PRIGIONIA "ovvero aiutati che il ciel t'aiuta."
di Zanin Roberto
(Racconto ispirato alle vicende narrate nel diario di Danelon Lorenzo, friulano che combattè la I guerra mondiale, fu fatto prigioniero e si salvò la vita facendo ritorno a casa)
Il treno che trascinava lontano quella gioventù, fortunata di non essere morta, si ritrovava a dover esser prigioniera del nemico,molte volte dal volto e dalla parlata italiana che serviva l'Austria.
La tradotta avanzava verso Lubiana, in un giugno in cui il frumento ingentiliva con il suo biondo tono l'orizzonte e i carri stracolmi di soldati stridevano sui binari.
Lorenzo e con lui più di 5000 commilitoni sono angustiati dalla fame, finalmente arriva un pugno di polenta e se gli ufficiali si sporcano le camicie, non avezzi a mangiare con le mani, ciò può solo suscitare l'ironica espressione che un contadino ha nel considerare quell'impaccio. Nel cuore l'apprensione non è per il futuro ma è il presente a preoccupare, la fame, la stanchezza, la lingua incomprensibile, la lontananza.
All'improvviso il rombo di un aereo si fa vicino, la sosta in quella stazione per rifornire di carbone il locomotore ne fa un facile bersaglio, un boato in coda proprio appena oltre l'ultima carozza fa tremare il convoglio ma non arreca alcun danno.
Il fumo grigio si spande come una nebbia londinese e l'odore solfureo impregna le uniformi di panno grigio-verde, i nomi delle cittadine sono sconosciute e impronunciabili. Il territorio ungherese si fa pianeggiante e si prosegue per Belgrado.
Quando Lorenzo scende dalla tradotta viene inquadrato in compagnie che alloggiano in un forte a Belgrado, li finalmente dopo ore viene distribuito un mestolino di brodo di capra e agnello tutto tritato insieme.
Quando l'esercito Serbo si ritirò da Belgrado, sotto l'offensiva austro-ungarica, ruppe delle dighe di sbarramento sul fiume Danubio, allo scopo di rallentare l'avanzata austriaca, così facendo travolse diverse reparti in avanguardia. Erano passati 18 mesi da quel drammatico evento e le ferite erano ancora visibile nella città.
Il mattino Lorenzo venne mandato a scavare nella melma per recuperare i miseri resti di soldati ancora con i piedi infilati nelle staffe della cavalcatura e insabbiati con il cavallo, in un fango cementato.
L'odore era insoportabile, senza maschera, senza guanti, sotto un sole accecante, con le forze al minimo, denutrito e sconvolto dall'impatto di quella realtà.
Lorenzo accusò il colpo e l'umore si fece scuro, si trovavano carri con le munizioni, gli attrezzi, i materiali di sussistenza, sepolti dall'onda d'urto dell'acqua e il tutto atrocemente circondato da giovani soldati annegati.
La fame era tanta, le giornate fornivano poche speranze e rari spiragli di ottimismo, anche se le rondini continuavano a volare spensierate in un cielo azzurro.
Il nostro friulano in quella seconda metà di giugno 1917 era ora adibito al facchinaggio nel porto. I sacchi di sale venivano scaricati dalle chiatte e si caricavano le pelli di capra e pecora. Quale fu lo stupore nel constatare che in alcune pelli, fresche di scuoiamento, rimanevano frammenti di carne che ovviamente avevano larve per il deteriorarsi nel tempo.
Ma la fame era tanta.
Con un coltellino si raschiavano quei pezzetti e alla sera in baracca si cucinava tutto in una gavetta, producendo un brodo che prima della bollitura veniva ingerito senza pensare a infezioni o a intossicazioni.
A luglio 1917 viene l'ordine a Lorenzo con la sua compagnia di andare a 50 km. fuori Belgrado, in una località chiamata Babe, in una miniera di piombo con annessa fonderia.
La fame è nera!
Ma l'esercizio di sopravvivenza era una pratica che ogni buon contadino aveva per genetica nel sangue,le lacrime non facevano parte del repertorio, ne il lamentarsi che degradava la forte dignità di un giovane orgoglioso.
Beveva acqua, in modo da gonfiarsi, dandosi un senso di sazietà. Ben presto il fisico di un ragazzo che pesava 95 kg. cede, gli viene una dissenteria accompagnata da febbre. Ricoverato all'ospedale di Belgrado gli viene diagnosticato il tifo.
Entrò nel reparto di febbre tifoide, l'odore forte del cloro lo stordisce,alcune infermiere parlano italiano, i letti sono disinfettati e i pidocchi non lo tormentano come in baracca ma li si sente perso, lingue diverse, vite agonizzanti, muri grigi, luci e penombre che turbinano nella sua delirante realtà.
Conosce un italiano che ha il tifo ma per sua sfortuna non glielo riconoscono, si confidano sulla loro malattia. Pallido, esangue ma ancora lucido il compagno gli confida con disarmante logica:
- " Lorenzo sai che ti dico?...Qui ci basterebbe un cucchiaio di olio di ricino per mandar fuori questa acqua ferma!"
Il giorno dopo non lo vide più, seppe poi che era morto. Prima di andarsene gli aveva regalato la soluzione del suo problema.
La febbre continuava a salire e ormai era talmente debole da pensare di non potercela fare. Scorge un infermiere di etnia italiana che è in visita, lo chiama con energia, gli chiede con fermezza se aveva della purga ma l'altro allargando le braccia impotente gli risponde che ha solo del sale inglese (solfato di magnesio).
Lorenzo non ha alternativa, chiede di portargli un cucchiaio di sale inglese, cosi il sanitario lo accontenta. Bevuto d'un fiato il medicinale poco dopo gli sforzi del vomito lo liberano dal putridume, la febbre scende di colpo anche se ci lascia deto che: " ...rimango come un cerotto sfinito"-
Questo sarà solo il primo di altri tre ricoveri, ma ci chiarisce subito il detto, aiutati che il ciel t'aiuta, della tempra, della forte volontà di questa gioventù che in patria era in sospetto di tradimento ma che ha combattuto per l'Italia.
Lorenzo supera prove dure, raccontate nel suo diario come l'odissea di chi non ha scelto il suo percorso ma lo ha attraversato con dignità, cercando la fortuna, convinto che Dio non lo avrebbe abbandonato, perchè un ragazzo di 21 anni ha il diritto di vivere.
Le parole scritte ormai settantenne non si pregnano di retorica, ne di giudizi, sono l'onesta cronaca delle cose essenziali e se cedimento c'è stato, è per il sentimento di meraviglia per la natura che anche sotto le bombe, anche nell'acre odore di vite bruciate, anche nell'atroce lamento dei moribondi lo incanta, con un tramonto o con un viale di gelsi, o il pergolato di uva o un campo di spighe chiazzato di vermigli papaveri che rinnova il miracolo del creatore.