Diario palermitano
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da : Concerto di Sogni
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Stampato il:
22/12/2024
Tema:
Autore Tema: Gabriella Cuscinà
Oggetto:
Diario palermitano Diario palermitano “ Saracena dagli occhi di cobalto, Una volta in piedi, pensò d’uscire in quanto si sentiva oppresso da un senso d’angoscia. Pensò di andare al mare; aveva già visitato la zona del porto e il bellissimo lungomare ristrutturato. Adesso voleva vedere la spiaggia, la zona balneare di Mondello. Sapeva che una società italo-belga aveva ottenuto, ai primi del ‘900, la concessione per costruire un grande stabilimento, molti villini e altre opere per renderla una stazione climatica importante. Sentì alle spalle qualcuno che lo chiamava. Era Guido: - Vuoi venire a visitare alcune ville dei Colli? Sono interessanti dal punto di vista architettonico.
Inserito il:
28/08/2010 09:53:58
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Alfonso aveva uno sguardo duro, beffardo, enigmatico, con occhi castani in cui spiccavano venature verdi. Non aveva mai amato veramente nessuna donna e gli succedeva spesso d’essere insensibile sul lavoro e in società. Talora gli pesava la solitudine, poiché i genitori erano morti e non aveva fratelli o sorelle. Figlio unico, ricchissimo erede della fortuna paterna, era un architetto e imprenditore milanese affermato. Era rude nei rapporti con gli altri, arrogante, cinico e intollerante. Non andava mai in chiesa e col tempo era divenuto un miscredente. Poi aveva conosciuto Marta, una ragazza molto più giovane di lui e se n’era innamorato pazzamente. La sposò un mattino di primavera alla presenza di pochissimi amici. Una sera, al tramonto, guardando il cielo che imbruniva, Marta gli disse: - Lo sai amore, il segreto della vera felicità consiste nel donarsi agli altri. Io mi sono donata interamente a te, per questo sono felice. Ricordati, Alfonso, Dio non ti darà mai esattamente ciò che vorrai. Un giorno ti darà enormi difficoltà da superare per farti diventare più forte. Ma tu devi continuare a credere in Lui.
Vissero i primi anni di matrimonio in piena armonia e felicità. Fino a quel momento, Alfonso non aveva mai compreso che amare potesse significare provare un sentimento di abnegazione oltre che una forte attrazione sessuale; scopriva nuovi orizzonti e nuove sensazioni. Ma una tremenda tempesta doveva abbattersi sulla sua vita. Infatti dopo tre anni di matrimonio, lei si accorse di avere dei noduli al seno e le diagnosticarono un terribile carcinoma. Lui, per curarla, la portò nei migliori ospedali del mondo. Sciaguratamente, in un anno, il male stroncò la sua giovane vita e le fece chiudere gli occhi per sempre.
-Alfonso - bisbigliò prima di spirare tra le sue braccia – ricordati quando ti dissi che un giorno Dio ti avrebbe dato enormi difficoltà da superare per farti diventare più forte. Ma tu dovrai sempre credere in Lui, amore mio, e ricordati sempre di me.
Chiuse gli occhi e smise di respirare. Alfonso si mise ad urlare, la strinse come se avesse voluto impedire che gliela portassero via. Gli sembrò d’impazzire, non poteva darsi pace e non voleva accettare che la chiudessero in una bara. Non sopportava di vivere senza Marta.
Nella vita però, come al solito, tutto cambia e ogni avvenimento muta il suo aspetto e le sue dimensioni. Cambiamo noi stessi in fondo, specialmente in seguito a fatti che sconvolgono la nostra esistenza. Infatti, un giorno, la vita di Alfonso cambiò il suo corso, prese un’altra piega e subì una svolta inaspettata.
Molti anni prima, quando aveva solo dodici anni, sua madre lo aveva condotto in Sicilia, nelle vicinanze di un piccolo paese, dove si trovava una vecchia fattoria che un lontano zio aveva lasciato loro in eredità. Un giorno avevano fatto un picnic e poi si erano sdraiati tra l’erba verdeggiante. Alfonso s’era addormentato profondamente. Nella sua mente di ragazzo era apparsa, in sogno, l’immagine di una torre. Svegliandosi, s’era accorto che lì vicino ve n’era una molto uguale a quella che aveva sognato. Quella torre era anche simile ad una raffigurata nel libro di racconti che stava leggendo. Aveva chiesto a sua madre di che si trattasse e lei aveva risposto che si trattava di una vecchia torre medioevale
Alcuni mesi dopo la morte di Marta, mentre stava rovistando tra i bauli appartenuti a sua madre, ritrovò quel libro di racconti e, sfogliandolo, rivide l’immagine della torre, ma quello che non s’aspettava di vedere fu il volto della dama, un volto del tutto simile a quello di Marta! Ebbe un tuffo al cuore e sentì ritornare il consueto strazio per averla persa. Il volto rappresentava la dama della torre, ma in quel libro, un semplicissimo libro, aveva ritrovato il volto della moglie. Certo poteva essere solo una forte somiglianza, eppure eccola là, era Marta, era lei che gli sorrideva dal libro. Rifletté che la nostra cultura ci fa perdere la possibilità di apprezzare la semplicità, ci porta verso l’omologazione e ci fa essere attratti da superficiali apparenze, disprezzando le cose semplici. Aveva perso il gusto della semplicità, il saper apprezzare le piccole cose, le cose d’ogni giorno, quelle che sembrano senza importanza. Marta invece sapeva apprezzare tutto ed era felice di poco. Gli aveva insegnato la gioia del donare, la felicità assaporata attraverso il sorriso di un mendicante e la riconoscenza di un vecchio. Ma quella dama perché era identica a Marta? La sua immagine era solo un disegno o cosa? Alfonso doveva assolutamente risolvere il problema. Dunque per fare questo doveva risalire all’editore e a chi aveva scritto quel libro di racconti intitolato: “Diari, cronache e leggende”. Lesse che si trattava della casa editrice Sicanias, ma l’autore risultò invece incerto. Difatti si chiamava Simone Simoncelli, il che faceva pensare ad uno pseudonimo, e lui stesso dichiarava, all’inizio del racconto, di aver rielaborato la narrazione e di essersi servito di un’antica leggenda d’anonimo. Sarebbe stato difficilissimo sapere la verità. Probabilmente non era mai esistita né la dama, né tutto il resto. E allora perché nel libro avevano raffigurato un volto del tutto uguale a quello di Marta? Era stata una pura coincidenza? Una casuale somiglianza? Ma no! Non si trattava di somiglianza. Quello era proprio il viso di Marta! Alfonso non si dava pace. Dal momento in cui aveva ritrovato quel volume e aveva rivisto il viso dell’amata, non riusciva a non pensare a quel dilemma. Si mise alla ricerca della casa editrice, s’informò, si recò alla biblioteca nazionale di Milano, negli archivi della SIAE, fece ricerche dettagliate e venne a sapere che si trattava di un’antica casa editrice siciliana che non esisteva più. Comunque gli conveniva recarsi in Sicilia per meglio concentrare in quel luogo le sue ricerche. Lasciò tutti i suoi affari nelle mani di fidati collaboratori, fece il biglietto aereo e prenotò una stanza in un lussuoso hotel del centro storico di Palermo.
Quando atterrò all’aeroporto Falcone-Borsellino, il sole splendeva e c’era caldo anche se era febbraio. A Milano aveva lasciato cielo cupo e pioggia insistente e trovava caldo e tempo meraviglioso. Il suo hotel, costruito nell’Ottocento, era stato in origine la lussuosa residenza di un'antica famiglia aristocratica. Gli diedero una stanza molto grande, arredata in stile Liberty, piena di decori alle pareti e nei soffitti, con affreschi e fioriere sui tavoli. Alfonso si sentiva soddisfatto e cominciò a sistemare la biancheria e gli abiti negli armadi. Aprendo uno di questi, ebbe una sorpresa inaudita: trovò un medaglione d’oro antico. Lo prese, lo guardò attentamente e stentò a credere ai suoi occhi. Difatti era identico ad un medaglione che portava Marta e che lui stesso le aveva regalato. Ma quell’oggetto era rimasto a casa, a Milano, in cassaforte. Come poteva trovarsi lì dentro? Lo rigirò, lo esaminò minuziosamente e poi le mani presero a tremargli poiché si rendeva conto che era lo stesso, identico medaglione. Si chiese se cominciasse ad avere le allucinazioni. Sentiva l’animo agitato ed era stordito. Cosa doveva fare? Conservare il medaglione o consegnarlo alla direzione? Ma era il suo, era quello di Marta! Già, e allora perché si trovava lì dentro se era rimasto a Milano in cassaforte? Poteva trattarsi di un gioiello perfettamente uguale che qualcuno aveva dimenticato? No, no, non era possibile, perché altrimenti gli inservienti se ne sarebbero accorti. Tornò ad osservarlo: la collana cui era appeso, era d’oro massiccio e la fattura del medaglione era pregiata. Infatti era ottagonale e incastonato con grosse pietre di giada, turchesi e coralli. Sarebbe stato quasi impossibile che ce ne fosse uno perfettamente uguale. Dopo lunghe riflessioni, dubbi e ripensamenti, risolse che avrebbe tenuto il medaglione con sé. Tanto, sarebbe stato sempre in tempo a consegnarlo se l’avessero reclamato. Dunque lo conservò in una borsa. Fece una rapida doccia e si cambiò d’abito per scendere a pranzare. Dopo, uscì per visitare la città. Poté ammirare alcune piazze e alcune antiche vie di Palermo, una città che ha sempre affascinato i visitatori con la suggestione multiforme dei suoi monumenti; li ha incantati e continua ad incantarli. Città amata e trascurata dai suoi abitanti, antica culla d’ogni civiltà. D’altra parte l’architettura dei suoi monumenti evidenzia incredibili fusioni, e le etnie, amalgamate dal tempo, riaffiorano ancora nel carattere e nell’aspetto dei suoi abitanti. Non è una città omogenea e monotona, perché è così ricca di contrasti nell’aspetto degli uomini e delle cose, che non finirà mai di stupire. Chi vi è nato e cresciuto non riesce ad accorgersi di questa singolare diversità, ma chi arriva da fuori, come arrivava Alfonso, l’avverte subito e ne rimane incantato.
In albergo, conobbe un signore molto anziano e simpatico. Si chiamava Ignazio e nella sua vita aveva sempre fatto l’avvocato; adesso s’era ritirato in pensione e viveva stabilmente lì nell’hotel poiché era molto ricco e se lo poteva permettere. Le loro stanze erano adiacenti e s’incontravano spesso. Avevano instaurato un rapporto affabile. Ignazio l’aveva invitato al suo tavolo per mangiare insieme ed era salace e pronto alle battute. Tra l’altro si capiva che era stato un bell’uomo nonostante le profonde rughe del suo viso, le spalle curve e gli occhi dall’espressione stanca. Una sera gli aveva esposto le sue considerazioni sulla giustizia.
-Vedi, caro Alfonso - aveva detto Ignazio - riconoscere le proprie colpe è un grosso attenuante per la giustizia. Coloro che si costituiscono e si riconoscono colpevoli godono di riduzioni di pena e vengono anche perdonati più facilmente dall’opinione pubblica. Per non dire poi che la loro coscienza se ne giova, perché è come se si liberassero improvvisamente di un fardello opprimente.
L’avvocato aveva dichiarato così e Alfonso aveva sentito riecheggiare le ultime parole come se le avesse pronunciate Marta. La mente e i ricordi tornavano sempre a lei e il dolore si rinnovava. Senza il suo angelo si sentiva perduto ed era costantemente combattuto tra il bene e il male.
Doveva comunque riprendere le ricerche per le quali era venuto in Sicilia, doveva sapere come e perché nel passato, era stato pubblicato un libro in cui era raffigurato il volto di Marta. Si recò alla biblioteca regionale e la visitò; seppe che l’edificio era un importante monumento della città e che era stato un Collegio dei Gesuiti. Gli piacque il suo stile antico e austero e gli parve di respirare un’aria d’altri tempi. Poi iniziò a cercare, col sistema informatizzato, la casa editrice Sicanias, ma tra le sue antiche pubblicazioni non trovò il libro di racconti che cercava. L’anno di pubblicazione doveva essere il 1910, ma non vi era nulla. Neppure era annoverato l’autore Simone Simoncelli. Niente, non risultava nulla. Cercava il titolo:“Diari, cronache e leggende”, ma non c’era. Poi ad un certo punto, fu colpito da un titolo sotto la lettera D: “Diario di Alfonso”. L’edizione era della Sicanias e l’autore era Alfonso Zanin. La cosa lo colpì non poco poiché anche lui si chiamava Zanin, dunque pensò di farselo dare per leggerne qualche pagina. Si andò a sedere nella sala di lettura, tra le pareti dai tetti altissimi e tra i tavoli di legno antico e massiccio. Non appena aprì la prima pagina e iniziò a leggere, non credette ai suoi occhi. Difatti c’era scritto così:
“ Palermo 18 febbraio 1910
Sono arrivato da Milano a Palermo per scoprire la verità su quel libro dove è raffigurato un volto identico a quello della mia adorata moglie. Purtroppo sono disperato da quando l’ho persa. Non ho mai amato veramente nessuna donna tranne lei. Era un angelo e la sua dolcezza era incomparabile; ricambiava il mio amore e l’avevo sposata sentendomi l’uomo più felice della terra. Mi aveva insegnato la bontà e l’altruismo, il piacere di donare e di essere utile al prossimo. Si chiamava Marta, ma purtroppo un male inguaribile me l’ha portata via per sempre”.
