PATAPÀN
(Claudio Baglioni)ce l'ho ancora sulla pelle
quell'odore di colline
sono lucine o sono stelle
quelle cose
dove la campagna ha fine
ti ricordi pa'
mi tiravi per la mano
sul tuo passo più costante
tu un gigante e io un nano
mentre davi un
nome agli alberi e alle piante
e raccontavi fatti
e misteri di laggiù
così per lunghi tratti
e se non ce la faccio più
tu mi trovavi un legno
e io ci montavo su
con quel cavallo e un regno
e uno schiocco e patapàn
al galoppo e all'avventura
sotto a quel tuo naso grosso
messo come prua
e non avevo mai paura
dentro la tua
scia ti stavo sempre addosso
e nella sera chiara
da lontano l'armonia
di un suono di fanfara
di un tam tam di prateria
e le tue braccia forti
che indicavano la via
ai miei ginocchi storti
e agli occhi e patapàn
patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn
ciao pa'
ma quante strade di sentieri bianchi
e quante ancora e ancora no
non siamo stanchi
lo vedi come corro
così veloce
dietro al tuo fischio
e quella voce
se resti indietro aspetto
sotto la croce e scoppia
il petto e in coppia
andiamo avanti
e patapàn
e sul ciglio di un burrone
tu facevi quella finta
di una spinta in giù
e io ridevo col fiatone
e mi alzavi
su nella camicia stinta
e ti sentivo dire
di chi c'è e chi non c'è più
e non poter capire
perché non è come un tram
su cui chi si vuol bene
sale e viaggia e scende giù
ma tutti quanti assieme
per sempre patapàn
patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn
ciao pa'
così hai saltato giù e ora sei in volo
ti sei fermato un giorno e
io corro solo
perché non m'hai aspettato
e stai lontano
e non mi prendi
più per la mano
e senza un legno adesso
un po’ più piano vado
e spesso cado
ma andiamo avanti
ciao pa'
ma dimmi dove è che stiamo andando
e questa vita dove mai
ci sta portando
non era questo il mondo
che volevamo
e non è il cielo
che sognavamo
non è quel tempo, è adesso
in cui dobbiamo stare
e lo stesso andare
e andiamo avanti
e patapàn
E’ una canzone contenuta nell’ultimo album di Claudio Baglioni, uscito il 23 maggio scorso.
Prima di entrare nell’ambito dei tratti semantici del testo, mi piacerebbe far osservare l’armonia dell’impostazione metrica. Senz’altro, le stanze di questa canzone sono state giustapposte in maniera geniale, proseguendo con una certa libertà per quello che riguarda la forma metrica che (come nella migliore tradizione baglioniana e della poesia novecentesca, nonché della canzone italiana), spesso non rispetta i canoni della tradizione dei principali schemi di componimenti letterari come la ballata, la canzone o il madrigale. Nonostante lo schema generale sia non conforme alla tradizione, la traccia metrica aggiunge tratti significativi alla già elevata valenza semantica delle parole. Lo schema è il seguente: strofa, verso chiave “camuffato” (o concatenatio dantesca, naturalmente con significato “traslato”, in questo schema nuovo, a puro verso di unione in assonanza col “patapàn” del titolo, vera chiave che precede e chiude il ritornello), strofa, prima variazione, strofa, seconda variazione, concatenatio (questa volta vera e propria, con un crescendo fondamentale), ritornello, concatenatio, strofa, terza variazione, concatenatio (anche qui a mo’ di climax), doppio ritornello con verso chiave conclusivo.
