La puzza dell'amore - Capitolo IV
Stampato
da : Concerto di Sogni
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Stampato il:
22/12/2024
Tema:
Autore Tema: Luigi Mannori
Oggetto:
La puzza dell'amore - Capitolo IV La puzza dell' amore
Inserito il:
08/10/2006 19:31:58
Messaggio:
La casa esternamente voleva apparire più che altro una villa, arricchita da un ampio porticato che delimitava una veranda architettonicamente ben rifinita ma forse un poco disadorna, era composta da tre appartamenti sovrapposti, grandi ed arredati con cura e ricerca estetica, indirizzata più ad ostentare ricchezza che a trasmettere ospitalità.
Il mio basso, decisamente ingombrante, aveva destato a prima vista la meraviglia dei presenti e mi aveva “accusato” sicuramente più bravo, proprio per tanta originale disabitudine a vederne in circolazione.
Pupina conosceva tutti ed era stata accolta come l’amica più antica e più cara ed anche se questo mi faceva piacere riuscivano a mettermi a disagio per le troppe attenzioni rivolte, le frasi già pesate e curate, i complimenti per un mio passato che in fondo conoscevano solo per “sentito dire”, ma che nessuno desiderava mettere in discussione, né osava controllarne la fattiva esistenza, anche perché la presenza di un “professionista”, come lo intendevano loro, dava più importanza all’orchestra: la ”voce” della mia partecipazione al gruppo del Boss, stava già raggiungendo i concorrenti, nei paesi vicini e costituiva motivo di conversazione, coltivazione di invidie e maggior interesse degli impresari.
Prima di iniziare le prove, il Maestro aveva fatto ascoltare a Pupina una “musicassetta” con registrate le canzoni che avrebbe voluto farle ballare, ma lei le aveva rifiutate, dichiarandole insoddisfacenti.
“Non ho tempo per scrivere altri arrangiamenti”, aveva replicato il Boss, e Pupina, quasi non aspettasse altro, aveva sbandierato che fossi io a stenderli, che era la mia principale attività e sicuramente gli avrei realizzato un ottimo lavoro.
Il Boss non sembrava molto convinto di quanto avrei potuto presentargli ma, “sempre purchè non gli avessi procurato del lavoro in più”, mi aveva permesso di “provare”.
Nell’ attesa di consumare il forte ritardo che le due trombe stavano riuscendo ad accumulare, avevo colto l’occasione di conoscere gli orchestrali ormai miei colleghi, ma non riuscivo ad introdurmi nelle loro conversazioni, un po’ perché parlavano solo in dialetto stretto, ed un po’ perché troppo legate a tutti gli avvenimenti che avevano vissuto insieme, che alternavano con le più bellicose intenzioni verso le orchestre concorrenti, alle quali spesso e volentieri dedicavano aspre critiche ed esilaranti commenti.
Il mio arrivo era stato preceduto da una presentazione, che mi voleva come una sorta di genio, diffusa dall’Antropofago, forse per accaparrarsi lustro e prestigio essendo un mio “parente”, anche se acquisito molto “alla lontana” ed era forse per questo che percepivo quel senso di viscido, proprio delle occhiate incredule ma rispettose, di chi non sa come comportarsi, di chi non vuole credere possibile tanta presenza vicino a lui, ma al tempo stesso teme che possa anche essere vero ed in attesa di capire come atteggiarsi, non azzarda alterare l’equilibrio di tanti dubbi.
A questo punto sarà bene dare una giusta dimensione alla mia figura, per non indurre il lettore in una fiera di confusionari abbagli, dovuti al fatto che la realtà che sto descrivendo, è scaturita in un mondo particolare, che con la “professionalità”, intesa per il suo significato intrinseco, non ha niente a che fare, un mondo di giudizi “vangelizzati” ma scaturiti sempre da menti completamente, ma non consciamente, ignoranti in fatto di spettacolo e musica.
“Non ero certo un genio, ma è indiscutibile che avevo raggiunto un ottimo livello di preparzione, certamente superiore alla media, arricchito da 23 anni di professione espletata sempre con musicisti di prim’ordine, dai quali avevo saputo attingere un’esperienza non comune, pari comunque ed una molteplicità di elementi che vive ed opera nel reale ambiente dello spettacolo, ben lungi dal surrogato che stiamo descrivendo.