Alfonso credeva d’avere le traveggole e rilesse tutto. Ogni cosa corrispondeva e aveva dell’incredibile! L’unico particolare che non corrispondeva era l’anno, ma il giorno sì, lui era arrivato a Palermo il 18 febbraio; però nel 1910 non era ancora nato. Cominciò ad avvertire uno strano disagio e un tremore allo stomaco. Aveva la consapevolezza che da qualche tempo la sua vita era divenuta molto strana e come in preda ad una forza sconosciuta. Doveva comunque continuare a leggere assolutamente quel diario e pensò di chiederlo in prestito alla biblioteca. Fece così e ritornò in albergo pallido come un morto.
Incontrò Ignazio che gli si avvicinò dicendo: – Caro amico cosa c’è? Hai un’espressione sconcertata. Vieni, è l’ora di pranzo. Mangiamo insieme come al solito?-
- Sì, sì, d’accordo, lascia che salga un attimo in camera.
Nella propria stanza, Alfonso ripose il diario, si sciacquò le mani e il viso e ridiscese per pranzare, cercando di darsi un contegno e di apparire meno agitato. L’amico era già seduto al tavolo e l’aspettava; insieme scelsero tra le varie specialità del ristorante. Ignazio gli consigliò di ordinare la pasta con le sarde, un piatto tipico siciliano, preparato con finocchietto selvatico e sarde fresche.
- Ignazio -chiese all’amico- voglio chiederti se tu credi nella possibilità del verificarsi di eventi paranormali.
- Non ci credo, però credo nella religione cattolica, la quale ammette l’esistenza delle forze del male. Dunque secondo me, possono verificarsi episodi pilotati da tali forze. Guarda, ti farò conoscere la signora Tagliabue che afferma d’essere una medium. Alloggia anche lei stabilmente in questo albergo e mi degna della sua amicizia, anche se di solito è molto riservata e taciturna. Mi ha raccontato episodi incredibili ai quali io ho fatto solo finta di credere.
- D’accordo, avrò piacere d’incontrarla.
Terminato l’ottimo pasto, Alfonso ritornò nella sua camera, ansioso di riprendere la lettura del diario. Si dispose su una comoda poltrona e continuò a leggere:
“ Qualche tempo fa, rovistando in un vecchio baule, ho ritrovato un libro di racconti nel quale era raffigurato un volto del tutto eguale a quello di Marta. Ho avuto un trauma perché quello era proprio il suo viso! Ma come poteva trovarsi lì, in un banale libro di leggende e racconti? Ho letto che era stato pubblicato da una casa editrice siciliana. Ecco perché sono venuto qui a Palermo”.
A questo punto della lettura, Alfonso sentì che tutta la pasta con le sarde gli era andata di traverso e dovette andare in bagno a vomitare. Capì di non poter più continuare a leggere, doveva uscire, aveva bisogno d’aria. Se ne andò a passeggio ad un orario insolito, quando tutti i negozi erano ancora chiusi e il traffico era ridotto. Camminava ed aveva la mente confusa, serrava le mascelle e pensava che forse sarebbe stato meglio tornare a Milano, abbandonare le ricerche, il diario e tutto. Da quando aveva trovato quel famoso libro di racconti, la sua vita era stata sconvolta! Camminava e non s’accorgeva dove andava, né di quanta strada avesse percorso. Si sentiva stordito, l’unica cosa che lo faceva distrarre era solo la vista dei palazzi e dei monumenti antichi, sapeva solo che quella città l’affascinava terribilmente e già sentiva d’amarla nonostante quei momenti bui e spaventosi che stava attraversando. Quella città aveva qualcosa di magnetico, di straordinario. Era incredibile con quei suoi angoli singolari d’epoca rinascimentale frammisti all’architettura barocca. Alfonso era sensibile all’arte e nessuna città come Palermo gli era mai sembrata così piena di commistioni artistiche. No, non voleva andare via, un incanto così particolare non l’aveva mai provato e lo teneva legato a quei luoghi; era innamorato di quella città e la sua magia l’aveva sedotto. Sarebbe rimasto anche perché sentiva la curiosità irresistibile di ultimare la lettura del Diario di Alfonso. Adesso però era tempo di tornare in albergo e gli conveniva prendere un autobus, visto che i taxi a Palermo passavano di rado. Chiese ad un passante quale dovesse prendere per arrivare al suo hotel e per fortuna riuscì a prenderne uno quasi subito.
Durante il tragitto tornò a pensare al Diario. Per un momento restò paralizzato da uno dei peggiori terrori che si possano provare: quello di aver perduto la capacità di distinguere gli avvenimenti reali da quelli immaginari, i corpi solidi dai fantasmi. Iniziò a lottare contro quel timore, doveva calmarsi, convincersi che c’era una spiegazione a tutto, che Marta forse, somigliava soltanto all’immagine del libro di racconti. Doveva restare lucido; qualcosa lottava nella sua anima, come fosse un contrasto tra il bene e il male, tra la bontà che Marta gli aveva insegnato e l’inclinazione all’egoismo e all’insensibilità che sempre l’aveva contraddistinto. Appena rientrato in albergo, riprese la lettura:
“ Ho trovato alloggio in un albergo ristrutturato di recente, molto elegante e comodo. Mentre stavo per riporre i miei abiti in un armadio, con enorme meraviglia, vi ho trovato il medaglione di Marta, quello che le avevo regalato, di fattura pregiata, ottagonale e incastonato con grosse pietre di giada, turchesi e coralli”.
Il sudore cominciò a imperlare la fronte di Alfonso, aveva caldo ed era atterrito. Gli sembrava d’impazzire! Forse era meglio che uscisse da quella camera e che vedesse gente. Si doveva calmare. Doveva riprendere il controllo dei propri nervi!
Quando scese, trovò Ignazio seduto con una signora molto anziana, che presentò come la signora Tagliabue. Nonostante gli anni, aveva un’aria piuttosto sofisticata e portava una parrucca nera ricciuta. Gli occhi erano di un azzurro sbiadito, truccati di nero e scrutavano tutti con pungente diffidenza. Alfonso si accomodò e ordinò un caffè.
- Hai una cattiva cera. - osservò Ignazio- La signora mi stava dicendo che è stata testimone di eventi paranormali.
Dalla padella nelle brace! pensò Alfonso e disse:- Signora Tagliabue, mi scusi sa, ma non credo una parola di ciò che riguarda il paranormale. Comunque ognuno è libero di pensare come crede.
La signora ostentò un’aria sdegnosa e si alzò dicendo di dover ritornare in camera. Quando si fu allontanata, Alfonso osservò: - Si è offesa. Ma vedi, ci sono cose che proprio non mi convincono. Eppure anche se sono sempre stato scettico, da qualche tempo mi sento come perseguitato da qualcosa di strano.
- Davvero? Di che si tratta? Se vuoi, puoi parlarne con me. Ma intuendo che l’amico non era in vena di confidenze, lo salutò per ritornare in camera.
Alfonso conobbe pure un pittore che aveva esposto dei quadri nei saloni dell’albergo. La sua era un’arte di pura espressione intima, per cui gli oggetti non erano che uno schermo sui quali proiettava il drammatico travaglio dell’anima. Si chiamava Guido Siniscalchi. Esasperava i colori e deformava violentemente i corpi che rappresentava. Tutto nella sua pittura era soggettivo, il mondo lo vedeva con dinamismo estremo, lo spazio per lui era solo una visione passeggera. Dipingeva per gli allestimenti scenici del teatro Massimo di Palermo e nel passato, Guido aveva tracciato figure che erano la trascrizione di immagini interiori, visioni di sogno, con scenografie deserte e smaltate da lisce stesure di colore. Poi aveva cominciato ad avere strane allucinazioni. Pensava di essere vittima del demonio o di essere divenuto il più grande pittore del mondo. Insomma aveva sofferto d’esaurimento nervoso, di depressione e s’era dovuto fare curare molto seriamente.
Quando s’erano conosciuti in albergo, durante la mostra, avevano subito simpatizzato e Alfonso si era presentato dicendo: - Sono l’architetto Alfonso Zanin. Un pittore e un architetto hanno tante cose in comune, non crede? -
- Certo, anzi, come diceva Malraux, per un pittore e per un architetto l’arte è ciò attraverso cui le forme diventano stile, e secondo Croce, noi produciamo solo immagini, fantasmi, ma colui che gusta l’arte volge l’occhio a ciò che l’artista gli ha indicato. -
Alfonso l’aveva guardato con simpatia rendendosi conto d’avere di fronte un uomo di cultura, e da quel momento si erano sempre parlati amichevolmente e con franchezza. Spesso Guido si recava in albergo, lo cercava e lo conduceva a passeggio per Palermo, illustrandogli le antichità e le magnificenze della città.
Un giorno gli aveva detto che, secondo lui, tutto ciò che riguarda la fede in Dio non è mai facile. Però essa non è estranea al cuore dell’uomo e non è lontana dai suoi desideri. Al giorno d’oggi,- aveva detto Guido,- il pane ci avanza. Non abbiamo mai avuto a disposizione tanti beni materiali come oggi. E non siamo felici lo stesso. Basta fare un confronto tra la pubblicità che promette mirabilie e le notizie che raccontano la vita vera. Sono molti quelli che credono di non essere felici perché manca loro ancora qualcosa. D’altronde sono sempre di più quelli che cominciano a dubitare che non è questione di beni materiali, ma di cercarne un altro tipo: il bene dello spirito, quello che solo Dio riesce a fornirci. Questo bene possiamo trovarlo solo in Lui. Se lo cerchiamo, lo troveremo e se ne testimoniamo l’esistenza, lo faremo conoscere anche agli altri. Vedi Alfonso,- aveva aggiunto- io prima ero sempre insoddisfatto e alla ricerca della ricchezza e della notorietà; poi ho capito che solo avendo l’anima rivolta a Dio, riuscivo ad essere felice e a trovare pace, serenità. Sono finalmente soddisfatto e non sento bisogno più di nulla, solo di pregare e cercare di fare del bene agli altri. Riesco a sentire una voce che mi parla di bontà e altruismo, mi parla di solidarietà e partecipazione alle sofferenze altrui. -
Ad Alfonso era sembrato di riascoltare le parole di Marta e aveva provato una fitta al cuore. Quando c’era lei, era vicino a Dio, gli aveva insegnato ad andare in chiesa; la propria anima era in pace e pensava solo a fare del bene. Da quando gli era mancata, s’era allontanato da Dio, perché non aveva voluto accettare che gli avesse tolto il suo bene più caro. Marta gli diceva che doveva donare agli altri perché se fosse vissuto cento anni pensando solo a se stesso, sarebbe vissuto inutilmente; se fosse invece vissuto solo pochi anni, ma elargendo al prossimo, la sua vita avrebbe acquistato un nuovo significato.
Adesso Marta non c’era più e l’egoismo s’era riappropriato di lui come una forza arcana che lo spingeva ad essere insensibile e crudele.
Dopo la disavventura con la cameriera, Alfonso era salito in camera a cambiarsi. Tornando nella grande e sontuosa hall, aveva visto Guido che era venuto a trovarlo e poco dopo gli aveva presentato Ignazio. Il pittore guardando meglio l’avvocato, aveva esclamato: - Ma noi ci conosciamo vero? Lei è il padre di Elvira. E’ stata l’unica ragazza che avrei voluto sposare. Poi ho saputo che è morta. Mi dispiace, creda, sono addolorato.
- Sì, signor Siniscalchi, Elvira non c’è più, non è più tra noi. Ha lasciato due figlioli, ma li vedo raramente.
La sua espressione era divenuta funerea. Aveva abbassato il capo e si capiva che nascondeva un dolore profondo e inconsolabile.
