uomo che comincia una battaglia da malato, la perde, e ne esce fuori sano. Sì, in questo strano paese d'Israele c'è un Dio strano e succedono cose strane.»
Marcello Cicchese