Ho avviato lo studio della musica nel 1956, insieme al corso di violino, che ho dovuto abbandonare nel “60, anno in cui ho cominciato a lavorare, sempre come orchestrale, ma suonando il “basso”, perché a quei tempi, chi frequentava il Conservatorio di musica, non poteva suonare il proprio strumento in pubblico prima del conseguimento del diploma: a più riprese ne ho riavviato lo studio, che non ho comunque saputo portare a termine, perché troppo impegnato, oltre che dal lavoro, anche dalla scuola “regolare”.
Nel 1963 ho iniziato lo studio del canto e dell’ armonia, diventati un’esigenza professionale, ed ho potuto avviare parallelamente un’intensa attività discografica, come contrabbassista, e teatrale, come “orchestrale di buca”.
Nel 1964, essendomi diplomato in ragioneria, e godendo quindi di una maggiore libertà di azione, ho fondato un mio gruppo musicale e da allora, fino al “77, li ho trascorsi come “capo orchestra”, riuscendo a girare, oltre che tutta l’Italia, tutte le Americhe ed il Nord Europa: unica eccezione, il “71 e “72, poiché la “perdita” di un’esame all’Università, mi aveva fatto rientrare fra quelli che dovevano adempiere agli obblighi della Leva militare.
Dal 1978 in poi, ho lavorato prevalentemente come “arrangiatore discografico”, senza rinunciare comunque a molteplici esperienze come Direttore di Perodici, regista e produttore nei settori teatrale, radiofonico e televisivo, che mi hanno ricambiato con discrete soddisfazioni, anche nelle vesti di autore e compositore”.
Ma chiudiamo questa parentesi per rientrare nei ranghi, e riaffaciarsi in quella sede ove si stavano aspettando due trombe per iniziare a “suonare”.
Non bisogna dimenticare che il rischio di essere “protestato” (termine in uso nel nostro ambiente per indicare “licenziato” o meglio, “non accettato”), rasentava, dal mio punto di vista, il livello di guardia, per cui avevo ringraziato il cielo per la presenza di un amplificatore, sul quale avrei dovuto allacciarmi con il mio strumento (avevo trascurato di specificare che era “elettrico”), sufficientemente scadente da mimetizzare i miei suoni, la mia prevedibile carente capacità di intonazione e l’impossibilità di individuare le posizioni con la rapidità e la decisione necessarie: per tanta apprensione, anche se validamente celata, mi vergognavo “come un tacchino”, soprattutto perché in tutta la mia vita, non avevo ancora provato il “giogo del protesto” e mi sarebbe dispiaciuto se tale esperianza avesse potuto avvenire fra quattro mura scalcinate, a circa settecento chilometri da casa, con una macchina carica come un “carro pofughi” e con 150 lire in tasca, poiché di tanto, a quel punto disponevamo.
Dato che il ritardo delle trombe insisteva nel non trovare un termine e che tutto sommato il programma avrebbe dovuto coprire lo spazio di due ore e mezza, per durata certamente pari ad un concerto, considerando oltre a quella del soggetto, anche l’esibizione del “gruppo di spalla” (definizione in gergo di chi ha il compito di scaldare una platea al “nome” che chiude gli spettacoli), il Maestro aveva deciso di iniziare le prove con gli elementi presenti.
La formazione dello show era composta da orchestra e “donne”: l’orchestra a sua volta, era costituita da una batteria, un contrabbasso, un tastierista munito di piano elettrico, tastiera Logan per l’effetto violini, organo e pieno d’orchestra più un sintetizzatore, tre trombe in si bemolle e tre saxofoni, di cui due contralti ed un tenore, che lo stesso Maestro impugnava.
Le donne erano sei, più un “Jolly” che sarebbe venuto ogni tanto come “attrazione economica”, che poi era la moglie del Maestro, che noi chiameremo “Tirabuscion”, visto che il suo “cavallo di battaglia” ed unico brano che le abbia sentito esibire era appunto la canzone “Ninì Tirabusciò”.