- Dispiace anche a me, Ignazio, - aveva aggiunto Alfonso- non sapevo, ma com’è morta tua figlia?-
- Vedi caro mio, quando era molto giovane, Elvira era fidanzata con Siniscalchi, che però era un pittore spiantato e allora io contrastavo quell’unione. In seguito ebbi bisogno di alcuni lavori in casa e incaricai un architetto. Questi cominciò a corteggiare mia figlia che perse la testa per lui. Lasciò Guido e si mise con l’altro. Ero contento perché credevo che l’architetto fosse una persona perbene ed un onesto lavoratore. Invece si rivelò un farabutto, sperperava tutto il denaro e in breve si ridusse sul lastrico. Giocava ai cavalli perdendo molto denaro. Scommetteva usando anche i soldi di mia figlia. La poverina era innamorata e non diceva nulla, gli dava il denaro, ma soffriva in silenzio. Quando capii che cercava di mettere le mani sul mio capitale, bloccai tutti i fondi e lui cominciò a fare come un pazzo. Cominciò a dire che avrebbe lasciato mia figlia , che non valeva niente e che era solo un peso inutile. L’esortai a lasciarlo, ma lo amava follemente e non voleva ascoltarmi. Poi cominciò a picchiarla e allora intervenni denunziandolo alla polizia. Lo diffidarono e lui la lasciò ma poco tempo dopo, trovarono che mia figlia s’era suicidata.
Gli occhi di Ignazio erano socchiusi, tristi ed esprimevano tanta mestizia.
- Sicuramente sarai pentito d’averlo denunziato, invece secondo me, hai fatto bene,- disse Alfonso – tua figlia poteva morire lo stesso per le percosse del marito. E ora i tuoi nipoti con chi stanno?-
- Purtroppo stanno con il padre. La legge vuole così. Mia moglie è morta di dolore. Sono rimasto completamente solo. -
- Ricordo che era una ragazza solare,- intervenne Guido- quando era con me, rideva sempre e scherzava volentieri. Mi hanno detto che dopo il matrimonio è cambiata. Certi individui non dovrebbero esistere sulla terra! L’architetto me la portò via, ma se l’avesse resa felice, sarei stato contento per lei. Invece saperla infelice…… -
Poco dopo, Ignazio si ritirò in camera sua e Alfonso chiese all’amico pittore d’accompagnarlo in giro per la città.
- Non chiedo di meglio. Oggi voglio farti visitare il castello della Zisa.
Con l’autobus arrivarono in una piazza, scesero e s’inoltrarono oltre il cancello che immette nel parco del castello. Presero a passeggiare attorno all’antica costruzione il cui giardino è abbellito da canalette di marmo in cui defluiscono le acque in un silenzio magico. Guido gli disse che il castello era stato eretto dal re normanno Guglielmo. Il giardino contiene un bacino arricchito da acque che sgorgano da una nicchia di fondo posta in una grande sala quadrata a piano terra; scorrono come un velo e sono interrotte da due bacini quadrati secondo lo stile persiano. Nel castello il sistema di ventilazione è stato concepito secondo le più raffinate tecniche di refrigerazione degli Arabi. A guardarlo, era affascinante, imponente e Alfonso non si saziava di ammirarlo.
Mentre era assorto in questa contemplazione, Alfonso vide un uomo dimesso che parlava rivolto a una delle finestre del castello. Era come se parlasse a qualcuno che non c’era. Poi volgendosi a lui, disse:- Ho dato appuntamento alla principessa per questa sera. Mi ama e mi ha risposto che verrà. Restò a bocca aperta e non seppe cosa dire. Guido lo prese sottobraccio e gli spiegò bisbigliando che si trattava del pazzo del quartiere, il quale affermava di parlare con una principessa araba. Infatti poco dopo l’uomo cominciò a declamare, sempre rivolto alla finestra:
quando ti affacci al placido verone,
esser vorrei un arabo predone,
per rapirti a cavallo con un salto”.
Declamava con voce ispirata e i suoi occhi sognavano e vedevano qualcuno che gli altri non potevano vedere. Alfonso provò compassione per quel povero diavolo che amava forse un fantasma.
- A quanto pare anche lui ha perso la moglie,- fece Guido- ma ha perso anche la capacità di ragionare. E’ impazzito e parla sempre da solo.
Alfonso rifletté che aveva rischiato anche lui d’impazzire, invece era rimasto sano di mente, sebbene talvolta avesse l’impressione che una forza sconosciuta cercasse di fuorviare la sua mente e metterlo di fronte all’inverosimile, come nel caso del diario.
Impiegarono più di due ore ad ammirare tutti i piani, le sale, le varie architetture arabe del castello, le Mushrabiya, i suggestive passaggi, il panorama incantevole che si godeva dalle finestre. Visitarono la Sala della Fontana e ammirarono i particolari della sua fascia mosaicata e i capitelli decorati. Videro le Muqarnas sopra la fontana, e poi si soffermarono a guardare oggetti come le scatole cilindriche in ottone battuto e i piccoli bacini con decorazioni incise d’argento.
Quando decisero di tornare, era già trascorsa l’ora del pranzo e pensarono di andare a consumare qualcosa in una rosticceria che si trovava lì vicino. Alfonso poté gustare i famosi arancini palermitani e ne fu entusiasta. Guido volle offrire e pagare lui, però cercando nelle proprie tasche, s’accorse di non avere più il portafoglio: - Porca miseria! Me l’hanno rubato! Ma chi è stato? Com’hanno fatto?-
- Cosa? Davvero? Anche a te? Ma in questa città rubano sempre i portafogli! E’ assurdo, non riesco a capire, siamo stati sempre soli! - rispose l’altro.
- Sì – ribatté Guido - o forse no, aspetta, l’unico che s’è avvicinato è stato il poeta matto! Sì, sì, proprio lui, è stato lui che m’ha fregato. Pezzo di farabutto! Ma ora è inutile cercarlo.
Alfonso esclamò esterrefatto: - E dire che avevo provato compassione per quel demente! Accidenti! Deve essere invece un borseggiatore molto esperto. Io non mi sono accorto di nulla. Ma roba da pazzi!-
Ritornarono in albergo con l’autobus che era ormai quasi sera. Alfonso scese, salutando l’amico.
Nella propria stanza, si accomodò sulla solita poltrona e s’impose di conservare la calma qualsiasi cosa avesse letto:
“ Ho deciso che terrò questo medaglione. Adesso mi dovrò recare alla biblioteca regionale per iniziare le ricerche sul libro di racconti.
Voglio annotare che ho conosciuto un anziano avvocato che mi ha raccontato la triste storia della figlia suicida. Ho anche conosciuto un pittore un po’ bislacco ma molto simpatico e siamo diventati amici. Mi ha detto di avere sofferto di allucinazioni e di una grave forma di nevrosi. Ma la cosa più curiosa è che è stato fidanzato con la figlia dell’avvocato, la quale ha poi sposato un altro che l’ha spinta al suicidio”.
A questo punto della lettura, Alfonso credette d’avere le traveggole, avvertì uno strano giramento di testa, come se gli occhi gli s’annebbiassero e sentì il bisogno di affacciarsi per respirare l’aria fresca. Era ormai il tramonto e Palermo era ammantata di una luce irreale, una luce morbida e soffusa. La strada pareva un fiume dorato e gli alberi splendevano di rosso e di giallo, mentre un leggero vento tiepido scuoteva le foglie. Guardò il cielo e lo vide di un blu intenso e particolare; ancora una volta sentì di amare quella città, di esserne innamorato e di non volerla lasciare. Gli stavano succedendo le cose più inverosimili, ma non voleva ripartire, doveva andare fino in fondo e capire il perché di tutte quelle stranezze. Marta gli avrebbe consigliato di pregare, di rivolgersi a Dio, ma lui non poteva, non riusciva a farlo. Anzi sentiva la propria anima tormentata tra il bene e il male e stretta nella morsa della ribellione. D’un tratto pensò alla possibilità di essere la reincarnazione di quell’altro Alfonso. Che sciocchezza! Che assurdità! Lui non aveva mai creduto ai fenomeni di trasmigrazione delle anime. Ne aveva letto e studiato, ma niente l’aveva convinto a riguardo. Eppure avrebbe potuto chiedere alla signora Tagliabue di aiutarlo e consigliarlo. Si era comunque tranquillizzato, si rimise seduto e riprese la lettura:
“Mi sono recato alla biblioteca di Palermo e ho cercato il libro di racconti dal titolo: “Diari, cronache e leggende” della casa editrice Sicanias, ma non l’ho trovato. Poi, scorrendo i titoli presenti sotto la lettera D, ho trovato un libro intitolato: “Diario di Alfonso”. Mi ha molto incuriosito, l’ho chiesto in prestito e sono rimasto traumatizzato poiché vi ho letto il diario della mia vita”.
No! Alfonso non ce la faceva più! Si sentiva troppo male e non poteva continuare a leggere. Nello stesso tempo provava la curiosità morbosa di sapere cosa avesse ancora scritto quell’Alfonso di tanti anni fa, solo che appena volgeva gli occhi sulle pagine, vedeva tutto confuso e gli girava la testa. Chiuse il libro e cercò di calmarsi. Ancora una volta non doveva perdere la testa e doveva convincersi che c’era una spiegazione a quel fenomeno. Non doveva smarrire l’equilibrio e perdere il controllo delle proprie azioni. Respirò a lungo profondamente, si sentì meglio e si alzò. Uscì deciso a visitare Palermo di notte; avrebbe cenato in qualche ristorante. Cominciò a camminare lungo le vie che gli sembrarono solitarie e deserte. I negozi erano ormai chiusi e le vetrine poco illuminate; transitava qualche automobile e qualche bus, ma il silenzio era rotto solo dal rumore di alcune motorette. Si accorse che non era una città dalla vita notturna tumultuosa. Vide in un anglo l’insegna di un ristorante caratteristico ed entrò; era abbastanza piccolo, ma accogliente e ben arredato. La proprietaria lo accolse affabilmente e lo fece accomodare ad un tavolo d’angolo. Gli offrì un aperitivo e gli chiese di dove fosse. Gli consigliò di prendere la pasta all’anciova: si trattava di spaghetti conditi con acciughe e aglio soffritti, estratto di pomodoro e mollica di pane abbrustolita. Alfonso li mangiò e li gustò particolarmente, come anche il pesce spada che era freschissimo. Assaggiò poi la caponata di melanzane e la trovò assai gustosa. Nel frattempo la proprietaria del locale non aveva smesso di parlare un solo istante, mentre il cameriere lo serviva.
Quella notte dormì male e poco, e non sapeva se per la pasta all’anciova o perché pensava al diario. Fatto sta che s’addormentò tardi e si svegliò alle dieci. Gli venne in mente che avrebbe dovuto continuare a leggere, ma non voleva prendere in mano il diario, il solo pensiero gli faceva venire i brividi. Si rese conto che aveva paura. Sì, adesso aveva paura di quel diario, perché gli raccontava la sua vita e temeva di leggervi ciò che non avrebbe voluto. Per la prima volta aveva paura, era sempre stato coraggioso e prima non aveva mai conosciuto il timore. Ripensò a Marta che temeva il pericolo e poi era morta di cancro. Ma quando s’era accorta che stava morendo, non aveva mostrato alcun timore, anzi gli aveva detto: - Me ne vado Alfonso, ma sono contenta perché ritorno a Dio. Da Lui provengo e a Lui ritorno. Mi dispiace solo lasciare te, perché so che soffrirai molto. E allora vorrei restare proprio per non farti soffrire e poter godere ancora del tuo amore. Ma sento che le forze mi mancano. Vorrei lottare e non avrei paura di soffrire se potessi restare con te. Ma non posso neppure lottare, non ho la forza, però non ho neppure paura perché so che Dio mi aspetta e mi chiama. Devo andare amor mio, ma sarò sempre con te. Mi sentirai sempre vicina e se saprai guardare nel tuo cuore, mi rivedrai.
Invece Alfonso sapeva che a poco a poco, non l’aveva più sentita vicina perché la propria disperazione era stata accompagnata da un senso di ribellione. Marta che era tanto giovane era morta, mentre lui che aveva molti più anni, era vivo e vegeto. Gli sembrava un’ingiustizia, provava rabbia e s’era allontanato da Dio; non accettava il fatto di averla persa e non pregava come lei gli aveva insegnato a fare.
Quando uscì dalla stanza, incontrò la cameriera che gli stava riportando il maglione dalla lavanderia. Lo guardò con occhi dolci e disse: - Sono Maria, architetto, si ricorda? Ho riportato il maglione lavato e stirato. Ha bisogno d’altro? Qualsiasi cosa. Lui pensò di trovarsi di fronte all’ennesimo caso d’innamoramento repentino e increscioso. Tagliò corto e ringraziò: - Ecco, perfetto, può andare Maria, grazie. La ragazza ebbe negli occhi una certa delusione. Abbassò la testa, salutò e corse via.