Analizzando, poi, la composizione di ogni strofa ci si rende conto che Baglioni pratica un anisosillabismo tra ottonari e novenari, modalità propria delle composizioni giullaresche o degli autori di laudi (riscontrabile nel laudario di Cortona, fino a Iacopone). In questo modo particolare di usare il novenario si può riscontrare l’intenzione di Baglioni di proporsi a “giullare per lodare il papà”. Una prova inconfutabile di quest’uso si potrebbe riscontrare nel fatto che nel secondo verso della prima strofa, “sono lucine o sono stelle”, Baglioni sposti l’accento metrico (ictus) della parola “sono”, cercando di marcare maggiormente la sillaba “no” e donando al verso un ritmo ascendente, secondo la particolarità propria del novenario giambico, col primo accento sulla seconda sillaba ed alternando “giambicamente” atona e tonica. Il novenario giambico così formato va ad alternarsi con l’ottonario “trocaico” (cioè con primo accento sulla sillaba iniziale, secondo lo schema del trocheo latino). Ineluttabilmente, poi, quest’alternanza di ottonari e novenari (che verosimilmente dovrebbero riprodurre l’octosyllabe francese) si ripete nelle prime due strofe, visto che nelle strofe successive Baglioni introduce un senario (“messo come prua”, “di una spinta in giù”, versi che anche semanticamente sottolineano una certa confidenza col padre) tra ottonario e novenario, probabilmente per significare una certa “confidenza” col ricordo del padre dopo le prime battute impacciate ed anticipando ciò che avverrà nei ritornelli.
Lo schema metrico delle variazioni procede con andamento lineare: settenari con ottonari tronchi per al prima e terza variazione, settenari con ottonari con dieresi finale per la seconda variazione, e con rime che seguono schemi ogni volta diversi, ma che ripropongono in più di una variazione solo –egno (nella prima e nella terza variazione, non a caso il “legno” è il cavallo che gli permetterà di raggiungere in padre in una situazione onirica) e –an (oppure –am di “tram”, nemmeno qui a caso perché è il rumore del cavallo che galoppa verso il suo sogno di rincontrare il padre).
Nel ritornello di metricamente significativo si può riscontrare l’uso dell’endecasillabo dopo il “ciao pà”. Sono tre endecasillabi per ogni ritornello (unici tre dell’intera canzone) e esprimono concetti fondamentali per esplicare lo stato d’animo del protagonista ed il contesto: “ma quante strade di sentieri bianchi”, “così hai saltato giù e ora sei in volo”, “ma dimmi dove è che stiamo andando”, con meravigliosa dialefe tra “dove” ed “è”, col cantante che sembra sprofondare in quella “è” con tutta la profondità della sua voce, che evidenzia l’incertezza dell’andare avanti).
Terminata questa noiosissima e opinabile analisi metrica mi piacerebbe addentrarmi sul profondo significato del testo. Il testo è una dedica al padre scomparso all’inizio del 2000. In avvio si sente un suono di accordi molto bassi, come un pianoforte solo e desolato, che sembra ripetere i versi di Guccini nella canzone “Quello che non…” quando dice:
“Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova,
ma il senso del vero non trova”.
In effetti il piano sembra scordato e lontano, di sicuro sconfortato dal non riuscire a spiegarsi qualcosa. Forse è il voler comunicare di Baglioni che in lui è ancora vivo il ricordo di un bigliettino trovato in un suo vecchio pianoforte, che recava la data dell’ultima volta che il piano era stato accordato. Quella calligrafia era del padre e la tristezza di questi accordi iniziali acuisce, forse metaforicamente, la mancanza di quell’ “accordatore speciale” (la notizia del ritrovamento del biglietto viene direttamente da Baglioni durante il suo tour “Incanto tra pianoforte e voce”).
La prima immagine del testo ci presenta il ricordo. Si parte con una immagine richiamata da un odore che è ancora sulla pelle. Presumibilmente qui si allude al sangue del padre che scorre ancora nelle vene del figlio, per poi ricordare le domande che il figlio Baglioni rivolgeva al padre. Qui il figlio è ancora distante dal padre e la frase che unisce le prime due strofe ci spiega, con un’azione metatestuale, che si è ancora nel ricordo: quel “ti ricordi pà” ci fa capire che la tristezza di Baglioni non si avvede della lontananza del padre ed il tutto è ancora un inutile modo di scacciare via la tristezza tramite il ricordo. Da sottolineare la familiarità del saluto nelle canzoni di Baglioni: in “Viaggiatore sulla coda del tempo” (album precedente) c’era una canzone, “A Cla’”, in cui il cantante salutava l’uomo e lo faceva quasi in romanesco, sordizzando la velare di Cla’, arrivando quasi a dire “A Gla’”. Questo succedeva soprattutto nei concerti. In “Patàpan” lui romanizza già la prima frase rivolta al padre e quel “ti ricordi pà” diventa quasi una frase dialettale.
