Amnesia Aveva lasciato il collegio e ritornava al suo paese dopo otto anni.
Antonio rivedeva i luoghi di cui aveva solo un vago ricordo. Lo zio lo aveva mandato in Svizzera, in una scuola esclusiva e adesso che aveva compiuto la maggiore età, lo faceva tornare perché riprendesse il suo posto nell’antica villa che era appartenuta ai suoi genitori. Dopo il disastro che li aveva uccisi, era stata amministrata da quell’unico fratello del padre.
Il paese non lo ricordava. Si trovava nelle immediate vicinanze della miniera che aveva costituito l’unica risorsa per gli abitanti del luogo; conosceva bene solo la cittadina elvetica in cui si trovava il collegio e non aveva più rivisto né la sua casa, né la campagna che la circondava, né i propri compaesani. Tutto risultava confuso nella memoria, a cominciare dalla notte in cui un boato tremendo aveva squassato l’aria e parte della villa era crollata seppellendo i suoi genitori. Erano stati i ricchi proprietari di quelle terre, della diga, delle fabbriche di olio e di vino e di quella che un tempo era stata la miniera di zolfo.
Era vissuto rinchiuso in se stesso, triste, spaventato e isolato da tutti. Soltanto un ragazzo gli era sempre accanto. Un ragazzo molto simile a lui nell’aspetto, magro, scuro di capelli e di occhi, ma sorridente e che teneva i riccioli eternamente scomposti. Per quanto riguardava il carattere poi, era del tutto diverso dal suo. Sempre allegro e scherzoso, con una gran voglia di vivere e divertirsi. Si chiamava Nuccio ed erano stati inseparabili. Lo istigava a tralasciare lo studio, a distrarsi e a seguirlo quando scappava dal collegio per darsi alle sue frequenti scorribande. Antonio lo aveva invidiato, gli piacevano le sue risate, i suoi scherzi e le canzoni improvvisate alla chitarra. Lui invece aveva sempre un’aria malaticcia e sofferente e non ricordava nulla dei suoi primi anni di vita, che erano scomparsi, annullati nella memoria da qualcosa che lo aveva reso incapace di reagire, di vivere serenamente e normalmente come tutti gli altri ragazzi. Si sforzava di ricordare, ma un vuoto enorme s’affacciava nella mente. Era un baratro che lo paralizzava e lo rendeva ansioso e terrorizzato.
Non aveva detto addio all’amico. Si era fatto promettere che sarebbe andato al paese a trovarlo. Contava di rivederlo presto poiché era l’unico di cui si fidasse e che sapesse comprenderlo.
Adesso Antonio è lì, davanti a quella antica dimora austera e bellissima, immersa nel verde, con ampi scaloni d’accesso che si allungano lateralmente a formare un semicerchio. Un’ala della villa è distrutta e quella visione gli procurava un senso di panico, un’ansia incomprensibile.
Dalle scale vede scendere un anziano signore e una ragazza bruna e sottile.
“Antonio! Ben tornato! Finalmente sei qua ragazzo.” Lo zio lo abbraccia e gli manifesta la consueta affettuosità. In quegli anni era andato spesso a trovarlo in collegio e lo conosce come un uomo buono e onesto, generoso e retto sotto ogni punto di vista. La ragazza invece si presenta come sua figlia; anche lei si mostra cordiale e affettuosa, ma non l’ha mai vista. E’ magra e graziosa, con le lentiggini sul naso e un sorriso affascinante. Deve avere circa la sua età, forse qualche anno in più.
Dice di chiamarsi Stefania. “Sono sicura che andremo d’accordo. Siamo cugini, ma mi piacerebbe che diventassimo amici.” Pare sincera. Gli sorride rivelando due graziose fossette agli angoli della bocca.
Gli fanno rivedere tutta la villa. All’interno è maestosa, bellissima e ricca di mobili austeri. Lo zio afferma che era appartenuta a dei principi e che il padre di Antonio l’aveva acquistata molti anni prima di morire.
Lo portano nell’ala distrutta: “Questa parte non l’ho fatta ricostruire. Sarai tu a farlo. Ormai sei il padrone. Sono rimasto qua solo per badare alle proprietà di mio fratello. Quando lo vorrai, io e mia figlia andremo via e torneremo in città.”
