“Credevano a un altro diverso da Te
e non mi hanno fatto del male…”La religione in Fabrizio De André
Fabrizio De André. Spesso basta questo nome per provocare due tipi di reazioni distinte: approvazione entusiasta e consapevole o rispetto fiducioso di “bravura per sentito dire”. Il mondo cantautoriale italiano è relativamente vasto, tanto da creare giudizi artistici che variano nel caso di strumentalizzazione politica per alcuni, di canzoni troppo commerciali o troppo tristi per altri. Il rischio che si corre è quello di non tenere in considerazione il fatto che nell’intero magma di autori di testi e musica che cantano le proprie opere – i cosiddetti cantautori – gli artisti che creano arte sono quelli che decidono di trattare certi temi, distaccandosi quanto più possibile dalle strazianti e ritrite tematiche amorose, che ergono a baluardo inconfondibile la rima “cuore/amore” di tradizione canzonettistica italiana. Con De André (e con pochi altri in verità) non si corre assolutamente questo rischio. Uno dei temi principalmente trattati, in alternativa alle mielose tiritere amorose, è sicuramente il tema del rapporto con la religiosità.
Il proprio rapporto con la religione che Fabrizio De André lascia trasparire nelle sue canzoni è assolutamente complesso. Spesso si usa far risalire al 1967 la data delle prime opere a sfondo religioso di Fabrizio. In quell’anno, infatti, uscì l’album intitolato Volume I, dove c’erano canzoni dai titoli inequivocabili come Preghiera in gennaio (scritta la notte prima dei funerali di Tenco) o Si chiamava Gesù. Io credo invece che Fabrizio, sin dalle prime canzoni, raccolte in quarantacinque giri, abbia composto opere che cercavano di rispondere ad una coerenza di fondo, la stessa coerenza che l’ha accompagnato per tutta la sua vita e carriera artistica. Questa uniformità apparteneva di sicuro anche alle primissime canzoni e si rispecchiava nel rapporto con i misteri religiosi. E’ forse un quadro abusato ed incompleto quello che dipinge Fabrizio come cantore delle persone ingiustamente emarginate dalla società, ma è proprio da una di loro che vorrei cominciare ad esaminare la relazione tra il cantautore genovese e la fede. La canzone La ballata del Miche’ risale al 1961 e già da lì si evidenzia una sorta di rivendicazione umana da parte dell’autore, una velata insofferenza per l’ingiustizia che toccherà a Miche’ anche dopo la morte. Miche’ si uccide in carcere perché non sopporta di stare lontano dalla sua Mimì. Alla mancanza di amore preferisce la morte e Fabrizio non accetta che “domani alle tre | nella fossa comune cadrà | senza il prete e la Messa perché di un suicida non hanno pietà”. Questi versi trasudano di voglia di equità, tanto quanto quelli della sopra citata Preghiera in gennaio, dove Fabrizio immagina Luigi Tenco “quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte | ai suicidi dirà baciandoli alla fronte | <<Venite in Paradiso là dove vado anch'io | perché non c'è l'Inferno nel mondo del buon Dio>>”; questo susseguirsi di alessandrini, come l’immeritata sepoltura di Miche’, può riassumersi nei versi celeberrimi de La città vecchia “se non sono gigli | son pur sempre figli | vittime di questo mondo” o con quelli di Via del campo “dai diamanti non nasce niente | dal letame nascono i fior”, fino a giungere – come ulteriore prova di coerenza – all’ultimissima canzone della sua vita, Smisurata preghiera, che alla maniera di un testamento incalza “ricorda Signore questi servi disobbedienti | alle leggi del branco | non dimenticare il loro volto | che dopo tanto sbandare | è appena giusto che la fortuna li aiuti | come una svista | come un'anomalia | come una distrazione | come un dovere”.
E’ importante osservare che in queste mie analisi, per trattare del rapporto tra De André e la religione, ho usato la parola Dio. In effetti però De André si definisce un animista e la parola Dio è spesso da lui usata per pura comprensibilità, dato che in effetti Fabrizio frequentemente si rivolge al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo ed il problema più che religioso è mistico, il problema di un uomo che ha bisogno di fede ma fede non ha trovato. Non è però mancato un periodo che potremmo chiamare di analisi della religione cristiana, mi riferisco in particolare al disco del 1970 La buona novella.