Nella seconda strofa c’è una ulteriore immagine dei due che camminano ed il figlio è ancora lì che si pone domande, ancora immensamente più piccolo del padre. Sembra di rivedere l’immagine di una canzone di De Gregori, “La casa di Hilde”:
“L’ombra di mio padre è due volte la mia,
lui camminava ed io correvo”.
In effetti il figlio, anche nella canzone di Baglioni, non riesce a stare dietro al padre, così il padre gli trova un legno. Quel legno è forse l’immagine più importante dell’intera canzone. Nel ricordo Baglioni figlio monta sul legno come si farebbe con un cavallo ed il padre lo fa galoppare, facendogli fare il rumore “Patapàn”.
Baglioni, parlando di questo suo ultimo disco, lo ha definito una “Antologia di inediti”. In effetti nelle canzoni non è difficile scovare molte immagini già presenti nelle sue precedenti produzioni. Le immagini di “Patapàn” spesso riconducono ad una sua precedente canzone “Naso di falco”, contenuta nell’album “Oltre” del 1991. Cito da “Naso di falco”:
“si è fatto grande il piccolo guerriero
legni incartati non ci son più
da cavalcare sul sentiero del sole
e del serpente contadino”.
Ora: naturalmente il serpente contadino è l’immagine della stradina di campagna prsente anche qui in “Patapàn” (prima strofa). In “Naso di falco” Baglioni elenca moltissime domande che lui si faceva da bambino, ricollegabili alle prime strofe di “Patàpan” in cui lui pone domande al padre. In più l’immagine del legno inarcato da cavalcare fa il paio con quelli di questa nuova canzone. Direi che è lo stesso legno. Legno che ora l’adulto Baglioni non trova più (“legni inarcati non ci son più”) perché era solo il padre che poteva darglieli. Solo il padre poteva tendergli quella mano e, come vedremo più avanti:
“senza un legno adesso
un po’ più piano vado
e spesso cado”.
Poi Baglioni acuisce ancora la sensazione di sicurezza che il padre gli dava, diventando tutt’uno con quella situazione, ricordandosi le corse nelle praterie quando il cuore (tam tam nel vocabolario baglioniano) gli batteva forte per l’emozione ed il marciare del suo cavallo avanzava accompagnato dall’armonia di un suono di fanfara, chiarissima metafora dell’imbattibilità e della virilità (nel senso di forza indomabile) di quel sentimento e dello stato d’animo del bambino Baglioni. Già, perché da questo momento Baglioni è completamente immerso in quella situazione. Ecco che la fanfara aumenta grazie alle braccia forti del padre (elemento che acuisce la virilità). E’ bastato un primo rumore del suo cavallo, quel primo patapàn dopo il primo schiocco. Adesso Baglioni è al galoppo (significativo foneticamente il pronunciare la parola “schiocco”, “occhi”, “ginocchi storti”, con consonanti occlusive che rendono l’idea del cavallo che non bada a quello che gli si para di fronte durante la cavalcata nella prateria e tra gli alberi). Qui c’è il capolavoro: nell’infinita successione dei vari patapàn (mirabilmente eseguita da una voce “ritrovata” come quella di Baglioni) Baglioni si libera completamente della sensazione terrena. Oramai è al galoppo e supera l’Oltre per mezzo di questo cavallo. Significativa è la canzone “La piana dei cavalli bradi”, dove il protagonista superava l’oltre proprio grazie alla forza selvaggia di questi cavalli. Il cavallo qui è il mezzo del ricordo lasciatogli dal padre per raggiungere la sua immagine. Magicamente ed dopo questo climax ascendente, Baglioni si trova di fronte il padre e lo saluta in tono del tutto familiare. In quel posto ci sono strade di sentieri bianchi (forse il “sentiero del sole” di “Naso di falco”), da camminare senza stancarsi mai (Paradiso?). IL figlio Baglioni vuole dimostrare al padre che adesso riesce a correre veloce: “papà guarda come sono bravo” sembra dire ad una figura paterna che sembra quasi assente, proprio come lo sono nel sogno le cose che sognamo. D’improvviso però il padre resta indietro e sopraggiunge l’immagine di una croce, l’immagine di morte. Baglioni ripiomba immediatamente in terra, sotto una croce, di fronte alla croce del padre. Ci erano voluti tutti quei patapàn per raggiungerlo, ne basta uno per ripiombare giù: metafora impareggiabile della vita.