Quella parte della villa gli produce una strana sensazione di malessere, come un morso allo stomaco, qualcosa d’indicibile e indecifrabile. E non ricorda nulla, non riesce a ricordare nulla. Nemmeno rammenta tutto il resto della casa, come se fosse stato cancellato da un colpo di spazzola.
Ricorda bene solo il collegio e Nuccio, la sua spavalderia, la sua aria scanzonata. Lo vorrebbe accanto a sé a confortarlo, a dire che non gli deve importare se non ricorda; un giorno forse ricorderà. Glielo aveva detto tante volte. Ma adesso gli manca, gli manca il saperlo vicino, pronto a proteggerlo e a incoraggiarlo. Lui invece era sempre stato disincantato e depresso, continuamente oppresso da un senso di vuoto e d’impotenza.
“Zio per favore, dovete restare qui con me, non potete lasciarmi solo!”
“Va bene ragazzo, non preoccuparti, resteremo fin tanto che avrai bisogno di noi.
Io e tua cugina rimarremo con te. Stefania d’altronde, vive volentieri da queste parti. Si è diplomata qualche anno fa e non vuole frequentare l’università. Ama la campagna e la quiete di questo posto. Si è occupata volentieri della tenuta e della vendita dei prodotti, come ho fatto io. Tu piuttosto non vorrai andare all’università?”
“No, non andrò; preferisco non dovermi confrontare con altri ragazzi che non conosco e che non sanno nulla della mia amnesia.”
Qualche giorno dopo, una dottoressa andò a visitare Antonio. Diceva d’essere una psichiatra e di poterlo aiutare a risolvere il suo problema. Secondo lei, doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con la morte dei genitori. Forse Antonio era presente e qualcosa o qualcuno lo aveva salvato. Bisognava fare in modo di ricostruire nella sua mente i momenti dell’esplosione. Doveva sottoporsi a delle sedute di analisi. Il ragazzo accettò. La dottoressa si sarebbe recata periodicamente da lui e avrebbe sorvegliato i suoi miglioramenti. Ma doveva anche uscire, divertirsi e mangiare molto. Andare in paese e parlare con la gente. Doveva cercare di distrarsi e condurre in qualche modo la vita degli altri ragazzi della sua età.
Questa sarebbe stata sempre la cosa più difficile, pensava Antonio. Gli altri ragazzi non erano come lui. In collegio si divertivano, cantavano, scherzavano e lo prendevano in giro. Andavano a casa periodicamente e tornavano a scuola pieni di regali e storie da raccontare. Erano quasi tutti ragazzi italiani di famiglie molto benestanti e, come lui, studiavano e parlavano alcune lingue europee.
Ma fra tutti, solo Nuccio gli voleva bene, lo aiutava, lo consigliava, gli diceva di scuotersi e di reagire, di non pensare al vuoto della memoria.
La cugina voleva essergli amica, ma non avrebbe mai sostituito Nuccio. Non poteva farlo, perché l’amico era come un altro se stesso e gli mancava terribilmente.
Improvvisamente, un giorno mentre si stava recando in paese, lo incontrò. Veniva verso di lui e lo abbracciò: “Antonio! Sono qua! Lo vedi, sono venuto come ti avevo promesso. Sapevo che avevi bisogno di me e sono corso. Abito in una casa vicina alla villa. L’ho presa in affitto”
Si sentiva felice di rivederlo, ma stranamente frastornato da quell’apparizione inattesa.
Nei giorni successivi, lo incontrò sempre nello stesso posto. Andavano insieme a passeggiare per la campagna assolata, fra gli alberi di carrubo e verso il fiume. Erano loro due soli e avevano modo di confidarsi. Antonio gli raccontava il suo tormento di continuare a non ricordare nulla. Nulla di ciò che era stato, della sua casa, di quei luoghi incantevoli. Soprattutto non rammentava la morte dei genitori.
“La dottoressa dice che forse mi trovavo nelle vicinanze durante l’esplosione e mi sono salvato in qualche modo, restando scioccato. Quindi quel trauma m’ha tolto la memoria.”
“Dev’essere così Antonio. Prova a ricordare. Com’era tua madre? E tuo padre?
Dovevano essere giovani.”
“C’è una loro fotografia in un salone. E’ l’immagine di una giovane donna molto bella e di un uomo più anziano anche lui piacente. Io però non li ricordo. Non soffro neppure perché vedo il volto di due sconosciuti.”