Alfonso fece chiamare un taxi e chiese di essere portato a Mondello. Scese di fronte allo stabilimento balneare in muratura e vide che era simile a quello delle più famose stazioni balneari europee di inizio ‘900, in particolare ricordava quello di Nizza. La costruzione risultava composta da più volumi a due elevazioni e poggiava su una piattaforma a palafitte sul mare, collegata al viale d’accesso tramite un pontile. All’ingresso, sul viale, c’era un’esedra monumentale con acroterii sormontati da delfini in stucco. La costruzione era caratterizzata da un corpo centrale con quattro frontoni e, negli spigoli, presentava muri a forma di torri con pinnacoli in pietra e in ferro
Cominciò a camminare ammirando il mare che era di un azzurro incredibile. Alfonso aveva viaggiato tutta la vita e conosceva le più belle spiagge del mondo, ma era certo che quel litorale non aveva nulla da invidiare alle baie più belle che aveva visto. Era una meraviglia! Si soffermò un attimo incantato. Ancora una volta quella città lo affascinava. Quel mare dai mille colori lo incantava. Camminava e si accorgeva che la spiaggia era tutta costeggiata da villette splendide, alcune in stile Liberty, altre più moderne e allegre. La vegetazione era lussureggiante. In pieno inverno, c’erano fiori e aiuole verdeggianti ovunque. Si girò a guardare di nuovo lo stabilimento e non lo vide più. Improvvisamente vide un’opera muraria in costruzione e operai che lavoravano in mezzo al mare. S’arrestò spaventato! Quella scena risaliva al passato. Lo stabilimento era in costruzione e lui stava rivivendo una scena di tanti anni fa! Ebbe orrore di ciò che vedeva e guardò meglio ad occhi spalancati: la strada era in terra battuta e non c’erano alberi, c’era solo il mare che arrivava quasi sino ai suoi piedi. Il silenzio incombeva e per la strada non c’era nessuno. Provò un forte giramento di testa e s’appoggio ad un albero. Chiuse gli occhi e quando li riaprì, tutto era tornato normale. Lo stabilimento era come l’aveva visto prima, la strada asfaltata, transitavano le auto e alcune persone passeggiavano. Si sedette su di una panchina e cercò di rilassarsi. Doveva essere vero che stava rivivendo momenti della vita di quell’altro Alfonso; non ci avrebbe mai creduto, ma doveva essere così. Si alzò cercando di reagire e riprese a camminare dirigendosi verso il paese di Mondello. Aveva il passo incerto e rifletteva che sarebbe stato davvero meglio tornare a Milano. Quando arrivò al paese vide che c’era un’antica torre araba e ripensò a quella del suo libro di racconti. La piazza era graziosa e Alfonso si sedette ad un bar per ordinare un caffè. Intanto meditava che gli sarebbe convenuto chiedere il parere della signora Tagliabue sugli strani fenomeni da cui era ossessionato.
Tornato in albergo, trovò Ignazio seduto nella grande hall in compagnia di due signori che gli presentò: erano un suo collega, l’avvocato Giulio Broletti e l’ingegner Orazio Levamanni, amico di vecchia data. Il primo era un signore sulla settantina, molto basso e tarchiato, ricordava una palla da baseball, largo nel giro vita e sottile nel collo e nelle gambe. L’altro era un tipo alto e segaligno, stempiato e con occhi furbi e vivaci.
- Ogni tanto vengono a trovarmi per fare insieme una partita a poker,- fece Ignazio, - troviamo sempre qualcuno che voglia unirsi a noi. Stasera vuoi giocare tu?-
- D’accordo, con piacere, - fece Alfonso, - dopo cena daremo inizio alla tenzone.
- Ma quale tenzone, architetto,- disse Giulio alzando le spalle, - noi giochiamo per trascorrere allegramente qualche ora insieme e non per contenderci i soldi.
- Sì, capisco, ma io scherzavo. A proposito, con quale posta giocate.
- Facciamo una posta di pochi euro. Saremo in quattro se nessun altro si vuole unire. –
- Potrei telefonare a Guido,- suggerì Alfonso guardando Ignazio.
- Con piacere, se verrà, saremo in cinque.
Infatti, invitato telefonicamente, verso le dieci di sera, arrivò Guido e insieme andarono nella sala da gioco dell’albergo. Si sedettero ad un tavolo verde e chiesero ad un cameriere un mazzo di carte da poker. Alfonso si rese subito conto che per Ignazio quel gioco era importante. Seguiva schemi e calcoli particolari, si rallegrava e si arrabbiava per colpi che lo vedevano vincente o perdente. L’ingegner Levamanni invece era più scherzoso, ma gli altri amici dissero che aveva la capacità di leggere il pensiero degli altri giocatori. Confessarono che in passato avevano sospettato che truccasse le carte.
- Se fosse vissuto al tempo dell’Inquisizione, - aveva detto Giulio,- lo avrebbero messo sul rogo come stregone.
Dopo una serie di colpi, venne il momento in cui Alfonso si ritrovò con un poker di regine in mano. Vi furono vari rilanci e alla fine vinse un piatto molto ricco. Ignazio lo guardò per un attimo sbigottito: - Non pensavo fossi così fortunato!-
- Be’ di solito infatti non lo sono.
Guido partecipava alla partita ma aveva detto subito che preferiva il bridge. Nei piatti più contesi e pericolosi si defilava e scrutava divertito gli altri giocatori. Tra una smazzata e l’altra, videro passare la signora Tagliabue. Salutarono ossequiosi e Guido esclamò: - Sapete cosa disse un noto studioso di scienze occulte quando, dopo una conferenza di demonologia, trovò la moglie a letto con un amico? Disse: “Parli del demonio e ti spuntano le corna”.
Gli altri risero divertiti e ordinarono da bere, chi un wisky, chi un cognac. L’avvocato Giulio era un vero giocatore attento, appassionato, cui entrava la carta giusta al momento giusto. Talora aveva l’aria di aspettare il momento opportuno, quasi sogghignando. Aveva detto che, secondo lui, il giocatore ideale deve avere un carattere forte, un grande intuito, buona memoria: - Certo i bari esistono, ma distruggono la poesia del gioco. Anche i polli esistono nel poker, ma sono difficili da individuare. Se non riesci a trovare il pollo nella prima mezz’ora, allora il pollo sei tu, ah ah ah ah ah. -
Alfonso ribatté che i professionisti del poker sono pericolosi, ma ancor più lo sono gli stupidi. - Il gioco del poker è come una rappresentazione teatrale dove gli attori recitano ognuno una parte diversa. E’ una continua messa in scena di bugie e verità, uno sforzo di apparire diversi da come si è, di dissimulare quello che in realtà siamo.
- Sì, ma è anche un vizio,- aveva ribattuto Ignazio,- un mestiere, e la fortuna naturalmente è sovrana. Però contano parecchio anche l’abilità, il coraggio. Un mio amico definiva il poker erotismo, battaglia, rischio, e diceva che la sconfitta è la possibilità più dignitosa e affascinante.
Giocarono sino alle due di notte e Alfonso vinse in modo spudorato. Si salutarono facendo battute sulla sua fortuna sfacciata.
L’indomani, prima di riprendere la lettura del diario, Alfonso decise di consultare la signora Tagliabue sui propri strani fenomeni. Chiamò il portiere e si fece annunziare. Dopo mezz’ora infatti, si recò nella stanza della signor e la trovò che lavorava a maglia con un paio di occhiali che la facevano sembrare una zitella acida. Lui disse subito: - Sicuramente la disturbo signora e mi scuso.
- No macché,- fu la risposta, - venga s’accomodi, magari venissero sempre a disturbarmi!- Erano chiaramente le parole d’una donna molto sola.
Alfonso che era un tipo curioso e chiese: - Ma non ha figli signora? E’ vedova?-
- Sono vedova e il mio unico figlio non mi viene mai a trovare. Adesso sono molto anziana e non esercito più, ma nella vita ho fatto spesso la sensitiva e la chiaroveggente. Certo ho guadagnato qualche lira, ma ho anche fatto del bene a tante persone.
La signora era parecchio loquace. Alfonso la bloccò: - Sa, da quando anch’io sono vedevo, non sono più sereno, sono infelice perché adoravo mia moglie. Lei mi aveva messo sulla via della fede. Ora invece sono miscredente e scettico. Comunque, non si offenda signora, ma non ho mai creduto nei sensitivi e negli indovini, però da qualche tempo sono vittima di fenomeni che si possono definire paranormali.
La Tagliabue sgranò gli occhi:- Ah non ci crede! E allora perché è venuto scusi? Perché è perseguitato da forze oscure? Architetto, sono fenomeni terribili!-
- Ho trovato un libro, qui alla biblioteca regionale, che s’intitola “Diario di Alfonso” e vi è narrata tutta la mia vita, solo che si tratta di un libro e di un Alfonso del 1910. Aveva anche lui una mogie che si chiamava Marta e che è morta giovane. L’altro giorno a Mondello, mi è sembrato di rivivere una scena di tanti anni fa. Però signora, mi scusi se ripeto che sono diffidente verso i sensitivi, penso che abusino della buonafede della gente.
- Ma allora perché è qui? Senta, anche a costo di sembrarle presuntuosa, io so che posso aiutarla.
- Comunque cosa pensa del mio caso?-
- Da quando abbiamo iniziato a conversare, ho sentito sprigionarsi da lei come una forza strana. Oltre alla rabbia, avverto qualcosa d’indefinibile. Non s’impressioni, per carità, c’è rimedio a tutto se non si tratta di malattie gravi. E’ come se talora non fosse più lei, ma si trasformi- -Ora mi spaventa, signora Tagliabue!-
- Senta, mi piacerebbe ipnotizzarla. Sarebbe disposto?-
- Cosa? Ipnosi? Lei è capace d’ipnotizzare le persone?-
- Di solito sono gli uomini ad esercitare l’ipnosi, eppure io sono abilissima in questa pratica, l’ho fatto tante volte. Dunque, sarebbe disposto, oppure no? -
- Forse sì, sarei disposto, ma ci voglio riflettere. Mi può dare qualche giorno per pensarci?-
- Ci pensi quanto vuole e mi faccia sapere. Potrei capire cosa si nasconde dietro al Diario di Alfonso.
Tornò nella sua stanza per riprendere finalmente la lettura del diario. Non ne aveva alcuna voglia, ma prima o poi doveva riconsegnarlo alla biblioteca regionale. Giunto in camera, si sedette sulla poltrona e ricominciò a leggere:
“ Devo confessare che sono costernato da ciò che ho letto nel diario perché vi sono narrati dettagliatamente tutti gli avvenimenti della mia vita. Solo che chi scrive è un Alfonso vissuto molti anni fa. Come me ha gli occhi con venature verdi, i capelli neri, ondulati e corti. Racconta di avere amato solo sua moglie, che si chiamava Marta. Come mia moglie! Sono esterrefatto, mi sono seduto qui a scrivere per cercare di calmarmi e allentare la tensione. Ciò che mi sta capitando è incredibile! Racconta addirittura d’aver fatto lo stesso sogno che feci anch’io dopo la morte di Marta. Infatti avevo sognato di visitare un castello insieme a lei e di perlustrarne i ruderi. Ad un tratto avvistavamo un fantasma che diceva:
- Ricordate che vi amate e che lo dovete dire sempre, non aspettate mai a proclamare il vostro amore, cantatelo al mondo intero. L’amore è la cosa più bella che esista e che sia mai esistita su questa terra.”
Alfonso, leggendo queste cose, dovette alzarsi, avvertiva un forte senso di nausea e andò a vomitare. Dopo la morte di Marta aveva fatto esattamente quel sogno. Si sdraiò sul letto con un braccio sugli occhi. Gli scoppiava la testa! I soliti sentimenti contrastanti l’assalirono, cioè quello di tornare subito a Milano e quello di restare a Palermo. Era sconcertato e aveva il respiro affannoso. Si sentiva terribilmente oppresso. No! Non poteva più restare. Sarebbe tornato a casa. In quello stesso momento ripensò alla signora Tagliabue. Doveva darle una risposta e in ogni caso, prima di partire, avrebbe potuto sottoporsi a una seduta d’ipnosi. Cercò di calmarsi, respirò a fondo e s’alzò. Chiese al telefono di essere messo in comunicazione con la stanza della signora e quando ne udì la voce, disse: - Signora, sono l’architetto Zanin. Per favore, quando pensa di potermi fare una seduta d’ipnosi? - Udì rispondere:- Quando vuole architetto, anche domani.