Le altre donne erano impiegate, quattro come cantanti, una come “portacartelloni” (tipo le girls che avvisano del numero dell’imminente Round negli incontri di pugilato, con la variante che sul cartellone recava impresso il nome del “quadro” che il pubblico stava per subire), ed infine Pupina, quale ballerina solista; si poteva anche assistere all’esibizione di un “balletto” composto, per motivi di alternanza e fluidità della scena, da tre delle cantanti più la portacatelloni, che sostituiva a rotazione la quarta, impegnata nel proprio turno come cantante.
Questa la presentazione del palinsesto dello show, che il Maestro aveva fatto precedere l’inizio materiale della prova, avviato con lo studio delle sigle di apertura e chiusura e di uno stacchetto “elaborato” sulle note di “Viva la Rai”, da utilizzare come sottofondo per la “passeggiatina” della portacartelloni, indi con una “fantasia classica” che di fantasia ne aveva tanta, ma solo per identificare qualcosa di classico in quello che pretendeva esprimere.
A questo punto erano arrivate le due trombe mancanti, imbarazzati più perché anch’essi erano nuovi all’ambiente, che per il ritardo ed avevamo ricominciato tutto daccapo.
La prova si era conclusa con un brano per sola orchestra, “La danza delle spade” (identificata sul loro spartito “La danza delle sciabole”, forse per supplire sulla carta a quella finezza che nei suoni non s’intravedeva neppure) ed una “Medley” di “revivals americani” che avrebbe poi dovuto cantare la “Vedette”, che in queste pagine riconosciamo col nome di Regina (evidente indizio sulla priorità di quest’ultima rispetto alla “moglie-vedette economica” Tirabuscion).
Al termine dei lavori, mi ero informato presso le trombe, su quale estensione potessero coprire (essendo questo strumento troppo soggetto al livello di studio raggiunto, all’allenamento, all’esperienza ed al tipo di studio effettuato), per sapere come regolarmi nell’uso dei “fiati”, negli arrangiamenti che avrei dovuto elaborare per Pupina, e mi ero quindi recato dal Maestro, per conoscere il destino che mi stava aspettando.
Contrariamente a quanto i miei timori avevano suggerito, si era dichiarato entusiasta di come mi ero rivelato ed anzi, si era fatto premura di informarsi se mi trovavo bene, scusandosi per il caos generale, precisando che si trattava in fondo di una prima prova, ma che in seguito sarebbe cambiato tutto per il meglio: pareva avesse acquistato anche un po’ di fiducia per quegli arrangiamenti che dovevo preparare, ma si era raccomandato di completarli in due o tre giorni con la motivazione della prossimità del debutto.
Durante le prove ero stato subissato di complimenti e pubblicamente additato quale “meraviglia vivente” da un omino, che poi sarebbe stata le terza tromba (almeno secondo il mio concetto professionale ma che in realtà si vantava quale “caposezione”), parente prossimo del Boss ed ai suoi favorevoli giudizi, si era aggiunto il Regino (al secolo l’organista….pardon, organaio,,,,,,organiere…..mah!) che si era dichiarato ben felice di sentire finalmente uscire da un basso, note e non rumori, dichiarazione che tradiva un “gran orecchio”, se gli permetteva di riconoscere “tanto”, in mezzo all’accozzaglia di suoni che generava lui.
Si era improvvisamente scatenata la “competizione al dialogo col bassista”, ma tutti mantenevano un contegno da “Filarmonica di Berlino”, gareggiando nel dimostrare e nel vantare la maggiore esperienza e la più completa preparazione, tanto che pareva, a fine prova, fossero consegnati i premi ai migliori classificati, e ciò mi aveva impedito di trovare il desiderio di familiarizzare, tranne che col batterista, l’ unico a proporre una conversazione che potesse favorire l’approfondimento della conoscenza.
Questi era un ragazzo intorno ai 18 anni, fisico sportivo, sguardo e modi scattanti e simpatici, dominati da un qualcosa di impercettibilmente esotico, modesto a tal punto da apparire autolesionista, timido e riservato, forse alla ricerca di qualcuno con cui scaricare una latente esuberanza, troppo frenata dalla sua insicurezza e da un generale senso di inferiorità, sia personale, sia professionale che, mescolati a quel curioso e nervoso comportamento che lo caratterizzava, hanno suggerito il nome “l’Apache”.
