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IL DOTTORE G.

Stampato da : Concerto di Sogni
URL Tema: https://www.concertodisogni.it/mpcom/link.asp?ID ARGOMENTO=17238
Stampato il: 22/12/2024

Tema:


Autore Tema: zanin roberto
Oggetto: IL DOTTORE G.
Inserito il: 20/01/2009 22:09:32
Messaggio:

ERA IL MIO DOTTORE

Spalle larghe, voce profonda, il camice bianco chiuso sul primo bottone, alla Pasteur, "il dottore" seguiva la lunga fila dei bambini di otto anni che venivano vaccinati contro la poliomielite, con il preparato Sabin. Lo zuccherino era un espediente che funzionava, ognuno di noi bambini temeva l'ambulatorio che era di norma luogo di siringhe, clisteri e invece quello era un appuntamento davvero ghiotto, il medico consultava da dietro grandi occhiali dalle spesse lenti una lista lunga e incompleta. Incuteva, in quei primi anni sessanta, il timore reverenziale di un severo superiore, burbero e umorale, ma che sapeva alternare battute allegre ad un incedere gutturale della voce.
- " Tu,...come ti chiami ?" - chiedeva autoritario e secco il medico.
- " Roberto !" - rispondevo con timore.
- " Roberto...e dopo ? " - sottolineava puntiglioso per strapparci il cognome.
L'odore di etere etilico e di alcool si mescolava a quello dei prodotti iodici che facevano moda in quegli anni, ci si guardava attorno come uccellini che abbiamo perso lo stormo, alla ricerca di qualche oggetto che ci distendesse dalla tensione, cotone idrofilo, baccinelle, garze, cerotti, pinzette, pomate e pastiglie colorate, tutto ci aggrediva insolito e potenzialmente ostile. Il dottore non parlava molto ma il suo sguardo seguiva ogni movimento, nulla gli sfuggiva, brontolava di tanto in tanto, ma non si scomponeva.
Quelli erano tempi in cui il medico condotto era una autorità in un paese di campagna, era il garante non solo della salute di un cittadino ma in un certo senso anche della salute della sua moralità. Quando tutto fini, scemò la tensione e il dolce rimase nel palato a mitigare le paure.
In un'estate, di quegli anni sessanta che riscaldavano la speranza, ragazzino me ne stavo girovagando per la grande casa di via Battaglione Gemona, in quello che era il soggiorno, giocavo, mi nascondevo sotto il tavolo per poi uscire vicino alla stufa e poi rotolarmi sotto le due sedie sdraio difronte alla televisione in bianco e nero quando mi setii un fastidio nell'occhio, un granellino che mi pizzicava. Mi dovevo guardare allo specchio, ma l'unico raggiungibile era appeso ad altezza d'uomo nella parete vicino alla finestra che io non potevo raggiungere con la mia altezza.
Presi una sedia dalla grande tavola in marmo bianco al centro della stanza e la spostai di mezzo metro difronte alla specchio, per salirvi su e indagare sulla fonte del mio fastidio. I miei otto anni, non mi concedevano molta esperienza e mi posizionai sul bordo della sedia in un equilibrio molto precario, poco dopo scivolai di lato e caddi battendo il sopraciglio destro proprio sul bordo levigato duro del tavolo di marmo, mi lacerai con un taglio profondo che sanguinò con copioso flusso. Subito i miei genitori mi portarono all'ambulatorio del dottor G. per farmi tamponare quella la ferita, più da pugile che da ragazzino vivace. Le poche automobile in circolazione, la sicura professionalità del medico non induceva nessuno in quegli anni a chiamare il pronto soccorso, tutto si sitemava dal medico condotto. Una bella disinfettata, ...uhm che bruciore!....un paio di graffe....ahi,ahi....che chiudevano i bordi della ferita, una pomata antibiotica e ritornai a casa riflettendo sul fatto che ero stato fortunato. Il dottore aveva sorriso vedendomi impastricciato di sangue e dopo un paio di colpi di tosse molto professionale aveva avuto un atteggiamento benevolo, chiedendomi se mi faceva male, se mi doleva la testa, se avessi avuto vertigini o nausea e li per li mi stupii di non averle sentite pure da lui.
Ero stato fortunato, cadendo pochi centimetri più in basso avrei sicuramente compromesso l'occhio destro, e a otto anni non era certo una prospettiva immaginabile.