A questo punto c'è una parte importantissima: il fischio. Dopo aver nominato "il tuo fischio" nel testo, il ritornello si riallaccia alla strofa successiva con un fischio melodico. Baglioni aveva già usato il fischio per l'introduzione di una sua canzone del '95 "Titoli di coda", canzone nella quale immaginava la sua morte. Nell'ultimo tour "Incanto tra pianoforte e voce", già citato, introdusse in scaletta una canzone fischiettando (si tratta di "Quante volte") e, visto che il tour era dedicato al padre, tutto sembra molto di più che una coincidenza. In modo particolare fa riflettere il fatto che questo fischio addolcisca la differenza tra il ritornello (come detto, sogno) e la strofa successiva (ricordo malinconico). Il fischio, forse, era una caratteristica del padre. Ora Claudio lo rivede in quel fischio, lo "rincorre dietro un fischio". (Grazie Elisa!)
Il padre ed il figlio ora tornano a camminare in coppia solo nel ricordo. Probabilmente il figlio è di fronte alla tomba del padre. Gli sovviene l’immagine dei loro giochi e del padre che effettua una macabra finta di buttarsi giù da un burrone (o forse spingeva il figlio per finta?). Nonostante tutto, questo faceva ridere il figlio, lo faceva ridere “col fiatone”. Da notare che la camicia è stinta. Forse è per via del ricordo, forse è stinta perché ancora non del tutto materializzata di fronte al Baglioni figlio che sta, comunque, per ricominciare la galoppata verso il padre. Ricorda i dubbi del padre; questa volta è il padre a non riuscire a capire come mai la vita non è come un tram (immagine riconducibile a “Cuore di aliante”: “come un viaggio in tram che ti siedi giù e è il capolinea”). Di nuovo lui torna a galoppare, quasi per rassicurare il padre, per “sgridarlo” di aver saltato giù da quel tram o da quel ciglio di un burrone (se così fosse si svelerebbe il macabro del gioco del padre al figlio). A questo punto mi sembra doveroso fare un’altra citazione in questa canzone. La melodia delle strofe qui è simile ad un’altra canzone di Baglioni: “Gagarin”. Questa è una vera e propria citazione: come, infatti, Gagarin aveva sfidato Dio voltandosi a guardare la Terra, così il padre è saltato giù davvero dal burrone. Anche se non fosse questa l’interpretazione, infatti, la citazione resterebbe valida perché in “Gagarin” il ritornello diceva “e ancora adesso io volo”. Beh, quel volo è di sicuro lo stesso del padre nell’endecasillabo “così hai saltato giù e ora sei in volo”.
Ad ogni modo, dopo aver galoppato ancora tanto per raggiungerlo, Baglioni ritrova il padre. E’ lontano, lui lo saluta. E’ lontano come nel primo ritornello. Baglioni si rende conto che adesso può finalmente correre, ma correre da solo. La realtà è un’altra cosa rispetto a quella dimensione di sogno che lui sta vivendo e, nonostante lui cerchi di reiterare il ritornello ed il sogno (riattaccando con un nuovo “ciao pà”, quasi per destare la sua attenzione), non può nulla. Il padre non gli dice “dove è che stiamo andando e questa vita dove mai ci sta portando”. Capisce che non era questo il mondo che volevano, nemmeno questo cielo (forse il Paradiso dove è salito per rincontrare il padre) è quello da loro sognato. Il sogno finisce di nuovo miseramente, non poteva durare, tutte le speranze, l’immagine del padre ed il suo galoppo cadono miseramente in volo con l’ultimo, unico e straziante patapàn.
Grazie Claudio.
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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c'è se mai nessuno l'ha veduto
Edited by - PaoloTalanca on Jun 03 2003 22:10:57
Edited by - PaoloTalanca on Jun 03 2003 22:17:20
Edited by - PaoloTalanca on Jun 04 2003 23:27:57