Tornando a casa ( tra la casa del Boss ed il Feudo forse non correvano sessanta metri), avevo avvertito nell’abbraccio di Pupina, tutta la fierezza e la felicità nate dal rispetto che ci stavamo lasciando alle spalle.
“Te l’avevo detto che puoi mangiare la pappa in testa a tutti quanti messi assieme!” Era stato il suo primo commento ed in effetti anch’io mi ero decisamente rilassato visto che il mio stato di preparazione (o meglio, di impreparazione), si era già dimostrato sufficiente a farmi riconoscere come virtuoso, ma la mia serietà, mista alla giusta dose di “presunzione e vanità professionali”, mi avevano imposto di correre ai ripari, per riportarmi a quei livelli che già in passato avevo saputo raggiungere ma che ora potevano esserne testimoni unicamente i nastri delle mie registrazioni discografiche che mi seguivano sempre, un po’ per naturale affezione ed un po’ per motivi di studio e sperimentazione.
La cosa più importante era la consolidata coscienza di aver scaricato, almeno provvisoriamente, il volante dei camions, le casse del baccalà, le cazzuole da muratore ed i cannelli da idraulico, per tornare a guadagnarmi il pane quotidiano sulle onde della musica, e nonostante fosse alquanto inquinata, era pur sempre l’iniezione di fiducia per il rischiudersi del sogno di tutta la vita: al limite avrei dovuto nuotare sott’acqua, in attesa di una corrente più limpida, ma se non si nuota, come si può sperare di incontrarla?
Le mie mani erano diventate troppo dure e le dita eccessivamente deboli, per cui avevo deciso di aumentare l’altezza delle corde del basso, durante gli esercizi di allenamento, per obbligarle ad uno sforzo maggiore, anche se questo avrebbe comportato un’alterazione (comunque proporzionale) di tutte le posizioni sulla tastiera; per ovviare quest’ultimo inconveniente, avevo posto dei punti di riferimento, realizzati con nastro adesivo bianco, posti ben visibili a fianco della tastiera stessa, in modo da aiutare l’occhio a raggiungere le nuove posizioni in un tempo più breve.Dovevo altresì rispolverare tutti i miei volumi di solfeggio, ma l’avevo previsto e li avevo portati con me.
Tutto questo, comunque, pareva solo un’esigenza personale dettata dalla mia pignoleria, poiché in effetti non mi era ancora stato presentato un solo spartito per contrabbasso ed avevo dovuto arrangiarmi ad usare le solite “tracce del canto” con aggiunte le siglature degli accordi, che costituivano il fascicolo del Regino ma, ricordando le parole del Maestro, comprendevo benissimo la disorganizzazione che inizialmente colpisce gruppi di questo tipo, distratti da una miriade di altri problemi, tutti fondamentali perché maggiormente visibili.
Del resto anche le prove si erano svolte molto superficialmente, senza curare né l’intonazione, né la ricchezza e la precisione delle ritmiche, i loro incastri e la loro costanza: più che altro avevamo provveduto a controllare che le “annotazioni” scritte fossero “interpretate” tutte, con un “pressappochismo” giustificato dall’approfondimento delle difficoltà tecniche, maggiori negli strumenti a fiato, e dalla difficoltà a “contenere” l’intonazione, fra questi ultimi, vista la coesistenza di strumenti ad ancia (saxofoni) e ad imboccatura fissa (trombe), combinazione che costringe ad una maggiore attenzione, già i musicisti veri.
L’insieme, in ogni caso, mi tornava comodo, perché mi avrebbe permesso di recuperare la forma senza essere troppo notato, con un tempo maggiore a disposizione degli esercizi che già avevo programmato per raggiungerla.
