cgianini
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Inserito - 29/01/2004 : 12:30:20
L’AttesaErano passati anni, ormai. Erano passati anni da quando la sua vita aveva cominciato ad essere scandita da intervalli di due ore. Due ore in attesa di qualcosa. Di qualcosa che poi, immancabilmente, non arrivava mai. Timbratura del cartellino alle ore otto. Due ore in attesa della pausa caffè di metà mattina. Ad aspettare che quei dieci minuti, quasi rubati all’orario di lavoro ed al titolare della società in cui era impiegato, potessero portargli qualcosa. Ma cosa poi?, si domandava in principio. Forse di scambiare quattro chiacchiere con persone dai visi diversi rispetto a quelli grigi dei suoi colleghi d’ufficio. Forse di incontrare la segretaria dell’amministratore delegato, quella carina, quella con minigonne ogni giorno in apparenza più corte. Forse di flirtare un po’ con lei; così, tanto per scherzare e mettere un po’ di sale in quei dieci minuti insieme allo zucchero nel caffè. Forse… Poi aveva cessato di porsi la questione. Si limitava semplicemente ad attendere le ore dieci. Si alzava, scendeva le scale, percorreva lo stretto corridoio che conduceva alla “saletta ristoro” e, sul pannello della macchinetta, premeva il tasto della bevanda scelta. In questo modo, almeno, allontanava per qualche minuto la squallida monotonia del lavoro. E se poi incontrava la segretaria carina tanto meglio. Così magari quei dieci minuti si allungavano un po’ verso i quindici. Come la mano di chi sta affogando, tesa fuori dal pelo dell’acqua ad invocare aiuto. Le dita aperte alla vita, quando ormai i polmoni sono pieni di acqua e non esiste più l’aria necessaria a dare voce alla richiesta. Le dita aperte alla vita. Per sopravvivere. Per non morire. Dopo la pausa di metà mattina restava in attesa della pausa per il pranzo. E qui l’aspettativa era maggiore, perché una volta consumato un panino in perfetta solitudine affacciato alla finestra dell’ufficio, aveva la possibilità di consultare la propria casella di posta elettronica. L’emozione che provava ogni qualvolta accedeva ad essa rimaneva immutata nel tempo. Come la promessa di grandi cose, grandi notizie, grandi eventi tesi a stravolgergli la vita. Come l’imminente realizzazione dei desideri più intimi. Ma immutata nel tempo rimaneva anche la cocente delusione di scoprire che nessuno gli aveva scritto. Nessuno aveva pensato a lui. E d’altro canto la sua parte razionale non si stupiva affatto: erano parecchi mesi che lui, a sua volta, non spediva nemmeno l’ombra di due righe a qualche amico. Quindi perché altri avrebbero dovuto scrivere a lui? Così la sua casella rimaneva l’arido contenitore di aridi messaggi pubblicitari: promesse di vittorie a concorsi i più disparati, promozioni con sconti sensazionali per le cose più inutili, corsi di studi universitari a casa propria. Già. Studi. Università. Ogni tanto si trovava a pensare che un tempo non era stato tutto così squallido. C’era stato un momento in cui aveva creduto di poter segnare il proprio passaggio nel mondo. C’era stato un periodo in cui aveva continuato a gettare i germogli dei propri sogni. C’era stato un periodo in cui li aveva accuditi coccolati scaldati nutriti. Poi, senza nemmeno rendersene conto, aveva cominciato a trascurali. Per qualche motivo si era stancato di loro, forse impaziente di vederli crescere, maturare. Oppure troppo addolorato nel vederli morire ancora giovani, ancora embrioni di un futuro bellissimo, innocenti creature che mai più avrebbero visto la luce del sole. Così, in qualche modo, era sopravvissuto ai suoi sogni. E nessuno dovrebbe mai sopravvivere ai propri sogni. Dieci minuti prima del termine della pausa pranzo si fermava ancora alla finestra a guardare i colori del mondo: il rosso dell’autunno sugli alberi, il bianco della neve sui monti, visibili in lontananza attraverso un angolo di vetro, il verde rigoglioso della primavera nell’erba, il giallo del caldo sole estivo nel cielo blu. Poi tutto ricominciava come al mattino: l’attesa della pausa caffè di metà pomeriggio. Altre due ore per aspettare cosa? Forse per arrivare a dire, con il bicchierino del caffè in mano: “Altre due ore, poi si va a casa…” Ormai non ci pensava più. Non si fermava più a riflettere sul perché. Semplicemente era ormai convinto che nulla avrebbe potuto fare per cambiare quello stato di cose. Le ultime due ore erano quelle più pesanti, quelle che non trascorrevano mai. Erano quelle tagliate a spicchi con estrema lentezza dalle lancette dell’orologio. L’attesa dell’arrivo a casa era tuttavia quella più ricca di promesse. Perché a casa sarebbe stato nel proprio regno. Là avrebbe potuto riprendere ad annaffiare i semi sopiti dei sogni. Di quei sogni mai morti, ma solo dormienti. In attesa, anche loro, di una nuova primavera. Ma ogni giorno, giunto alla propria dimora, la solitudine lo opprimeva, svuotandolo di ogni energia. Alcune volte restava per ore intere con la cornetta del telefono in mano, timoroso di riallacciare dei contatti, di recuperare antiche amicizie. Timoroso di scoprire che altri, come lui, avevano rinunciato alla vita. Così si coricava, cercando di seppellire sotto le calde coperte se stesso e l’angoscia di cui era preda. Ma anche la notte era scandita da intervalli di due ore. Intervalli in cui si destava e restava sveglio per due ore. Poi riprendeva sonno. Un sonno peggiore dello stato di veglia. Un sonno senza sogni. In quel dominio di tenebre della mente, in cui le ombre si inseguono e si rincorrono, arrivava a comprendere, per poi sprofondare nell’oblio, la propria situazione. Era come se stesse aspettando che la vita si ricordasse di lui, che lo sfiorasse con il tocco di un dito o con le labbra di un bacio, che lo accarezzasse invece di limitarsi a passargli accanto indifferente. Ma lui aveva dimenticato che la vita, come una donna, va corteggiata senza sosta, senza soluzione di continuità. E così, quando la sveglia trillava a ricordargli che un’altra giornata era iniziata, tutto ricominciava come una grottesca parodia del giorno precedente. Un altro giorno scandito da taglienti schegge di due ore. Claudio Gianini
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