Difatti il giorno successivo, di buon ora, Alfonso era alla porta della signora Tagliabue. La trovò tutta agghindata e con una nuova parrucca, sempre scura, ma con i ricci più morbidi e ondulati. Non portava gli occhiali e tutta la sua fisionomia risultava più giovanile e cordiale. Lo fece accomodare e gli propose subito di darsi del tu: - Sa, architetto, serve per entrare in maggiore confidenza e per instaurare un rapporto di fiducia.
- Per me, con piacere, mi chiamo Alfonso e tu?
- Elvira. Dunque, caro Alfonso, ti dovresti sdraiare sul divano ed io, col tuo permesso, accenderò il registratore.
- Fai pure. Ecco sono disteso. Questo divano è molto comodo.
- Allora, io non farò altro che guidarti ad accantonare la parte cosciente della tua mente, quella che presiede alle decisioni, affinché la parte inconscia, ovvero quella che immagazzina le impressioni e la memoria, venga fuori.
- Elvira, lasciami fare un’ultima battuta prima di addormentarmi. Farai luccicare davanti ai miei occhi un pendolino?-
- Ah ah ah ah, no, niente pendolini, mi limiterò a continuare a parlare come sto facendo adesso. Non dormirai realmente, ma ti sembrerà di dormire, sarai consapevole della mia presenza.
- D’accordo sono pronto.
- Rilassati e incrocia le mani sul petto. Benissimo, riposati e rilassati; tranquillo, non accadrà nulla d’allarmante. Inspira profondamente ed espira. Di nuovo: inspira ed espira. Bene, così. Rilassati. Le tue palpebre diventano pesanti e il tuo corpo è abbandonato. Ora ti senti bene e riposi. Dobbiamo andare indietro nel tempo. Ci riesci? Ti ricordi il momento in cui hai imparato a camminare?-
Alfonso faceva segno di sì con la testa e sembrava soddisfatto. Fuori pioveva e la pioggia tintinnava sui vetri; lui era calmo.
- E ancora prima? Ti ricordi chi eri prima di nascere? Stai tranquillo; vai indietro con la memoria. Cosa ti ricordi? Cosa vedi?-
Da calmo, Alfonso divenne teso. La sua voce cambiò improvvisamente, divenne roca e strozzata; le mani presero a tremare. Si eresse un poco sul busto e disse: - Non vedo nulla, niente, non c’è niente! E’ tutto buio! Anzi sì, vedo……..Ah! No, no! Vedo..….. ah! -
Era una voce impressionante, irriconoscibile! La signora Tagliabue si allarmò, ma volle continuare:- Cosa vedi? Non ti agitare, sono solo ricordi. Dove sei, chi c’è con te?- Alfonso sembrò calmarsi e disse: -Non c’è nessuno, non c’è niente, è tutto buio. Poi un tremito violento iniziò a scuoterlo e a farlo sobbalzare. La signora a questo punto s’allarmò e si affrettò a svegliarlo: - Alfonso, non è niente, svegliati, svegliati ed apri gli occhi. Alfonso sono io, mi senti? Non è successo nulla, stai tranquillo.
Lentamente si calmò e smise di tremare, con movimenti stanchi, come se avesse affrontato una terribile fatica, si placò, si rilassò, poi ebbe uno scatto ed aprì gli occhi: - Cos’è successo? Credo di essermi addormentato. Tu avevi detto che non mi sarei addormentato e invece. Ho parlato? Cos’ho detto?-
- E’ tutto registrato, ma è durato pochissimo. Hai detto di non vedere niente, poi hai visto qualcosa ma non sei riuscito a dire cosa; eri terrorizzato e tremavi terribilmente. Certo tutto questo è molto strano.
- Sì è molto strano e la cosa m’impensierisce sempre più. Si asciugò il sudore dalla fronte e aggiunse: - Sai, nel diario ho letto che quell’altro Alfonso ha fatto lo stesso identico sogno che ho fatto io dopo la morte di Marta .
Elvira lo fissò e disse: - E’ come se tu fossi in preda ad una forza maligna che ti pone in balia di eventi incomprensibili. Alfonso sbiancò in viso ed esclamò: - Ma che dici Elvira! Dai finiamola!- Si alzò e s’avviò alla porta: - Scusa per il disturbo e grazie comunque del tempo che mi hai dedicato.
- Avrei voluto esserti di maggior aiuto. Ho fatto ben poco. Però se me lo permetterai, vorrei ripetere l’esperimento e tornare ad ipnotizzarti. Saresti d’accordo?-
- Ma, non so. Forse così è stato sufficiente.
- No, non è stato sufficiente, perché era come se mi volessi sfuggire. Avrei dovuto insistere, ma mi sono preoccupata.
- Be’, un’altra volta, vedremo.
Se ne andò e uscendo in strada, vide un accompagnamento funebre: un’auto trasportava il feretro e molte persone seguivano lentamente e a capo basso. Ripensò a quando aveva dovuto accompagnare Marta al cimitero e gli era sembrato d’impazzire di dolore. La moglie gli aveva insegnato la fede in Dio e la domenica lo portava a Messa. Pregava con fervore e raccoglimento e anche lui pregava e ringraziava il Cielo per avergli dato Marta.
- D’accordo. Andiamo, ho bisogno di distrarmi.
L’amico aveva l’auto e lo condusse in mezzo al traffico cittadino che era piuttosto caotico. Procedevano lentamente e gli automobilisti rispettavano poco le precedenze. Anche Guido commise un’infrazione, ma non se ne curò.
Arrivarono a villa Adriana. Una guida stava narrando ad un gruppo di turisti la storia di Adriana, il che fece incuriosire Alfonso che volle fermarsi ad ascoltare:
“ La contessa Cecilia,- stava dicendo la guida- partorì una figlia illegittima e la chiamò Adriana. Era il frutto dell’amore fedifrago tra lei, moglie del conte d’Atria, e il marchese Romualdo di Buccheri. Una vecchia balia ebbe l’incarico di crescere la piccola. Purtroppo il marchese Romualdo morì all’improvviso. Adriana fu adottata da Costanzo, un anziano duca spodestato. Quest’ultimo aveva un nipote, Gerlando, che s’era innamorato di Adriana. La vecchia balia morendo, svelò a Costanzo di chi Adriana fosse veramente figlia. Successivamente Costanzo rivelò alla contessa che Adriana era in realtà sua figlia. Per altro il marchese Romualdo di Buccheri prima di morire aveva nominata sua erede la figlia naturale nata da Cecilia. Quella svelò a tutti l’esistenza del testamento e la ragazza ottenne il titolo di marchesa. Il conte d’Atria perdonò la moglie e riconobbe Adriana come figlia. Dunque ella ebbe anche il titolo di contessa. Finalmente Costanzo ottenne giustizia e tornò in possesso del titolo di duca. Naturalmente nominò suo erede Gerlando. Adriana ebbe finanche il titolo di duchessa sposando Gerlando. In poche parole, Adriana d’Atria e di Buccheri fu marchesa, contessa e duchessa”.
Guido aveva ascoltato tutta la storia senza perdere una parola e aveva detto ad Alfonso che la faccenda era inverosimile: - Però il segreto della felicità consiste proprio nel prestare orecchio sempre e comunque agli altri, anche quando raccontano panzane e storie incredibili come questa! Bisogna agire bene anche regalando solo la semplice attenzione. Vedi Alfonso, non ci si annoia mai se si ascolta il mondo che ci circonda. Le persone e il rumore delle cose attorno ci riempiono la vita. Sono sicuro che la prima persona che narrò la storia di Adriana, raccontò una vicenda completamente diversa, ma passando di bocca in bocca, la storia si è arricchita e trasformata. In fondo anche la Storia con la Esse maiuscola altro non è che il romanzo di ciò che è veramente successo.
-Sì questo è vero,- replicò Alfonso,- in fondo Adriana avrà raccontato la sua storia ai figli, questi avranno aggiunto qualcosa per la gloria del casato, i figli dei loro figli avranno fatto altrettanto, sino ad arrivare a noi. Vero o falso che sia, sembra che Adriana fosse marchesa, contessa e duchessa. Mah! E’ proprio strana la vita!-
Tornato in albergo, Alfonso si recò direttamente al ristorante e trovò Ignazio già seduto a tavola. L’anziano amico l’informò che il menù comprendeva la pasta con i broccoli arriminati e lo consigliò di ordinarla. Lui torse le labbra e disse che preferiva mangiare altro. Ignazio ne fu meravigliato: - Cosa? Non la vuoi? Ma hai mai assaggiato questo tipo di pasta?-
- No e non la mangerò perché non amo i broccoli.
- Alfonso, devi provarla. Ascoltami, se davvero non ti piacerà, puoi sempre cambiare pietanza. Abbi fiducia in me.
Accettò il consiglio per non sembrare scortese. Poco dopo infatti furono serviti loro due piatti di fumanti bucatini affogati in abbondanti broccoli, maneggiati in padella con cipolla soffritta, acciughe, uva passa e pinoli. Mise in bocca l’insieme con riluttanza, ma dopo averne sentito il sapore, i suoi lineamenti si distesero ed ebbe un’espressione di compiacimento. Assaggiò di nuovo e ne fu ancora più soddisfatto: - Ma è buonissima!- disse- I broccoli così cucinati hanno un buon sapore e la pasta è squisita!
- Ah ecco! Te l’avevo detto io! I piatti tipici siciliani hanno un sapore particolare, accattivante. Bisogna sempre provarli.
- D’ora in poi, seguirò i tuoi consigli. Questa pasta è tra le migliori che abbia mangiato, e comunque al ristorante di questo albergo si mangia proprio bene.
- Non per niente ho scelto di trascorrere qui la mia vecchiaia. E poi sai Alfonso, a tavola bisogna mangiar poco, ma ciò che si mette in pancia deve piacere, altrimenti è meglio restare digiuni.
- Già, mi fai pensare a D’Annunzio quando diceva che il piacere è il mezzo più certo di conoscenza offertoci dalla natura. E poi aggiungeva che colui che ha molto sofferto è meno sapiente di colui che ha provato molti piaceri.
- A proposito di piaceri, credo che tu abbia avute tante donne, è vero?-
- Sì è vero, ma l’unica donna, l’unico vero amore della mia vita è stata solo mia moglie Marta.
- L’hai sposata tardi? Come mai?-
- Perché l’ho conosciuta tardi. Marta mi aveva cambiato. Aveva su di me un ascendente incredibile. Riusciva a farmi fare tutto quello che voleva. Ero divenuto un uomo di chiesa, io che sono sempre stato miscredente.
Si erano intanto alzati da tavola e mentre diceva queste cose, Alfonso vide un bambino che lo indicava alla madre gridando: - Mamma, mamma, il signore di Alassio! Il signore di Alassio! Guarda, Guarda, è lui! E’ lui!-
La madre si voltò a guardarlo e lui credette di riconoscere la signora, ma non certo il ragazzino, il quale invece s’ostinava a salutarlo. Anche la madre sembrò riconoscerlo e si avvicinarono.
- Lei è il signore che ha salvato mio figlio nel mare di Alassio, si ricorda? E’ successo qualche anno fa, ma Paoletto non si è mai dimenticato di lei. La signora era contenta di rivederlo e mostrava una grande cordialità.
- Alassio? Ah sì! Certo! Il bambino che stava affogando. Non mi dica che è lui! E’ molto cresciuto e non l’avrei riconosciuto.
- A quei tempi aveva cinque anni, adesso ne ha dieci ed è molto sviluppato. Lei è stato eccezionale e se non fosse intervenuto, Paoletto sarebbe sicuramente morto. Mi creda, le saremo grati per la vita.
Infatti, un’estate di qualche anno prima, Alfonso e Marta avevano affittato una bella villa ad Alassio per trascorrervi due mesi al mare.
Un giorno il mare era molto agitato e i bagnini sconsigliavano di fare il bagno. Invece un bambino spericolato e disubbidiente s’era immerso in acqua. In men che non si dica, la violenza dei cavalloni l’aveva trascinato via e aveva cominciato a gridare. I bagnini avevano cercato di raggiungerlo con il pattino, ma venivano scaraventati lontano dalla corrente, dunque se nessuno fosse intervenuto tuffandosi in mare per salvarlo, il bambino sarebbe certamente affogato. Alfonso non ci aveva pensato due volte e s’era buttato, mentre Marta gli gridava di stare attento, ma lui sapeva che la moglie, in cuor suo, ammirava sempre l’altruismo e preferiva che lo facesse, che si mostrasse coraggioso e sprezzante del pericolo pur di salvare una vita umana. Aveva affrontato il mare e aveva creduto di non farcela e di annegare; poi era arrivato vicino al bambino e aveva visto che beveva acqua ed era già semisvenuto. L’aveva afferrato con tutte le sue forze e aveva nuotato sorreggendogli la testa. Quando era arrivato in prossimità della spiaggia, alcuni coraggiosi avevano improvvisato una catena umana per aiutarlo e aveva affidato loro il bambino. Era stremato e si stava lasciando andare, quando aveva udito le urla di Marta; allora aveva combattuto contro i cavalloni e la violenza della corrente. Ce l’aveva fatta ed era giunto a riva dove la moglie felice l’aveva abbracciato.
