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Vera

Stampato da : Concerto di Sogni
URL Tema: https://www.concertodisogni.it/mpcom/link.asp?ID ARGOMENTO=15844
Stampato il: 22/12/2024

Tema:


Autore Tema: July
Oggetto: Vera
Inserito il: 23/07/2007 21:37:59
Messaggio:

Vera chinò il capo, facendo ci che la voluminosa chioma castana le schermasse il viso – la cui pelle era chiara chiara come latte –dai raggi del sole; erano i raggi caldi di un pomeriggio di luglio, ed ella si esponeva, non troppo a dire il vero, perché protetta dalle tegole della veranda.
Era seduta su un angolino di un divanetto in vimini, poggiata sopra cuscini beige e con un libro intitolato “La ferita dei non amati” in grembo.
Aspettava un bambino, ed era felice. Non sapeva ancora se maschio o femmina, ma era lo stesso felice.
E come spesso le accadeva quando quell’emozione così poco familiare le si diffondeva dentro, d’un tratto era presa dalla paura che la sua gioia si dileguasse all’improvviso, dissolvendosi nel nulla come una bolla di sapone.
Si trovava a pochi chilometri dalla spiaggia, ed albergava in una casa affittata apposta perché potesse trascorrere i mesi della gravidanza lontano il più possibile dal lavoro e dallo stress; suo marito, che in quei giorni era in ferie, la raggiungeva comunque, nonostante lavorasse lontano, tutte le sere.
Le venne da pensare che forse non era giusto che lei in quel momento avesse tutto, o così le sembrasse, mentre altri non avevano nulla.
Erano quei momenti, che di nuovo la facevano sentire sola.
Erano quei momenti, quelli in cui ripensava a Nora.
Dal soggiornino in cui aveva lasciato acceso lo stereo si dispiegavano nell’aria le note di una vecchia canzone della Mannoia.
“…e dalle macchine per noi, i complimenti dei play boy ma non li sentiamo più se c’è chi non ce li fa più…”
Nora era sua sorella. La sua sorella minore e sfortunata, che se n’era andata a diciannove anni.
Vera non riusciva a non ripensare a lei e a qull’ultimo anno trascorso insieme senza sentire il sapore amaro del senso di colpa; erano passati anni, ormai, eppure ancora ella poteva ascoltare – quando era sprofondata nella solitudine e nel silenzio – il rumore sordo e inesorabile del senso di colpa che si aggirava nelle camere della sua coscienza, simile ad un animale ferito.
Qualcuno aveva detto, ai funerali, che la verità era che Nora era sempre stata troppo debole e poco attaccata alla vita. Era un’osservazione tanto superficiale quanto comoda.
L’unica verità che una panoramica superficiale le consentiva di raccogliere era che sua sorella diventava ogni giorno più magra; che ogni giorno saltava i pasti con una scusa nuova; che ripeteva di non aver appetito. E che nessuno – né i suoi genitori, che come al solito non c’erano pur essendo presenti – né lei che sin da quando erano piccole aveva sempre promesso a sé stessa di proteggerla da tutto e da tutti, né nessun altro al mondo aveva detto o fatto niente per raccogliere i mille perché che aleggiavano attorno a una scelta del genere.
Nora si era sentita male a casa loro; c’era solo lei in casa, quando era successo. In un tempo e in una situazione lontana anni luce da quella distesa di sole, quando ancora la creatura che portava in grembo – e che aveva promesso di proteggere, a tutti i costi – non era neppure l’ombra di un pensiero nella sua mente, la voce di sua sorella si era levata nel vuoto, sottile come un lamento, coperto dal cigolìo della porta della camera che si apriva.
“Vera…..”
Vera era seduta al pc e non aveva risposto subito.
“Vera…non sto bene”
Vera aveva sollevato il viso, ma non troppo per evitare di inquadrare nella sua interezza il corpo filiforme ed il viso emaciato – uno spettacolo squallido e minaccioso assieme - e le aveva chiesto:
“Che c’è?”
Non c’era stata una risposta. Semplicemente Nora aveva avanzato, pesantemente, col volto pallido come un cencio, fino alla scala, e lì era successo tutto.
Lì aveva perso i sensi, o forse, priva di forze, si era lasciata andare, ipotizzava vera; tanto la verità non si sarebbe mai saputa.
