ANNIBALE: A CHE SERVE VINCERE?
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22/12/2024
Tema:
Autore Tema: zanin roberto
Oggetto:
ANNIBALE: A CHE SERVE VINCERE? L'ULTIMA VITTORIA Le navi schierate all'ancora erano un centinaio, nel porto il vento aveva increspato la superficie turchina dellì'acqua, il mattino era limpido e l'aria, appena avvinata di salso, si spandeva nelle cambuse e sottocoperta. zanin roberto
Inserito il:
16/02/2008 00:27:54
Messaggio:
La flotta del re Prusia, signore della Bitinia,regione dell'Anatolia, si apprestava a salpare, c'era un conto in sospeso con il re di Pergamo, Eumene per la supremazia della regione, odierna Turchia, che contava amici e alleati influenti, in particolare Roma che iniziava a stendere i suoi tentacoli imperiali fino a quelle lontane terre.
Il Mar di Marmara sembrava un grande lago, dove stava per iniziare una ennesima rappresentazione, l'ultima, del grande condottiero cartaginese Annibale. In esilio, ramingo, di regno in regno a perorare la causa antiromana, ormai sessantenne, continuava a tenere fede al suo piano di combattere Roma e i suoi alleati nei limiti concessogli dal fato.
Siamo nell'estate del 186 a.c., il profumo del pane cotto nei forni si mescolava all'aroma delle spezie mentre un numeroso convoglio di carri sta arrivando rumoroso al porto, seguito da un polverone denso,scortato da una formazione di cavalleria leggera. Nella capitale Prusa, costruita da Annibale a una cinquantina di chilometri verso l'interno, il re aspetta notizie buone da quel vecchio guerriero a cui ha affidato il suo esercito. Il capitano del contingente scende da cavallo e si affretta a fare rapporto ad un anziano generale, avvolto nel suo mantello argentato, dove troneggia in caratteri oro, un elefante chiuso in un cerchio. E' pensieroso e lo sguardo penetra le menti, è forse il più geniale stratega che in quel momento vive nel bacino del Mediterraneo, la benda all'occhio sinistro lo rende truce ma il suo animo si è sempre nutrito di logica, astuzia, cultura, filosofia.
- " Saluto il mio generale. Come da voi comandato ho portato i duecento vasi in terracotta, dove le dobbiamo portare? " - rispettoso e soggiogato dalla figura del punico, l'ufficiale si era inchinato al suo cospetto.
- " Buon lavoro, capitano. Che ogni triremi ne abbia una decina a bordo, mi raccomando che nessuno apra o si avvicini a essi, intesi ? " - rispose distaccato ma cameratescamente Annibale.
Chinando il capo, il solerte capitano si congedò con reverenza uscendo dalla palazzina circondata da colonne corinzie mentre il vecchio generale si drizzava sulle spalle per alleviare dolori d'ossa che gli erano venuti con l'età. Uno schiavo persiano gli versò del vino rosso del Caucaso e scopri un vassoio bronzeo, intarsiato a figure feline, con fichi e datteri di Cartagine.
Annibale si strofinò l'occhio bendato e si tolse l'elmo pesante, si sedette su un comodo scranno e si dissetò, scrutò dalla finestra il mare e ne inspirò l'odore iodico, pizzicò dei datteri e si lasciò cullare dai ricordi per attimi infiniti.
Il suo esilio dopo la fuga precipitosa dalla venduta Cartagine,il tentativo di fare tenace propaganza antiromana,l'attivismo nell'intrecciare alleanze e trovare un oppositore alla dilagante potenza italica, la costruzione di due città, capitali di due re ospitali, iniziavano a pesare ma il suo morale era alto, ora aveva l'opportunità di battersi, come un tempo, contro Roma che sosteneva il suo attuale nemico,Eumene. File di arcieri si imbarcarono sulle navi, verso mezza mattina le ancore vennero alzate e le formazioni navali si incanalarono una dietro l'altra con le vele bianche gonfie di vento e i tamburi che ritmavano i colpi dei rematori. La schiuma prodotta sembrava un turbinio che salisse dal fondale, i vessilli della Bitinia, con le teste di tigre rosse su sfondo azzurro, sventolavano intrepide. L'ammiraglia era al vertice di una geometria triangolare e sul ponte, in piedi troneggiava il cartaginese Annibale, il vincitore di Canne, serio e concentrato, per lui la guerra non era una barbara mattanza, era un'arte, l'espressione di quell'ellenismo che aveva vaghezziato per decenni e che avrebbe dovuto riunire in un unico regno l'intero Mediterraneo.