“Ma non ti devi compatire! Non farlo. Non pensare mai che il male ti abbia reso un handicappato, poiché non lo sei. Un giorno guarirai. Devi guarire.”
Continuavano a camminare tra i binari dei treni, sotto i ponti della ferrovia e tra gli alberi di castagno. Quel paesaggio era splendido, con i campi che si stendevano a perdita d’occhio e le genziane che formavano macchie gialle tra il verde dei cespugli.
La salute di Antonio ne traeva evidente giovamento, in quanto si era fatto più colorito e più in forze.
Un giorno la cugina glielo fece notare e lui arrossì. Era molto timido e aveva paura di tutto. Nonostante le assicurazioni della dottoressa, pensava che non sarebbe mai guarito e che la sua memoria non sarebbe più tornata.
Stefania s’era accorta dei suoi frequenti rossori e aveva capito quanto Antonio fosse impreparato ad affrontare il mondo e il futuro. In una società fatta di arrivismo e di culto dell’immagine, un ragazzo così spaurito non poteva trovare una sua collocazione. Avrebbe dovuto restare sempre là in paese a vivere una vita da eremita,
un ricco eremita, ma pur sempre un recluso e un dimenticato dal resto del mondo intero.
“Prova a pensare ai tuoi giochi d’infanzia, Antonio,” gli aveva detto “ pensa ai giorni in cui eri felice con la tua mamma. Io non c’ero perché stavo in città, ma papà mi ha detto che eravate una famiglia serena. Che partivate spesso e che tu eri un bambino sempre allegro e giocherellone.”
Niente. Non ricordava niente. Né i viaggi, né quella serenità cui aveva tanto spesso anelato.
“Non riesco a ricordare Stefania, non posso sforzarmi più di quanto faccia.”
“Devi volerlo con tutto te stesso. La volontà è una grande arma. Con la volontà si sollevano le montagne. Se tu avrai la volontà di ricordare, un giorno ricorderai. Sai, in fondo tutti possiamo fare qualsiasi cosa. Basta volerlo veramente.”
Quelle parole lo avevano colpito e, da quel giorno, Antonio si recò spesso nell’ala distrutta della villa. Pensava che se avesse cercato di superare la fobia che provava per quel posto, forse avrebbe potuto cominciare a ricordare. Bisogna volerlo, volerlo davvero con tutta la volontà, come diceva la cugina.
Così restava fermo in quella zona demolita mentre un forte tremito gli prendeva lo stomaco, e una voglia di scappare lo faceva vibrare nelle viscere, ma non si muoveva.
Rimaneva immobile, ripensando al passato. Poi quando non ce la faceva più, scappava davvero e correva fuori, all’aria aperta verso la campagna. Incontrava Nuccio e gli raccontava i suoi sforzi e la sua determinazione.
“Bravo Antonio! Continua, continua, non ti dare per vinto. E’ vero, la forza di volontà è una gran cosa nella vita. Coloro che hanno volontà, sono le persone migliori. E tu sei in gamba. Puoi farcela. Devi farcela!”
Tornava allora sempre là, finché un giorno non gli sembra di riudire una voce:
“Questi esplosivi potranno essere rivenduti. Se li conserviamo tutti qua, potremo guadagnare molto soldi.”
Un’altra voce diceva: “Non ti avvicinare mai a questo posto, Antonio. Promettilo.”
Improvvisamente fa un balzo. Ha ricordato. Ha riudito la voce dei genitori. Sta cominciando a ricordare.
Il padre aveva trovato una quantità di esplosivi non utilizzati nella miniera e pensava di rivenderli. Ma la madre non voleva che il figlio mettesse piede in quell’ala della villa che veniva utilizzata come deposito. Sì, era così, il vuoto della memoria si stava colmando.
Gli pare il caso di chiedere conferma delle sue reminiscenze.
“Zio, mio padre conservava dell’esplosivo nella parte distrutta, è vero?”
Lo sguardo di quello s’illumina: “Antonio! Hai ricordato! Certo, l’esplosione è avvenuta proprio a causa delle cariche di dinamite che tuo padre ammassava. Però in pochi lo sapevamo e mio fratello non voleva che si sapesse. Si è conosciuta la verità solo dopo la sua morte, purtroppo.”
Da quel giorno, comprende che avrebbe dovuto continuare a sforzare la memoria.