L'estate, regalava sere magiche nel mio paesino che si apriva al vocio dei commenti delle comari, alle passeggiate lungo il corso, alla corsa al bar, alla ricerca di una bevanda fredda, in un salotto ancora vergine al traffico e in cui lo scalpestio degli zoccoli di qualche asino sottolineava il sonnolento vivere della campagna. I miei mi lasciavano uscire, libero di correre come uno scoiattolo nella piazzetta Santa Caterina, rincorrendo il perimetro allora grande che chiudeva la fontana dalle quattro cannelle d'acqua fresca e limpida. Il fresco refrigerio della sera, la illuminazione poco invadente, sembrava stimolare un dialogo surreale con lo spazio che si trasformava di respiro in respiro, in una entità viva e pensante. Le mie fantasie di gioco mi facevano vedere mari lontani, terre desertiche, piccoli frammenti di castello, e la corsa spensierata mi faceva mulinare le gambe in una sorta di felice realizzazione.
Poi, di colpo, lo scivolone, l'inciampo, la caduta sulle ginocchia nude che vengono abrase dall'asfalto, un bruciore forte sopra il ginocchio destro, mi rialzo ma il sangue iniziava a uscire con una certa insistenza. L'impulso del pianto mi prende ma trattengo le lacrime, mi guardo e vedo dei frammenti di vetro conficcati nella carne, guardo a terra e vedo una bottiglia di birra color ambra, rotta e sparpagliata tutto attorno, proprio li dovevo cadere!
Chiedo aiuto, grido un pò, finche i miei genitori mi portano dal medico in ambulatorio. Ormai sono di casa, ancora forte più del previsto l'odore dell'etere, il medico bonfacchia tra se, con delle pinzette fruga nella ferita, brontola per l'ora tarda, un rimprovero velato a stare più attento, ma con il tono del sacerdote, colpetti di solidarietà sulle spalle, quattro graffe sulla ferita a forma di stella, il suo veloce intervento a calmare ansie e paure dell'imponderabile, poi fuori mi sentivo sereno, già guarito dai timori. Il dottore era sempre lo stesso, severo e brontolone ma era un punto fermo delle aspettative dei Cordovadesi, quando me ne andavo, il tremore del male si era sciolto come il ghiaccio al tepore del sole.
Mentre guardavo il suo volto disteso, seduto al centro della sala consigliare del comune, con il pavimento in granito lucido a disegni settecenteschi e il soffitto ligneo, mi erano passati i ricordi del mio dottore, era li ultranovantenne a ricevere un riconoscimento come ex combattente, con il suo sguardo indagatore appena offuscato. Se ne stava dritto, con in testa il cappello da bersagliere quale lui era stato, con le piume che oscillavano eteree e irriverenti per un uomo di scienza, gli occhi che mascheravano un orgoglio sincero, ascoltava il Sindaco che ne esaltava il passato di sacrificio come medico militare al fronte in Africa. Non perdeva la sicurezza del suo ruolo mentre si scremava quella inquietudine che lo aveva caratterizzato nel suo vissuto in paese, il vocione tonale era ancora profondo ma si intuiva che lo "spirto guerrier" si era attenuato. Non volevo dare un giudizio sull'uomo, ero solo affascinato dal suo longevo essere nel ruolo sempre e comunque, lui era il medico di Cordovado, anche dopo tanti anni di pensione. Era il riferimento della salute pubblica, del nostro centro che si affrancava dal suo assonnato abbandono in quegli anni cinquanta e sessanta. I miei ricordi di ragazzo mi indicavano un uomo che ora molto anziano, sembrava stonare nella vitalità ma che lasciava intuire la grande personalità che lo aveva caratterizzato, con le mani grandi che battevano i polmoni o lo stetoscopio che indagava il cuore, ma soprattutto con lo sguardo che sondava ogni rossore, ogni impercettibile fremito, ogni inclinazione, in una rara capacità diagnostica che non abbisognava di lunghe analisi strumentali.
Sulle note di un lungo applauso si concludeva la manifestazione, uscivo all'aperto e tra il ruvido odore dei platani e il delicato tono dei vicini cipressi, mi si perdeva in gola il gusto dello zuccherino dell'antipolio, ricordo indelebile di un ambulatorio di Esculapio.
Ora che non ci sei più rimangomo le cure che hai seminato.

zanin roberto


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