Dov'era Alessandro ? Dov'erano le epiche gesta di quella epopea?
All'orizzonte la flotta di Eumene si disponeva alla battaglia, spavalda e impertinente, allargandosi in un ventaglio semicircolare, superiori in numero e ben equipaggiata dagli alleati romani che avevano un paio di navi da osservazione.
Il sole alto rifletteva sullo specchio dl mare il suo dorato vigore, erano ormai vicini, tutti i comandanti delle triremi Bitiniche guardavano ansiose Annibale, aspettavano trepidanti che anche il loro duce desse l'ordine di disporsi a ventaglio prima che fosse troppo tardi. Il generale si avvicinò alla sponda della nave, alzò il braccio e subito i rematori si fermarono, il rullio si stabilizzò, si chinò immerse la mano nell'acqua salmastra del mare e si bagnò la fronte, disse alzandosi rivolto ai suoi uomini:
- " Oggi il mare è buono che Melquart e Astarte ci abbiano in gloria!"
Segui un boato di tutti gli equipaggi, calvanizzati da quelle parole pronunciate dal più grande generale che quel tempo conoscesse. Il cuneo bitinico si stava per scontrare con le prime navi di Pergamo, Annibale deciso ordinò di caricare le catapulte sulle fiancate con i vasi di terracotta cosi segretamente custoditi.
Si avvicinarono sotto una pioggia di dardi e frecce avversarie, molti furono colpiti ma quando si trovarono all'interno dello schieramento navale di Pergamo le catapulte scattarono all'unisono, una strana pioggia di proiettili di ceramica volarono alti per schiantarsi con buona precisione sulle tolde delle navi avversarie.
Per un attimo il nemico si fermò, allo stupore iniziale, ebbe il tempo di rilassarsi e ridere della poca pericolosità dei proiettili bitinici, non avendo fuoco, ne forando o schiantando il fasciame delle loro navi, ma nel giro di pochi minuti la concitazione ebbe il sopravvento. Uomini che si gettavano in mare, remi che si scontravano rompendosi, prue che speronavano fiancate di navi amiche, la confusione e il terrore era divvampato più d'un fuoco alimentato dal vento. L'astuto Annibale aveva fatto riempire i vasi di terracotta con serpenti velenosi, una volta lanciati sul nemico chi non veniva morso era terrorizzato e abbandonava i remi e si tuffava in mare per cercare di salvarsi, il caos dilagò.
Quando gli arcieri del re Prusia scagliarono il loro attacco il nemico ormai disorientato venne annientato e nel volgere di un paio d'ore la vittoria fu totale. Le acque di quel piccolo mare, ai confini orientali, rimanevano calme e insensibili, come quelle ghiacciate del fiume Trebbia, o quelle limacciose e paludose del lago Trasimeno,o quelle del fiume Aufidus nei pressi di Canne, le acque avevano sempre testimoniato le sue imprese, bagnato con il sangue chi aveva osato opporsi a lui.
Rasentando la riva anatolica gli odori dei campi seminati a frumento, le lunghe distese di oliveti, gli venivano incontro,il vecchio leone, chinò la testa, impugnò la corta daga catturata ad un ufficiale romano tanti anni prima e strappato uno scudo ad un soldato, diede un colpo potente che risuonò come un gong.
Tutti si fermarono, in un attimo la stasi gelò la flotta, il solo occhio fulminava ogni sentimento, Annibale era triste, urlò:
- " Vittoria^...Tante, nessuna importante!"
Calava il sipario sulle sue imprese, il suo mito era ormai leggenda, qualche anno dopo gli restò solo il coraggio della resa al veleno. Roma stava diventando un impero gigantesco e Cartagine tra i palmeti e la sabbia si preparava a essere rasa al suolo.
Il tramonto infuocato incendiò le onde del Mar di Marmara, la costa frastagliata e i rilievi verdi dipingevano la tela della storia, la musica di strumenti a fiato si propagò fronte al porto, i gabbiani tormentavano le vele delle navi che attraccavano ai moli, donne gioiose gettavano petali di rose e al cartaginese gli mancavano tanto le solitarie ombre dei suoi palmeti, là nella patria di Didone dove lui non tornerà più!
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