No, perché i pensieri di Nora, mescolati alle sue emozioni e chissà, forse ai sogni che un tempo erano fioriti nel suo cuore, erano rotolati giù assieme a lei.
Gli istanti successivi erano per Vera i fotogrammi sempre vividi della pellicola di un film noir, il peggiore che avesse visto, il più orrido e grottesco in assoluto. Il corpo di Nora era rotolato giù, per la lunga scala in marmo, come un pupazzo le cui mani bianche ed i capelli di paglia sfuggivano tragicamente all’inquadratura. E chissà cosa doveva aver pensato, povera Nora, mentre la sua vita rotolava giù, e le sue dita sottili si piegavano all’impatto col marmo duro della scala.
Poi il corpicino magro e inerme aveva toccato terra. Vera si era precipitata ai piedi della scala, aveva visto una pozza di sangue allargarsi sotto il capo della sorella, aveva fissato per un attimo – che in realtà le era sembrato un secolo – i suoi occhi vitrei persi nel vuoto…e poi aveva urlato.
Aveva urlato con quanto fiato aveva in corpo, portandosi le mani ai capelli e pregando che qualcuno dei vicini la udisse ed accorresse.
E dopo che aveva urlato era corsa fuori a chiamare aiuto, nel modo sconnesso e isterico di una bimba terrorizzata, o come un gatto selvatico spaventato dagli umani, e non come una studentessa universitaria di medicina di vent’anni, qual’era.
Il resto non lo ricordava. Era come se gli istanti successivi fossero stati fagocitati dai primi, cosicché di essi negli anni a venire non si sarebbe fatta avanti neppure una sparuta sagoma.
Per anni si era svegliata di soprassalto la notte, madida di sudore perché aveva di nuovo sognato quegli occhi vitrei che la fissavano, in un misto di squallore e di pietà, e guardandosi attorno aveva scorto, nel buio, i contorni picei dei mobili e degli oggetti. Constatando che dentro quell’enorme camera lei e i ragni erano gli unici a respirare.
Per anni si era domandata se durante quella folle corsa stesse scappando dalla sorella morta o dal senso di colpa che, invischiante, già allora si levava. Per anni la domanda era stata questa; poi era diventata un’altra: stava già scappando da Nora quando evitava di sollevare troppo lo sguardo su di lei e sul suo corpo? Stava già scappando da lei quando rifiutava di leggerle addosso un problema?
Erano domande che come al solito si perdevano nel vuoto, come risucchiata dalla vita e dai sentimenti attuali. Ma che tornavano, con la loro crudezza, e il loro gravoso peso, quando un paziente da lei seguito moriva.
Tornavano a intervalli regolari, forse per tormentarla, forse per ricordarle i suoi errori, chissà.
Adesso la sua vita era un’altra cosa. Nora non ne faceva parte, eppure era come se una sua piccola parte fosse amalgamata dentro lei. Era come se i pensieri ed i sogni, quei boccioli taciti morti
violentemente nel ruzzolone giù per la scala, albergassero nel profondo del suo cuore.
Una frase di un film –La tempesta del secolo- che l’aveva particolarmente turbata, era quella pronunciata dalla voce fuori campo del protagonista-narratore che diceva di avere un’unica certezza, e cioè che nella vita si paga tutto. Se negli eventi che avevano condotto alla morte di Nora Vera aveva qualche colpa, una cosa era certa: aveva pagato. E lo aveva fatto a prezzo pieno.
Una delle domande che le erano sorte, in quegli anni, era se valesse la pena di vivere, per poi morire un pomeriggio di un giorno qualsiasi in un modo così stupido.
Chi muore in modo stupido si era detta una volta è chi sceglie di morire, anziché scegliere la vita. E subito aveva pensato che forse non a tutti era dato di scegliere.
Dalla radio giunsero le note di una canzone più recente.
“Sappi amore mio… che il brutto tempo non è sempre un temporale…che sei la pelle che ho deciso di tenere…sappi amore mio…sappi amore mio…”
Lei adesso aveva una vita nuova per sé e per suo marito, ed una che si formava per il bambino dentro di lei.
Era lei che l’aveva voluto, lei che l’aveva scelto.
Lei aveva scelto la vita.


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