Paoletto non si era più scordato di lui. Adesso era lì davanti e gli sorrideva soddisfatto. Aveva degli occhi azzurri enormi che lo guardavano come un eroe.
- Come sta signore? Non faccio più il bagno quando il mare è agitato. Ho imparato. E sua moglie come sta? -
Il cuore di Alfonso subì un arresto e per qualche secondo non riuscì a parlare. Poi: - Io sto bene Paoletto, ma purtroppo mia moglie non c’è più. E’ morta - Dicendo queste parole, Alfonso sentiva un tremendo nodo alla gola. Vide il volto del bambino diventare serio e addolorato. La madre impallidendo esclamò:- Ma come! Stava così bene ed era tanto giovane! Non è possibile!-
- Purtroppo invece è così. Be’ Paoletto, sono contento d’averti rivisto. Ciao, stai bene. Arrivederci signora. Fece un gesto di saluto e s’allontanò. Aveva voglia di piangere e tirare calci. Si dovette invece contenere per non dare spettacolo e salì nella propria camera. Forse era meglio che riprendesse la lettura del diario per non pensare a Marta; così si dispose sulla poltrona con il libro in mano:
“ Vale la pena di annotare che, qui in albergo a Palermo, ho incontrato un ragazzino cui avevo salvato la vita quando ero a villeggiare ad Alassio con Marta. Era con la madre ed entrambi mi hanno riconosciuto e hanno voluto ringraziarmi ancora per averlo sottratto al mare in tempesta. Il bambino mi ha poi domandato di mia moglie e gli ho dovuto dire che non c’è più, che ha chiuso gli occhi per sempre”.
Ma com’era possibile leggere la stessa, medesima esperienza che aveva vissuto solo qualche momento prima? Alfonso si alzò e con rabbia lanciò il diario lontano. Lo vide atterrare sul tappeto con le pagine piegate e gualcite. Pensò che avrebbe dovuto restituirlo e andò a riprenderlo. Ne ricompose le pagine e s’accorse che adesso il solo guardarlo lo nauseava. Sarebbe stato meglio ritentare l’esperimento d’ipnosi con la signora Tagliabue per capire qualcosa dei meandri del suo subcosciente. Si decise dunque a telefonarle e a prendere un nuovo appuntamento. Rimasero d’accordo di vedersi sul tardo pomeriggio nella camera della signora. Così, dopo essersi riposato e rinfrescato, Alfonso bussò al numero 281 del secondo piano e gli venne ad aprire la signora con la solita parrucca nuova e con atteggiamento affabile.
- Ciao, benvenuto, vedo che ritorni da me. Mi fa piacere, credimi.
- Sì, ciao grazie, come vedi ho deciso di riprovare.
Alfonso si sedette sul divano, pronto a distendersi e cominciare la seduta. La signora invece era in vena di chiacchiere e gli offrì un whisky con ghiaccio. Dopo un po’ disse: - Adesso è tempo di cominciare la nostra seduta. Distenditi Alfonso e rilassati.
- Sono pronto, possiamo iniziare. Mi distendo e mi rilasso.
- Caro Alfonso, devi cercare di avere fiducia in me. Io voglio solo aiutarti. Ecco, adesso sei più rilassato. Non pensare a nulla, svuota la mente e cerca di dimenticare il tuo corpo. Sei sereno e riposato. Non hai nessuna preoccupazione. Rilassati, libera la mente. Il tuo corpo è leggero.
La voce della signora Tagliabue era divenuta suadente e profonda. Il timbro era caldo e lei parlava lentamente scandendo le parole. Aveva acceso il registratore e continuava: - Vai indietro con la memoria, molto indietro, sgombera la mente da ogni pensiero fastidioso e ricorda il tuo lontano passato. Dove sei Alfonso, con chi sei?-
Lui era abbandonato sul divano e teneva le mani appoggiate sul ventre. Restò in silenzio per lungo tempo, poi mosse il capo, strinse le dita sulla pancia e cominciò a parlare con voce diversa, nuova:
- Da quando sono morti i miei genitori sono andato a lavorare nel palazzo del marchese Valplatani a Carini. Mi trovo bene, seguo i lavori di ristrutturazione e faccio compagnia al marchese. Ho sempre avuto passione per l’architettura e questo palazzo è pieno d’opere d’arte di grande valore. Il mio sguardo fu attratto da un dipinto che si trovava sulla parete del salone e i miei occhi incontrarono lo sguardo della donna più bella che avessi mai visto. Una strana magia si sprigionava dal suo volto e non riuscivo a distogliere gli occhi. Il padrone di casa mi parlava ma non riuscivo a seguire le sue parole perché ero tutto preso da quella visione. Poi il marchese mi disse d’essere stato innamorato della donna del ritratto e che quando era andato via da Palermo, molti anni prima, aveva voluto portare con sé quel quadro. Adesso aveva bisogno di qualcuno che lo riportasse ai legittimi proprietari.
A questo punto, la signora Tagliabue s’intromise chiedendo: - In che anno siamo? Come ti chiami?-
- Siamo nel 1710 e mi chiamo Alfonso. Il marchese affidò a me il quadro da riportare a Palermo e io accettai perché m’ero innamorato della donna che vi era raffigurata. M’indicò che sarei dovuto andare nell’antica dimora dei Valplatani a Palermo e che avrei dovuto chiedere della signora Rosa cui affidare il dipinto. Qualche giorno dopo partì, recando con me il quadro. Fui ricevuto con molta affabilità dalla signora Rosa alla quale spiegai il motivo della mia visita. Fu lieta di sapere che lavoravo per il marchese Valplatani di Carini e m’invitò a fermarmi presso di lei. Viveva in quella enorme dimora con la servitù e con una nipote che in quel momento era assente. Non appena svolsi il quadro, lei vide l’immagine e rimase allibita. Disse che era perfettamente eguale alla nipote. Fui colpito da ciò e chiesi come si chiamasse la nipote. Mi rispose che si chiamava Marta. La signora mi consigliò di visitare il giardino. Mi avviai e scesi una grande scalinata ritrovandomi immerso nel verde e nel canto degli uccelli. Camminavo estasiato dal profumo e dalle essenze che avvertivo intorno a me. Stavo pensando alla donna del ritratto, quando lungo un vialetto alberato, scorsi una figura seduta a dipingere. Il mio cuore ebbe un sobbalzo perché riconobbi subito la donna del quadro.
A questo punto della seduta d’ipnosi, Alfonso cominciò a tremare e sussultare; la signora Tagliabue dovette intervenire: - Sono solo ricordi, non temere Alfonso, non ti agitare. Rimani rilassato, non temere.
Lui si calmò, lasciò andare le braccia che aveva contratto, e riprese:
- Era meravigliosa, un viso d’angelo, i capelli lunghi e soffici, gli occhi pensosi e le labbra morbide. Si mosse e mi vide, sembrava quasi che m’aspettasse. Gli occhi le si illuminarono e mi sorrise lievemente posando il pennello. Fece segno d’avvicinarmi e mi chiese chi fossi. Iniziò così la nostra conoscenza che doveva condurci ad un amore travolgente. Restai ospite a lungo in quella casa e Rosa si rese conto ben presto dell’intensità dell’affetto che ci legava. Uscivamo a passeggiare ogni giorno e i nostri cuori palpitavano insieme. Ci guardavamo e dimenticavamo il mondo intero. Le regalai come pegno d’amore un medaglione d’oro antico, di fattura pregiata, ottagonale e incastonato con pietre di giada, turchesi e corallo, appeso ad una collana d’oro massiccio. La signora Rosa diede il consenso alle nostre nozze anche se io non ero di nobili natali. Ci sposammo in una radiosa mattina di sole. Restammo a vivere in quel palazzo e fummo felici per qualche anno. Poi Marta si ammalò gravemente e nessuno riuscì a curarla. Io avrei dato la mia vita per salvarla e mi sembrò d’impazzire quando un giorno chiuse gli occhi per sempre.
Alfonso, in stato ipnotico, ancora una volta prese a sussultare e ad agitarsi. Sobbalzava ed era scosso da tremiti. Cominciò a singhiozzare disperatamente e la signora Tagliabue intervenne: - Calmati, dimentica, calmati, sono solo ricordi. Calmati, Alfonso rilassati, non temere, dimentica e non pensare più a nulla.
Poi accorgendosi che lui si calmava, continuò:- Adesso cerca di svegliarti. Lentamente ritorna in te, muovi le mani e svegliati. Fallo lentamente, con calma.
Lui iniziò a muovere le mani e poco dopo aprì gli occhi. La guardò stralunato: - Elvira, ancora non mi ha ipnotizzato?- chiese tranquillo.
- Altro che caro mio! Ti ho fatto cadere nel miglior sonno ipnotico e mi hai raccontato di quando vivesti nel 1710. A quanto pare, eri sempre lo stesso Alfonso ed hai avuto le stesse, medesime esperienze che vivi ora.
- Ma va! Possibile? Cosa ti ho raccontato scusa?-
- Che ti chiamavi Alfonso e che hai amato una ragazza che si chiamava Marta, la quale è morta all’improvviso. Comunque qui è tutto registrato e potrai riascoltare la tua voce quando vorrai.
Lui sembrava molto impressionato e allo stesso tempo, scettico. Si alzò, ringraziò Elvira per la pazienza e la gentilezza che gli aveva usato e prese il registratore che l’amica gli offriva.
- Ti sono debitore, cara Elvira, grazie ancora.
Uscì da quella stanza, ma non aveva voglia di ascoltare nulla. Posò il registratore nella propria camera e andò fuori a passeggiare e a respirare un po’ d’aria fresca. Avrebbe dovuto cenare ma gli era passato l’appetito e preferiva muoversi e vedere gente. Alle spalle, sentì qualcuno che sopraggiungeva e lo prendeva a braccetto: -Alfonso, anche tu non hai voglia di cenare?- Era Ignazio che gli sorrideva bonario e aveva un ombrello in mano.
- Sì, non ho fame e preferisco passeggiare.
- Se non ti da fastidio, passeggiamo assieme.
- Con piacere! Vedo che hai l’ombrello e in effetti minaccia di piovere. Dove andiamo?-
- Be’ avviamoci verso Piazza Massimo.
Iniziò a piovere e nel frattempo arrivarono davanti al teatro Massimo, il tempio della lirica di Palermo. Videro le locandine che annunciavano la rappresentazione de’ “La Traviata” e Alfonso guardò l’amico dicendo con fare invitante: - Che ne diresti di fare i biglietti?-
- Temo che non troveremo posti, oppure ci dobbiamo accontentare del loggione.
- Per me va benissimo. In fondo, i veri intenditori vanno sempre in loggione.
- Be’, proviamo Alfonso. Se non altro potrai vedere il magnifico foyer dove si trova la biglietteria. Bada che questo è uno dei più bei teatri del mondo.
- Lo so. Per questo ho curiosità di vederlo. E’ il capolavoro di Ernesto Basile. -
I due amici salirono una monumentale rampa di scale ai lati della quale si ergevano due grandi gruppi bronzei raffiguranti due leoni e due figure femminili. Entrando nel foyer, Alfonso fu colpito dallo splendore dei marmi e degli stucchi. Alla biglietteria, riuscì ad avere due biglietti per il loggione; non usarono l’ascensore, ma salirono per le scale che portano ai palchi e mentre Ignazio arrancava per l’età, Alfonso osservava l’imponenza delle strutture e l’eleganza dei decori. Si sedettero e poterono ammirare i dipinti che ornano l’enorme cupola e le fila dei palchi rivestiti d’oro e cremisi. Ignazio si piccava d’essere un attento conoscitore di melodrammi, un critico esperto di tenori, soprani e baritoni. Il direttore d’orchestra, secondo lui, sarebbe stato superlativo: - Ha sempre diretto con grande maestria, tiene in pugno l’orchestra e concerta le voci in maniera impeccabile.
Infatti quando la rappresentazione ebbe inizio, il direttore prese a dirigere con veemenza e si capiva che era molto bravo. La soprano era pure bravissima, una voce suadente e pastosa. Interpretava molto bene il personaggio di Violetta. Il tenore che interpretava Alfredo Germont era invece una frana! Aveva una voce tremula, miagolava, era uno strazio. Prendeva delle stecche a tutta forza. A un certo punto entrò in scena Germont padre, il baritono. Questi invece aveva una bella voce, calda, profonda, tonante, ben impostata. Cantava ed affascinava il pubblico. Poi baritono e tenore cantarono il famoso duetto. Il baritono sovrastava con la sua voce quella del tenore. D’un tratto dal loggione qualcuno gridò:
- Alfredo, unnu senti come canta tò patri? Picchì nun t’insigni?-
Esplosero delle risate! Il pubblico rumoreggiava. Anche Alfonso, pur non conoscendo il dialetto siciliano, aveva compreso il senso della frase e rideva.
