massimo
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Inserito - 01/07/2003 : 15:51:40
Le prime pescate in Scoltenna Il giorno dopo finalmente andammo a pescare per la prima volta in Scoltenna. La sua vallata attraversa tutto il Frignano e lo divide in due. Da una parte il comune di Lama, con la sua cima più alta, il monte Cantiere, dall’altra il monte Cimone e le catene di montagne che gli fanno da contorno. Di qua e di là dall’acqua come usiamo dire. Naturalmente non posso ricordare con precisione quella prima volta, confusa nei ricordi di tante altre, sempre simili, sempre diverse. Posso però immaginare come fu. In genere lasciavamo la nostra 600, sulla strada per Strettara, e ci incamminavamo a piedi, lungo delle carraie, per raggiungere il fiume Vi erano vari posti maggiormente adatti per la pesca, per la presenza di pozze più profonde e dove l’acqua era calma. Strettara, Valdalbero, Mulino delle Campore, Mulino del Ruoto, Pian della Valle, per citare i luoghi dove andavamo più spesso. Potevamo camminare per un quarto d’ora, o anche più, ma il passo era sempre svelto e la voglia di arrivare tanta. Raggiunto il luogo stabilito per la pesca, ci sistemavamo due posti, non troppo distanti, quanto bastava per non esserci d’impiccio l’un l’altro. Se il pozzo che avevamo scelto, era abbastanza ampio, ci mettevamo uno vicino all’altro. Montavamo velocemente la canna e la lenza, sempre quella, senza troppe pretese. In genere usavamo ami del 16 montati su una bava del 14, decisamente esagerati per il tipo di catture che facevamo. Ma allora non ci facevamo problemi con tecnica o attrezzature raffinate. C’era tanto pesce nel fiume, e raramente tornavamo a casa con i retini vuoti. Era fine estate e l’acqua era limpida, tanto che potevamo vedere i branchi di pesce che nuotavano nelle pozze. Sotto le cascatelle vaironi, più a valle, dove l’acqua rallentava ed era più profonda i cavedani. Vicino a riva nuvole di pesciolini, avanotti di tutte le specie, che schizzavano via veloci, come avvertivano la nostra presenza. Poi c’erano pochissimi pescatori ed il pesce non era disturbato da nessuno. Iniziavamo pescando in un punto del fiume, lanciando qualche begattino nell’acqua per attirare il pesce, poi cominciavamo a fare le passate. Ogni due, tre passate c’era un’abboccata. Quando rallentavano nel mangiare, semplicemente ci spostavamo lungo il fiume, a monte o a valle fino al posto successivo. In questo modo arrivavamo a sera con i retini pieni. Al solito facevamo i confronti, su chi ne aveva presi di più o su chi aveva catturato l’esemplare di maggiori dimensioni, e devo riconoscere che mio padre mi batteva quasi sempre. A volte con un colpo di fortuna, potevo catturare un cavedano più grosso del solito, ma era solo fortuna. E comunque parliamo sempre di pesci che non superavano i venti centimetri. Riuscivamo a vedere cavedani girovagare lenti nelle pozze, alcuni dei quali potevano raggiungere e superare i due chili, ma erano prede decisamente al di fuori della nostra portata. Ho provato spesso a lanciare l’esca, per vedere se qualcuno di loro si fosse deciso a mangiare, ma questo non è mai accaduto. Avrei capito il perché solo col tempo e l’esperienza, ma allora ero ancora un pescatore alle prime armi, ricco solo di ingenuità e sogni. Con la fantasia mi vedevo catturare uno di quei bestioni, con la mia cannetta, che peraltro si sarebbe spezzata, e correre da mio padre per mostrarglielo, felice per le sue esclamazioni di stupore. Mi sarei sentito un grande pescatore, ma questo, come molti sogni, non si avverò mai. Mio padre era un pescatore costante e paziente, e magari continuava a pescare anche quando non si vedevano abboccate per un po’ di tempo. Io invece, ragazzino, ero impaziente e, se stavo molto senza prendere un pesce, lasciavo la canna a terra e mi mettevo a girare per il fiume. Mi divertivo a correre sul greto, saltando da un sasso all’altro, sempre col rischio di cadere, o di scivolare nell’acqua. Ogni tanto succedeva, e mi trovavo allora con qualche sbucciatura in più nelle ginocchia, o con i pantaloni bagnati seduto nell’acqua. Ma era un mondo che mi affascinava sempre, era una scoperta continua. Scivolare da dietro un masso, e scoprire un pozzetto, con pesci che nuotavano tranquilli, e stare ad osservarli in silenzio, per cominciare a capirli, per ragionare come loro. Vedere come catturavano un vermetto che passava, o come salivano in superficie per afferrare un insetto caduto. Non mi facevo esperienza per la pesca, ma imparavo a conoscere il pesce e questo, nel tempo, sarebbe stata una dote indispensabile per diventare davvero un grande pescatore. Osservavo gli uccelli che si posavano e venivano a bere, o una biscia d’acqua che attraversava il fiume nuotando sinuosa. Altre volte costruivo dighe, canali, cercando di imbrigliare l’acqua, perché si muovesse secondo i miei desideri. E nelle mie dighe mettevo quei pochi pesciolini che avevo catturato, e , riprendendoli con le mani, mi sembrava di pescarli di nuovo. A sera ci avviavamo verso la macchina, seguendo sentieri di terra battuta, puliti dall’erba da piedi sconosciuti, passati per decine, forse centinaia d’anni. Raggiungere la 600 diventava per me una fatica, perché, al contrario dell’andata, camminavamo in salita, poi perché correre tutto il giorno per il fiume mi aveva tolto qualsiasi energia. Era un sollievo sedersi in macchina e riposarsi. Più per merito di mio padre che mio, talvolta portavamo a casa parecchio pesce, più di quanto non riuscissimo a mangiare. Al momento in cui mia madre metteva il restante in un foglio di giornale per portarlo, sempre, nonostante la stanchezza, mi offrivo io. Era una grande soddisfazione per me portarlo ai vicini, perché a loro volta, potessero gustare una eccellente frittura. Mi inorgoglivano i loro apprezzamenti sul pesce, mai rifiutato, ma accettato con piacere, ed ancor più le lodi che mi facevano, come se fosse stata opera mia. Mi guardavo bene dallo specificare chi era che aveva pescato tutto quel ben di Dio, ma questo credo sia un difetto congenito del pescatore. Il seme di quello che sarei diventato, cominciava a germogliare dentro di me. Una parte fondamentale del pescatore è proprio il desiderio di condividere con altri la preda, quasi istinto primordiali di antiche tribù, ma ancor più suscitare l’ammirazione, e perché no, anche un filo d’invidia. Poi finì anche quella prima estate di pesca, le giornate si accorciarono, il pesce cominciò a scendere a valle o a stare rintanato, e le nostre pescate diventavano sempre più scarse. Infine si ricominciò ad andare a scuola, io come scolaro, mio padre come insegnante, il mio insegnante e per quell’anno di andare a pesca non se ne parlò più.
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