Non è mia intenzione esaminare tutti gli aspetti di questo album, però credo che vadano sottolineati alcuni passi fondamentali, che ci forniscono una strada per comprendere il punto di vista dell’autore. La buona novella è una rivisitazione degli avvenimenti del Nuovo Testamento sulla base dei Vangeli apocrifi. Gli autori di questi Vangeli furono greci, arabi, bizantini e armeni e rappresentavano una voce inascoltata rispetto ai Vangeli canonici che De André definiva “l’ufficio stampa della Grande Chiesa”. A Fabrizio interessava la ricostruzione laica della vita di Cristo, al quale riconosceva il merito di predicare la fratellanza universale e che identificava come un vero eroe rivoluzionario. L’amore come “pietà che non cede al rancore” conteneva per Fabrizio una delle più grandi istanze rivoluzionarie di sempre e già dalla canzone Si chiamava Gesù la sua mira era quella di rendere più umana la figura di Cristo, restando nella tendenza all’eterno di un amore senza rancore che esplodeva nei versi di quella canzone: “ma inumano è pur sempre l'amore | di chi rantola senza rancore | perdonando con l'ultima voce | chi lo uccide tra le braccia d'una croce”, dove inumano (dunque non-umano, in questo caso divino o per meglio dire metafisico) è quel tipo di amore, non i rantoli di un uomo ucciso ingiustamente. Quei rantoli sono umani, ed è proprio questa maggiore umanità che viene fuori dalla lettura degli apocrifi. Vengono fuori, ad esempio, quelle caratteristiche terrene di Maria che hanno una lunghissima tradizione sia nelle rappresentazioni religiose teatrali dei primi testi volgari, sia nella poesia religiosa volgare, come in Jacopone da Todi che in Donna de Paradiso si accosta allo spirito dei Vangeli apocrifi (ad esempio il Vangelo di Nicodemo) già nel famoso pianto della Madonna “O figlio, figlio, figlio! | Figlio, amoroso giglio | figlio, chi da consiglio | al cor mio angustiato? | Figlio, occhi giocondi | Figlio, co' non respondi? | Figlio, perché t'ascondi | dal petto ove se' lattato?”. Successivamente De André avrebbe dato prova di apprezzare questo passo della poesia di Jacopone (e dell’apocrifo di Nicodemo) nella canzone Ottocento risalente al 1990, in particolare nel passo “Figlio figlio | povero figlio | eri bello bianco e vermiglio | quale intruglio ti ha | perduto nel Naviglio | figlio figlio | unico sbaglio | annegato come un coniglio | per ferirmi | pugnalarmi nell'orgoglio | a me a me | che ti trattavo come un figlio | povero me | domani andrà meglio”, in cui entra in gioco il “combattimento” generazionale che anche Vecchioni ha trattato nella canzone del 2002, appunto Figlio figlio figlio e che tanto assomiglia al pianto di Davide, nel II libro di Samuele, per la morte del figlio Assalonne.
La disperazione di Maria, dunque, è una caratteristica fondamentale per rendere umanità alla figura della Madonna e sarà un punto di partenza, che culminerà nella fortissima frase che Fabrizio farà pronunciare a Maria nella canzone Tre madri “non fossi stato figlio di Dio | t’avrei ancora per figlio mio”.
Questo evidenziare il lato umano dei personaggi del Vangelo è senza dubbio una presa di posizione forte della concezione religiosa di De André, e ci chiarisce in maniera indiretta l’essenza di quel Grande Spirito che “per chiarezza” Fabrizio individuava col nome di Dio. Se la primissima canzone de La buona novella si intitola Laudate dominum e l’ulitimissima Laudate hominem, è chiaro che, attraverso un travaglio interiore, l’autore rivendica la rivalutazione degli atti umani, una fiducia incondizionata che anche Vecchioni sembra esigere nella canzone La stazione di Zima: “Lasciami | questo sogno disperato | d'esser uomo | lasciami | quest'orgoglio smisurato | di esser solo un uomo”.
La lezione di Gesù come uomo è stata fondamentale; la lezione di un uomo che ha messo in pratica l’unica regola che la religione può imporci, cioè di amare il prossimo in coerenza con una fratellanza realmente attuabile. Il fatto di porre l’accento sul tipo di amore portato da Cristo è una forza tutta umana, che diventa surrogato di una fede aleatoria e misteriosa. Se a Tito sulla croce Fabrizio fa pronunciare i versi “io nel vedere quest'uomo che muore | madre, io provo dolore | nella pietà che non cede al rancore | madre, ho imparato l'amore”, balza agli occhi quanto fosse importante anche per l’uomo De André il rispetto dell’altro, anche nell’errore o nella disperazione di questo altro.
Ecco perché Fabrizio è ricorso ai Vangeli apocrifi. Assunto il fatto che i quattro Vangeli canonici rendevano una versione più o meno simile, egli si è voluto provare in una tangibilità testimoniata da persone anche non perfettamente calate nella realtà cristiana, ma che comunque riportano la vita di Cristo con un enorme rispetto. Non è un segreto che, ad esempio, nel mondo islamico Gesù sia considerato uno dei più grandi profeti mai esistiti e che, di contro, per i cristiani Maometto sia poco più che un cialtrone.
E’ una enorme coerenza che anima questa voglia di non giudicare le diversità da parte di De André, anche in campo religioso. E’ la coerenza di un uomo che nelle canzoni non ha mai sbattuto la porta di fronte all’alterità e che, anzi, ha da sempre condannato la forza dell’ipocrisia di una maggioranza meschina. Tutt’altra cosa, rispetto a questa meschinità, è l’amore che l’uomo è capace di provare.
Resta, se dividendo bene stimo,
che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch' altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch'aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che 'l male altrui impronti.
(La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XVII, vv. 112-123)
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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c'è se mai nessuno l'ha veduto