Quella sera tornarono tardi in albergo. L’indomani mattina fu svegliato dal suono del telefono della camera. Rispose insonnolito e il portiere gli comunicò che c’era una signorina che lo cercava: - Una signorina? Che signorina? – fece Alfonso.
- Non so signore, se crede, glielo domando.
- Sì, sì, provi a chiedere.
E dopo, di nuovo il portiere: - Dice di chiamarsi Liliana Vinari. Cosa devo dire signore?-
Alfonso cercò nei meandri della sua memoria e ricordò quel nome.
- Dica alla signorina di accomodarsi nella mia camera.
Molti anni prima, l’aveva conosciuta in un liceo di Milano, ma poi era stata trasferita a Palermo di cui era originaria. Era un tipo vivace e intelligente, mora e simpatica. Insegnava italiano e latino nella scuola milanese in cui aveva appaltato dei lavori di ristrutturazione. Questo era avvenuto più di quindici anni prima.
Bussarono alla porta e, indossando velocemente la vestaglia, andò ad aprire. La penombra del corridoio non gli consentì di vedere bene la fisionomia di chi aveva davanti, ma riconobbe la voce:
-Alfonso! Sono Lilia! Ti ricordi? –
- Ecco! Ti facevi chiamare Lilia! Ma sì, sì certo, vieni avanti, che piacere!
Lei entrò nella stanza e Alfonso poté notare che il tempo aveva segnato i suoi lineamenti. Lilia disse: -Ti ho visto ieri sera a teatro e ti ho riconosciuto subito. Non sei cambiato, eppure sono passati tanti anni!-
- Accomodati Lilia; senti, siccome non ho ancora fatto colazione, se permetti la ordino e mi dici cosa posso offrirti.
- Un caffè andrà benissimo, grazie. –
- Come hai fatto a rintracciarmi?-
- Eri insieme all’avvocato Ignazio Pensabene che è ospite fisso di questo albergo, dunque ho provato a cercarti qui.
- Ma brava, hai fatto bene. Come va? Continui ad insegnare? Ti sei sposata?-
- Continuo ad insegnare ma non mi sono sposata, vivo da sola. E tu sei a Palermo con tua moglie?-
La solita stretta al cuore! Alfonso pensò che sarebbe stato bello essere a Palermo con Marta, invece strinse i pugni e rispose:- No, mia moglie è morta, un carcinoma l’ha uccisa.
Lilia aprì le labbra e le richiuse, poi con voce stentorea:- Non sapevo, Alfonso, non potevo immaginare, non sai quanto mi spiace. Coraggio Alfonso, bisogna sempre accettare la volontà di Dio. Quando ci siamo conosciuti eri uno scapolo impenitente e non pensavi affatto a sposarti. Conservo un ottimo ricordo di Milano e di quel periodo. Avevo tante colleghe simpatiche; con te poi avevo instaurato una bella amicizia, ed eravamo solo e soltanto amici, cosa rara tra uomo e donna.
- Sì è vero, è stato il classico incontro tra persone che avvertono un’immediata simpatia e affinità. Le famose affinità elettive che si istaurano tra individui simili. Mi somigliavi nelle idee, nel temperamento dinamico. Eppure non provavamo attrazione sessuale.
Alfonso aveva ammirato invece la sagacia dell’amica e la sua cultura non indifferente.
- No,- stava dicendo Lilia - nessuna attrazione, sebbene sapessi che tutte le mie colleghe stravedevano per te. Ma io ti ho sempre considerato solo un amico. Sai, in quella scuola mi trovavo bene, non c’era invidia, non c’era rivalità. Qui al Sud invece, l’invidia della gente la tocchi con mano e, se sei sensibile, ne soffri. La gelosia altrui ti punge l’anima, è come se non ti potessi permettere d’emergere e di avere buone qualità.
Bussarono alla porta. Alfonso si alzò e andò ad aprire. Entrò un cameriere che recava il vassoio della prima colazione.
- Comunque non mi hai ancora detto qual buon vento ti abbia portato a Palermo- fece Lilia.
A questo punto, Alfonso chiese scusa e s’infilò nel bagno. Poco dopo ne uscì già pronto e cominciò a narrare brevemente la storia del libro di racconti dove era raffigurato un viso identico a quello di Marta. Disse che era stato edito da una casa editrice siciliana e che per questo era venuto a Palermo. Raccontò del Diario di Alfonso trovato alla biblioteca regionale, che raccontava episodi della propria vita.
Lilia rimase allibita e disse: - Scusa, ma ce l’hai con te quel libro di racconti? Potrei vederlo? Mi piacerebbe conoscere il viso della tua povera moglie.
Alfonso andò a prendere il libro dalla borsa. L’aprì alla pagina interessata e lo porse a Lilia.
- Ecco, - disse- è lei. - Il suo sguardo era divenuto funereo.
Lilia guardò e vide un disegno molto sfumato in bianco e nero che rappresentava il viso di una donna.
- Somigliava a costei?- chiese.
- Non somigliava, era identica. Quello è il viso di Marta.
Questa affermazione lasciò Lilia perplessa perché non riusciva a capire come si potesse individuare una perfetta somiglianza in un ritratto appena tracciato e per giunta in bianco e nero. Non volle però approfondire la cosa. Disse invece: - E il famoso Diario? Potrei vederlo?-
Alfonso andò a prendere anche l’altro libro e lo diede a Lilia che lo guardò e si accorse che era molto vecchio e gualcito. Lo rigirò tra le mani, lo sfogliò e lo restituì. – Be’, certo quello che mi hai raccontato è molto strano, ma ora usciamo Alfonso, dai, ti porto a passeggio per Palermo.
Infatti uscirono dall’albergo e si avviarono verso una stradina secondaria ove Lilia aveva parcheggiato la propria auto.
- E’ una fortuna avere come guida una professoressa esperta di Palermo- disse lui.
Lilia avviò l’auto tra le strade di Palermo. Intanto conversavano piacevolmente e Alfonso diceva che nulla può ritardare le rughe dell’anima. Forse quelle del viso sì, grazie alla chirurgia estetica, ma nello spirito non si è mai quello che sei stato il giorno prima, poiché il tempo è implacabile e assottiglia la tua energia vitale.
Lilia intervenne dicendo che bisogna guardare all’eternità che di per sé è un concetto terribile perché non sappiamo esattamente cosa sia, eppure siamo destinati ad essa. - Sono d’accordo con Giordano Bruno che diceva che il tempo tutto toglie e tutto dà, ogni cosa muta ma nulla s’annichila.
- Macché!- fece Alfonso, - Ricordati, mia cara, che il tempo è denaro! Ogni giorno che passa ci avvicina alla morte. La cellula invecchia al momento che viene alla luce. Cioè si muore già nascendo.
- Ehilà! Ma che discorsi allegri! Alfonso, io ho più di quarant’anni, ma me ne sento addosso solo venti. Lo so che è una frase fatta, ma ti garantisco che chi è sereno e tranquillo, non fa caso alle ore che passano. La felicità piuttosto,che cos’è? Secondo me, consiste nel riuscire a guardare al futuro dandosi da fare per aiutare gli altri. Solo donando al prossimo si può essere felici e sperare di restare giovani nel cuore. Vedi, come diceva Sofocle, per chi sta male, una sola notte è un tempo infinito, per chi sta bene il giorno giunge troppo presto. Il segreto dell’eterna giovinezza consiste proprio nel donarsi agli altri e nel guardare al futuro.
- Secondo me- fece Alfonso- è da sciocchi voler guardare a tutti i costi al futuro prima che al presente. L’avvenire talora è un fantasma a mani vuote che tutto promette e nulla dà. Anzi non sappiamo mai cosa l’avvenire ci riservi. Pensa a me e a mia moglie Marta! Allora è meglio guardare al presente.
- Mi fai ricordare Seneca, diceva che si volge al futuro solo colui che non sa vivere il presente. Penso comunque che oggi tutti sappiamo vivere al presente, si tratta di come lo viviamo. Appunto per questo, sono convinta che bisogna vivere per gli altri. L’uomo è ciò che fa, il suo maggior valore consiste nel sapersi regalare agli altri. Non bisogna comportarsi da lupo verso il prossimo. Plauto diceva: “Homo est homini lupus”.
Erano nel frattempo arrivati a casa di Lilia, in un quartiere antico e residenziale. Lei gli propose di salire. Alfonso poté vedere un appartamento molto grande e sontuoso che risaliva ai primi dell’Ottocento.
- Ma vivi sola qui?-
- Sì, una donna viene ad aiutarmi per le pulizie, ma vivo da sola. Sai, la scuola e le lezioni private mi assorbono molto tempo. Oggi è sabato e non sono al lavoro perché è il mio giorno libero.
- Questa casa è molto bella. Complimenti.
- Grazie. L’ho ereditata dai miei genitori, erano degli appassionati di antichità.
Cominciarono di nuovo a chiacchierare seduti in salotto e si addentrarono nei meandri dei concetti della storia. Lilia affermava che conoscere gli eventi del passato è come fare filosofia traendola dagli esempi. Alfonso diceva che non si sfugge alla maledizione del tempo e che l’uomo distrugge tutto, sa distruggere anche il proprio passato. Lilia ribadiva che lo storico è il romanziere del passato. Poi, essendo molto legata alla tradizione della sua terra, affermò che ogni ricordo è come un richiamo, qualcosa che conserviamo e che lavora dentro di noi, perché la memoria è come il salvadanaio dello spirito.
- Ma tu sei credente? - chiese ad un tratto. - Cioè voglio dire, credi nella religione cristiana?-
- Quando era viva Marta- rispose tristemente Alfonso- ero divenuto credente e praticante. Da quando invece non c’è più, ho perso la fede e continuo a ribellarmi e a dire a me stesso che non può esistere un Dio così crudele da avermi tolto il bene più prezioso.
- Lo sai, io da quattro anni faccio la barelliera per gli ammalati che vanno a Lourds con il cosiddetto treno della speranza. E’ sempre un viaggio lungo e impegnativo perché i barellieri fungono anche da infermieri e devono prestare soccorso e aiuto ai tanti bisogni degli ammalati. Una volta, eravamo arrivati dalle parti di Napoli e mi trovavo a passeggiare lungo il corridoio del treno per non stare sempre seduta. Ad un tratto da uno scompartimento, ho udito provenire delle urla e sono andata a guardare cosa succedesse. Ho visto una donna con il viso deformato e con i capelli orribilmente scarmigliati che gridava e si contorceva. Due sacerdoti la sorreggevano e lei cercava di tenerli lontano e scalciava. Si è avvicinato un vescovo e mi ha spiegato che quella donna era posseduta dallo spirito del male. Mi sono sentita sconvolta e ho visto come quella donna digrignasse i denti e guardasse tutti con odio. Uno dei sacerdoti urlava: “A Lourds la Vergine santissima ti caccerà via! Ti caccerà via!” E la donna con gli occhi iniettati di sangue ribatteva: “ La vedremo! La vedremo! Quando arrivammo a Lourds, alcuni prelati vennero ad accogliere la donna e la portarono via in ambulanza. Il giorno dopo, mi recai alle piscine per aiutare gli ammalati a fare il bagno dentro l’acqua benedetta e mi accorsi che vi stavano portando pure la signora indemoniata. Incuriosita, corsi per rendermi conto di ciò che sarebbe successo e vidi un sacerdote che cercava di tenere lontani i molti curiosi, ma il solito vescovo consigliò di permettere a tutti di guardare. Infatti in breve tempo si era formata una vera folla e vedemmo la poveretta contorcersi e urlare paurosamente. La volevano immergere e lei invece si divincolava e scalciava. I capelli le si erano letteralmente drizzati sul capo e gli occhi erano infossati nelle orbite. Quando cercarono d’immergerla dentro l’acqua della piscina, cominciò ad urlare e a contorcersi in modo raccapricciante. Le sue urla rimbombavano e tutta l’acqua formava come delle onde. I sacerdoti cercavano di afferrare la signora, ma lei sgusciava come un’anguilla per non farsi immergere e bagnare. La piccola piscina sembrava divenuta proprio un mare in tempesta! Allora istintivamente sentii sgorgare dal mio cuore la preghiera dell’Ave Maria e le mie labbra, ad alta voce, iniziarono a ripetere: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te………” Subito dopo, tante altre voci ripeterono, in diverse lingue, l’Ave. Divenne un coro solenne, commovente. Gli idiomi erano tanti, ma tutti ripetevano all’unisono: “Ave Maria……”. A poco a poco, l’acqua della piscina cominciò a calmarsi e altrettanto la signora invasata iniziò a rilassarsi e a non scalciare più. Sembrò improvvisamente rasserenata e vidi ciò che non avrei più dimenticato: i lineamenti deformati presero a distendersi e a trasformarsi. I capelli si lisciarono e si normalizzarono sulla sua testa. Gli occhi divennero sereni e quieti. La bocca assunse un’espressione sorridente. Insomma la trasformazione divenne sbalorditiva e stentavo a credere ai miei occhi, perché quella donna non era più la stessa di prima. Poco dopo anzi, cominciò a ripetere anche lei l’Ave Maria.-
Lilia finì di narrare osservando Alfonso e s’accorse che il suo viso esprimeva tristezza e disagio, come di chi si senta tagliato fuori, estraneo, escluso.