Raggiunto il Feudo, dopo aver consumata la cena privati della compagnia dell’Antropofago, che si faceva vivo solo quando non sapeva più cosa fare ( o meglio, quando il suo ozio perenne decideva di essere trasferito altrove), mi ero messo subito a lavorare per gli arrangiamenti che sarebbero serviti a Pupina, la quale aveva scelto, per i due balletti ritmici, “Cuba” ed una “Medley” (termine indicato per l’unione di più canzoni in un’unica esibizione) composta da “Knock on wood”, “Gimme some more” e “Venus”: i brani avrei dovuto cantarli io con l’appoggio di un coro, che avrei dovuto individuare ed allestire fra i colleghi disponibili.
Sul tardi (meglio, molto tardi, se ben ricordo intorno alla mezzanotte) era giunto l’Antropofago, preannunciato dal suo inseparabile odore di “birra bevuta”, e non aveva perso tempo per incoraggiarmi a commentare, per non dire criticare, l’abilità media dei colleghi, giudicandoli squadrati, stonati, antimusicali ed anche scadenti da un punto di vista personale: solo il Boss era bravo ma, a sentir lui, solo tecnicamente perché per tutto il resto era una frana.
L’unico pregio che gli riconosceva, fra gli attributi extraprofessionali, era la gran disponibilità di mezzi e di conoscenze.
Ed il bello era che in effetti lui non si distaccava molto dagli altri, anzi, per essere sinceri, come strumentista era il più scarso di tutti ma, pur mettendo in evidenza che non era il migliore, la sua autocritica tendeva ad incontrare qualche “elogio-consolatorio”, scaturito per eccesso di pietà e buonismo ossessivo da chi interloquiva con lui.
Avevo cercato di non pronunciarmi perché non volevo offenderlo e quello che pensavo di lui, come orchestrale, avrebbe potuto quantomeno irritarlo, per cui desideravo prima fargli un discorso serio, forte della confidenza che il rapporto di semiparenti ci metteva a disposizione e della favorevole benevolenza che dimostrava, ossequiandomi e reclamizzandomi come in realtà stava facendo, senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Mi aveva parlato male di tutti ma soprattutto della Regina (che non avevo ancora conosciuto) ed in proposito mi aveva messo sull’avviso che avremmo dovuto trattarla con particolari riguardi, perché era l’amante del Capo ( tradotto, del Maestro o Bossetto).
Avevamo trascorso gran parte della serata a ridere del Regino e della sua “tontaggine”, ma il mio riso era diventato un po’ amaro, anche se mi sforzavo di non tradirne l’educata artefazione: non ho mai sopportato l’ipocrisia, l’arrivismo e la cupidigia e non ho mai potuto fare a meno di ergermi difensore delle sue vittime, anche perché nella mia vita, ne sono sempre stato vittima anch’io, e non sono pochi i limiti che queste parvenze di sentimenti hanno contrapposto alle mie ragioni di vita, né le sofferenze che mi hanno costretto a vivere.
Il Regino, in fin dei conti, cominciava a diventarmi simpatico, ma ero riuscito a svicolare possibili chiarimenti, afferrandomi al dovere nei confronti di Pupina: posti da parte i suoi problemi, avevo imposto di dedicarmi agli arrangiamenti.
Avevo lavorato tutta la notte, ed al mattino il primo dei due brani era finito e copiato: i coabitanti erano andati a dormire alle tre del mattino e ciò mi aveva fatto perdere un sacco di tempo.L’unico inconveniente che mi aveva tormentato tutta la notte era il freddo: come già evidenziato, la casa non era riscaldata, ma i feudatari avevano collocato nel tinellino una stufa a gas G.P.L., che più che altro, si era dimostrata capace di recar danno, in quanto posta a mezz’altezza, incapace di agire per un raggio superiore ai 90 centimetri e inspostabile per ovvi doveri di educazione, non trattandosi di casa mia (unica circostanza fortunata).
Al mattino i miei piedi erano praticamente surgelati, per il continuo, inevitabile contatto con pavimento in grado di competere con le temperature del “ghiaccio secco”, mentre l’orecchio sinistro, unica testimonianza della funzionalità della stufa, pareva sufficientemente cotto per essere “sfornato con le patatine”: solo rammarico, non averlo adornato con un po’ di rosmarino ed il classico dischetto di limone, per renderlo più saporito e presentabile.
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