Filippo
Sguardo privo di speranza
Animo colmo della sua stessa assenza
Filippo cuore solo
-“Grazie”. Ritirò frettolosamente il resto ed uscì con la sua bottiglia di birra sotto il braccio.
Aveva l’andatura insicura di chi su questa terra è solo di passaggio e gli occhi fissi al cielo a racimolar certezze. Il suo sguardo non andava mai oltre le nuvole.; lui temeva l’infinito, temeva quel suo sentirsi briciola senza contorni, porporina in un intero firmamento. Lui temeva l’idea di non trovarsi inscritto in un perimetro ben definito, di non poter guardare oltre perché quell’oltre sarebbe stato lui.
Filippo amava il mondo e del mondo le creature, amava la natura, le piante e gli animali,
amava le favole ed i racconti, amava farsi amare ma non amava sé.
La notte scacciava la paura del buio accovacciandosi all’ombra di un lampione e la mattina camminava incontro al sole ed annientava la solitudine baciando con passione le sue innumerevoli bottiglie di birra.
Lui non sapeva cosa volesse dire casa, sapeva solo che, ovunque si trovasse la sua casa era altrove.
Un giorno si ritrovò sommerso tra le macerie di una vita crollata.
Perso il lavoro la moglie lo lasciò. Non le rimaneva che se stesso e Napoleone, un gatto lunatico ed opportunista, decisamente troppo poco per non desiderare un cambiamento radicale di vita.
E fu allora che lasciò questo niente, che era tutto ciò che ora aveva, e partì.
Rimase inizialmente nei dintorni della sua abitazione come un cucciolo che non possiede ancora l’esperienza né il coraggio per allontanarsi dal grembo materno.
La gente lo riconosceva e passando lo additava.Lo compativa, sporco com’era, nelle sue vesti lise,
al mento barba incolta e tutt’intorno l’aspra scia di un acre odore di selvatico.
Filippo si crogiolava in quell’atmosfera di compassione come se riuscisse a ricavarne quelle attenzioni affettive che ora gli mancavano. Con il tempo realizzò che si trattava solo di pietà, di un sentimento emotivamente sterile, che non arrivava a nulla.
Fu allora che si vestì di orgoglio, compagno fino ad allora sconosciuto, e divenne schivo e arcigno, poi si allontanò.
Quando conobbi Filippo aveva la pelle arsa dal sole delle sue calde giornate all’aperto ed era chiuso nel mutismo ostinato di chi dalla vita ha ricevuto solo delusioni.
Trascorreva diverse ore su una panchina dei giardini pubblici, sempre la stessa, ora sdraiato, ora seduto. La mattina era sempre lì, sembrava il suo angolo di paradiso, un paradiso spento, vuoto di entusiasmo e colmo di paure. La solitudine era la paura più grande, la solitudine non intesa nel senso di vicinanza fisica,quella gli interessava poco. Filippo aveva il terrore dell’abbandono emotivo, inteso come assenza di una persona da lui amata che fosse per questo in grado di stimolare i suoi sensi. Quello di possedere una personalità solo al di fuori di lui era sempre stato un suo grande limite. Filippo sembrava un pane di creta alla ricerca di uno stampo, tanto irrilevante ed insignificante da solo, quanto utile e piacevole una volta assunta una forma ben definita. Il suo bagaglio emotivo si plasmava all’interno di un affetto assumendone forma e colori. Ed allora Filippo diventava sorprendentemente vivo e vivace, presente, disponibile, frizzante, un uomo pieno di entusiasmi e di capacità di godere, una persona affidabile ed altruista, generosa e allegra quel tanto che basta per lasciare un po’ di spazio anche a quel velo di tristezza indispensabile per una vita vissuta nella sua interezza, quello spicchio di tristezza che è indice di sensibilità. In realtà aveva una sua personalità, anche ben definita ma esisteva a tratti, si accendeva e si spegneva all’occorrenza come una lampadina e, senza amore perdeva forma, come un liquido al di fuori della sua bottiglia.
Su quella panchina lui cercava un appiglio che lo facesse sentire meno vuoto, meno inutile. Da lì osservava quello che ormai era il suo mondo, il mondo dal quale assorbiva quel minimo di energia che gli permettesse di respirare. Godeva dell’affetto che abitava in quel parco, che si depositava al tramonto quando le giovani coppiette vivevano i loro primi entusiasmi d’amore e al mattino negli sguardi d’intesa tra mamme e bambini e si odiava. Si, Filippo si odiava per questa sua debolezza, per questo suo sentirsi sempre bottiglia in mare aperto alla ricerca di un messaggio importante da trasportare in qualche parte del mondo. Avrebbe voluto una sua indipendenza, una forza interiore rivolta solo a se stesso, una buona dose di sano egoismo. Invece si sentiva immerso nella precarietà e nell’incostanza. Il carattere effimero di tutte le cose lo rendeva instabile e fluttuante e lui si odiava.
Lo vedevo sempre sulla panchina, con la sua bottiglia di birra ed un taccuino.
Lo vedevo scrivere, rileggere ed ancora scrivere. Un giorno lo vidi parlare. Era ubriaco e discuteva con se stesso, sempre più animatamente, al punto che riuscii a distinguere ciò che diceva…”Bisogna sempre essere fieri del proprio modo di essere ed averne stima perché nella vita gli altri possono sempre fuggire ed allontanarsi da te ma tu mai da te stesso, mai, e questa è un’atroce condanna”.
Fu l’ultima volta che lo vidi ma su quella panchina ne trovai una traccia. C’era un foglio ingiallito, consumato dal sole. L’inchiostro era lavato dalla pioggia che aveva risparmiato poche parole:” nella vita si arriva ad un momento in cui si deve mettere un punto…….” E poi niente più.
Ho sentito un’improvvisa mancanza ed una fitta come se il suo ricordo avesse divelto un portone di cuore.
Non rividi più Filippo ma credo e sento che dopo un punto si rinasca altrove. Lui è dove c’è musica e carica emotiva, dove c’è profondo spirito di umanità…
E dentro me lui è sdraiato, fermo in un angolo di cuore.