Perché si era salvato?
Chiede consiglio a Nuccio. La risposta è che deve concentrarsi sulla madre. La voce che gli raccomandava di non avvicinarsi a quel luogo doveva essere la sua.
Infatti gli sembra di riudirla:
“Non ti avvicinare Antonio, promettilo.”
Quanta dolcezza in quella voce! La ricorda ripetergli sempre la medesima cosa.
Allora perché l’ala distrutta gli procura tanto panico?
Torna in quel luogo quasi ogni giorno e la paura si va attenuando. Lentamente comincia a sentirla meno violenta e opprimente. Riesce a sopportarla e non ha più voglia di scappare.
Vuole risentire la voce della madre.
Ricorda quella voce, dolce, cara. Ha un timbro melodioso, un tono armonioso.
La sua voce!
Si piega sulle ginocchia e scoppia a piangere violentemente, singhiozza. E’ il pianto per un dolore cocente, un dolore antico, straziante. Il dolore per qualcuno che ha perso per sempre. Un qualcuno che ha amato moltissimo, di un amore profondo, come solo un bambino sa amare la sua mamma.
Il pianto si fa convulso, dirotto, la mente pare scoppiare, e tra le lacrime riode la voce:
“Non puoi venire con me. Torna a dormire Antonuccio. Nuccio della tua mamma.”
A questo punto, ha uno scarto. Solleva il capo. S’immobilizza. Smette di piangere.
Rimane a fissare il vuoto inebetito.
“Nuccio.”
Lei lo chiamava Nuccio. Usava quel vezzeggiativo!
Si prende la testa tra le mani e la comprime. Gli pare d’impazzire.
“Nuccio.”
Scappa. Scappa via lontano, all’aperto, all’aria pura.
Si asciuga gli occhi con il dorso delle mani e corre, corre.
Deve raggiungere il posto in cui s’incontrava sempre con l’amico.
Ma sa già che oggi non ci sarà. Non verrà mai più.
E non ci sarà per il semplice motivo che non c’è mai stato. Non è mai esistito.
Corre e nella nebbia del suo cervello si rende conto che Nuccio era stato lui stesso.
Un parto della sua fantasia. Creato come autodifesa. Un altro se stesso.
Era quell’Antonio che sarebbe stato se non avesse sofferto di amnesia. Sarebbe stato allegro e contento, scanzonato e felice se solo fossero vissuti i suoi genitori, e se non avesse perso la memoria.
Si siede sui massi, al sole, tra i cespugli di margherite selvatiche. Soffia una brezza leggera e gli scompiglia i capelli. Se li tocca. Sono i capelli di Nuccio. Di colui che ha solo immaginato. Si è identificato in lui perché sapeva di essere come lui, ma di non riuscire a manifestarlo.
Si guarda intorno: l’amico non è lì accanto a lui, ma è con lui, perché Antonio è sempre stato Nuccio.
Questa scoperta gli procura un senso di sgomento e gli fa battere forte il cuore.
Ma si sente più libero e pensa che lentamente potrà diventare un ragazzo come tutti gli altri, sereno e tranquillo.
Parla di tutte queste cose con la dottoressa.
Nell’ultima seduta di analisi, riesce a ricordare quella notte in cui s’era allontanato dalla madre ed era ritornato a letto, lontano dal luogo dell’esplosione. Si era appena coricato, che un frastuono tremendo aveva squassato tutta la villa.
Era corso fuori dalla sua camera e aveva visto crollare della mura. Un grido disumano gli era uscito dalla gola:
“Mamma!”
Poi nulla.
Ecco il buio, il vuoto, la paralisi della mente.
La dottoressa dice che in quel preciso momento doveva aver perso la memoria.
La sua mente di fanciullo aveva rifiutato l’accaduto e aveva preferito cancellare ogni ricordo, ogni immagine del passato. Il trauma e lo shock erano stati troppo forti e il cervello s’era oscurato, si era difeso coprendo ogni memoria di ciò che era stato.
Antonio comprende che quella diagnosi è esatta poiché non vi è altra spiegazione alla sua amnesia. Ma adesso si sente guarito e sospira per il senso di libertà e di sollievo.
Porterà in cuore quella pena enorme, quel sentimento di perdita e d’impotenza, ma sa che reagirà e che la forza della sua volontà lo aiuterà sempre nella vita.
Gabriella Cuscinà