- Sei fortunata- disse- la tua fede è salda e non potrà mai vacillare. T’invidio. Anch’io vorrei poter credere come te.
- Se vorrai, un giorno tornerai a credere, Alfonso; sai il Signore ti ha molto provato e ti senti solo, disperato, e non sai che Egli ti è sempre vicino.
Adesso il viso di Alfonso esprimeva scetticismo e nello stesso tempo dolcezza. I suoi occhi guardavano lontano e sicuramente stava pensando a Marta.
- Bisogna credere in Dio, amico mio, bisogna avere fiducia in Lui e accettare ciò che la vita ci riserva, anche il peggio. Comunque basta, dai usciamo- fece Lilia - ti porterò a visitare il palazzo dei Normanni, uno dei monumenti più belli di Palermo. -
Infatti uscirono, risalirono in macchina e lei guidando, prese a parlare dell’antico palazzo che fu castello degli emiri arabi. Disse che l’antico complesso fu ristrutturato ed ampliato dai re normanni che vi aggiunsero nuove torri e una splendida cappella Palatina. Spiegò che fu un’area fortificata, ricca di sale e giardini, che subì pesanti trasformazioni, ma conserva ancora preziose testimonianze dell’epoca normanna. Vedendo Alfonso interessato, continuò dicendo che vi era una torre Pisana, una sala dei Venti con grande quadriportico e altre sale che conservano tracce di finissimi mosaici, come la sala di Re Ruggero.
- Sono proprio curioso di vederlo, - fece lui.
Quando arrivarono, posteggiarono l’auto e impiegarono quasi tutta la mattinata a visitare il monumento. Alfonso rimase abbagliato appena entrò nella cappella Palatina. Lilia spiegò che i mosaici in oro zecchino, che rappresentano il Cristo Pantocrator, sono di una fattura particolare, e Alfonso s’accorse che da qualsiasi lato guardasse il Cristo, sembrava che gli occhi di Lui lo seguissero.
Lo riaccompagnò in albergo e Alfonso andò a pranzare. A tavola non trovò Ignazio e il cameriere gli comunicò che aveva già pranzato. Quindi salì nella propria camera e pensò che avrebbe dovuto prima o poi riprendere la lettura del diario. Così fece e si dispose a leggere:
“ Tutti gli eventi che mi stanno capitando da quando sono arrivato a Palermo hanno qualcosa di strano, anzi per meglio dire di straordinario. Talora non mi sento più padrone di me stesso e la cosa mi preoccupa. Ho conosciuto per esempio un’anziana signora che mi ha ipnotizzato e pare che, durante lo stato d’ipnosi, le abbia raccontato d’essere vissuto nel ‘700 e d’essermi sposato con una ragazza di nome Marta che poi è morta. Insomma queste cose mi fanno sentire come sdoppiato nella personalità e allora dei brividi mi pervadono e non sarei mai voluto venire a Palermo”.
Alfonso mentre leggeva, si sentì pervaso dai medesimi brividi e un altro pensiero gli attraversò la mente. Un pensiero terribile, angoscioso che lo fece sentire impotente, avvertì allo stomaco un senso di nausea e cercò di cacciare quel pensiero. In realtà aveva pensato di poter essere vittima di forze occulte e soggetto a una volontà più forte della sua. Ma non poteva essere vero, era una cosa assurda! Comunque non riusciva più a leggere e allora si alzò e andò alla finestra. L’aria umida e frizzante lo fece calmare. Vide passare un tizio con una motoretta sulla quale vi erano dei cesti pieni di mele. Pensò ad un suo amico che in Lombardia aveva una campagna dove venivano coltivati migliaia di quei frutti. Alfonso provò nostalgia per l’amico, per la campagna lombarda e per Milano. Fu preso dall’impulso di mollare tutto e tornare a casa, ma ancora una volta l’infatuazione per Palermo e il desiderio di capire la verità sul famoso diario ebbero il sopravvento. No, sarebbe rimasto, sarebbe arrivato a leggere fino in fondo, e intanto avrebbe avuto modo di continuare a conoscere quella città incantevole.
L’indomani appena sveglio, pensò di telefonare a Lilia. Quando la sentì rispondere: -Oggi posso invitarti a pranzo?- disse subito Alfonso - e Lilia: -Vieni tu piuttosto, t’invito a casa mia e pranzeremo insieme. Senti facciamo così: fatti portare da un taxi alla chiesa di San Domenico per mezzogiorno. Ascolteremo la messa e poi verremo qui a mangiare. Sei d’accordo?-
Alfonso pensando di non essere più andato a messa dalla morte di Marta, fu reticente.
-No Lilia, vengo da te all’ora di pranzo. Va bene alle tredici?
-Sì, va benissimo. Non vuoi venire a messa?-
-No grazie, no. Ci vediamo più tardi allora. Ciao.
Riagganciando il ricevitore, si sentì nervoso e provò un senso di disagio. Comunque uscì respirando a pieni polmoni l’aria primaverile
Palermo, quella domenica d’aprile, era splendente di sole. L’aria era molto tiepida e Alfonso pensò che avrebbe dovuto indossare un abbigliamento più leggero. Portava invece ancora il giaccone di pelle imbottito e sentiva caldo. Avvertì un piacevole odore di zagara e si accorse d’essere davanti ad una villa tutta piena d’alberi d’arance e mandarini. C’era un odore inebriante che metteva allegria. Questa città non finiva più di stupirlo! Si guardava attorno e vedeva le auto procedere con lentezza, quasi che i guidatori fossero ancora mezzo addormentati.
Arrivò dall’amica che erano le tredici in punto e Lilia lo accolse cordialmente offrendogli subito un aperitivo.
- Ti ho preparato tutte pietanze palermitane, compresa la cassata che ho fatto con le mie mani.
- La cassata? Ah sì! Ne ho sentito parlare.
- Si fa con la ricotta fresca, la pasta di mandorle e molta frutta candita.
- Come moglie avresti fatto felice qualsiasi marito. Ma dimmi, come mai non ti sei sposata?-
- Eh caro mio! Alcuni anni fa ero alle soglie del matrimonio, poi purtroppo tutto sfumò.
- Davvero? E perché? -
- Il mio fidanzato era un collega e insegnava lingua inglese. Originario di un paese vicino Palermo, era proprietario di molte campagne e tra le altre cose, produceva vino. Mi aveva fatto una corte serrata ed eravamo insieme da tre anni, quindi ad un certo punto, era stato lui stesso a chiedermi di sposarci. Avevo accettato perché gli volevo bene, desideravo crearmi una famiglia e avere figli. Per vendere il suo vino, ogni tanto si recava a Roma. Durante una di queste trasferte, conobbe una donna che gli fece perdere la testa. Considera, Alfonso, che era tutto pronto per il matrimonio, finanche le partecipazioni e i fiori per la chiesa. Mi disse invece che non mi voleva più sposare perché aveva incontrato la donna della sua vita e se n’era innamorato perdutamente. Ti lascio immaginare come ci rimasi! Pareva che il mondo mi crollasse addosso in quanto vedevo sfumati tutti i sogni e le mie illusioni. Ci lasciammo, ma dopo un anno tornò da me dicendo che s’era sbagliato e che quella persona non valeva niente. Voleva sposarmi, ma rifiutai dicendo che se l’aveva fatto una volta, anche dopo il matrimonio avrebbe potuto lasciarmi.
- Secondo me, hai fatto male,- interloquì Alfonso, – se l’aveva fatto una volta, proprio per questo difficilmente avrebbe potuto ripetere lo sbaglio. –
- No, sentivo che avevo perso la stima e la fiducia in lui. Infatti mi pareva di odiarlo e provavo sentimenti di vendetta. Poi capii che qualcosa, dentro me, s’era rotto e mi spingeva all’odio. Allora pensai che il male s’era fatto strada nel mio cuore e dovevo metterlo a tacere. Vedi, amico mio, quando ci accadono queste cose dolorose, lo spirito del male è sempre pronto ad aggredirci, a tenerci lontano da Dio. Le divisioni tra gli uomini non sono altro che il prevalere dell’odio e della discordia. E’ come se il maligno trionfasse. Allora dissi al mio ex fidanzato che potevamo restare amici e che non gliene volevo, ma lo avrei reso infelice sposandolo.
Ancora una volta Alfonso sentì riecheggiare quelle parole come rivolte a lui: “ Quando ci accadono queste cose dolorose , lo spirito del male è sempre pronto a tenerci lontano da Dio”.
Si misero a tavola e Lilia servì come antipasti delle panelle calde.
Subito dopo della pasta al forno. -Qui a Palermo la facciamo con ragù di salsiccia, uova sode, melanzane e mollica di pane. -
Successivamente, servì degli involtini alla siciliana con contorno d’insalata d’arance, aringhe e cipolle scalogne. Alla fine, mise a tavola la famosa cassata e quando Alfonso la vide, restò abbagliato dalla magnificenza delle decorazioni.
- Complimenti! – fece- Ma l’hai fatta tu o l’hai acquistata?-
- L’ho fatta io. – Poi cambiando discorso: - Senti, mi hai fatto vedere quel misterioso diario scritto da un Alfonso che ha vissuto la tua medesima vita. Prima non ho voluto dirtelo, ma la faccenda mi pare incredibile. E poi scusa, come hai fatto a trovare un diario se cercavi un libro di racconti?-
- Perché cercavo Diari, cronache e leggende, che inizia con la D come diario. E allora sotto quella lettera, casualmente, ho trovato: Diario di Alfonso -
- Mah! Un Alfonso del passato che narra la tua vita di oggi!
- Sì, hai ragione, ma il fatto è che lo sto leggendo e ogni volta vi trovo esattamente tutto quello che faccio.
- Non è possibile! Dici che il viso raffigurato sul libro è identico a quello di Marta. Ma come fai a dirlo se è un disegno molto sfumato e in bianco e nero?-
A queste parole, Alfonso sbarrò gli occhi: - Sfumato? Come sfumato? Sì, è vero, è in bianco e nero, ma è nitido e quello è il viso di Marta!-
- Non è nitido per niente. Comunque, Alfonso, devo dire che talora hai qualcosa di strano. Sei una persona razionale e intelligente e non capisco come tu possa inseguire un’immagine e un volto. E’ un po’ come inseguire un sogno perduto per sempre.
- E’ perché ho amato mia moglie più della mia vita. In effetti però ciò che mi succede da qualche tempo è parecchio strano.
- Hai mai pensato a consultare un sacerdote esorcista?-
- Chi? Ma vuoi scherzare? Smettila Lilia! C’è una spiegazione a tutto, e quel che mi succede sarà riconducibile al mio dolore e al mio tormento.
- Appunto. E’ dovuto al tuo dolore ed è come se la tua anima fosse avviluppata in qual cosa più forte di lei. Non te ne rendi conto, ma a momenti non sembri nemmeno tu. Diventi strano, cambi d’umore, come quando, al telefono, ti ho proposto di venire a Messa. E poi ripeto che sul libro di racconti, l’immagine è molto sfumata.
Quest’ultima asserzione fece stupire ancora Alfonso. L’allarmò.
- Ho capito. Lo farò vedere ad altri e se mi diranno che è sfumato, allora vuol dire che vedo cose che non esistono e sono matto.
Dicendo così, Alfonso era impallidito e gli occhi esprimevano molta preoccupazione.
- No, non sei matto. Ascoltami Alfonso. Ti sei allontanato da Dio e devi innanzitutto fare marcia indietro. Mi hai detto che tua moglie ti aveva fatto diventare un perfetto cristiano. Cerca di tornare ad esserlo.
- Non posso, non ce la faccio. Dentro di me tutto si ribella da quando Marta non c’è più. Con la sua morte, sono morto anch’io ed è morta la mia anima. Sono lontano da Dio anni luce.
- Ecco perché ci vorrebbe un sacerdote. Uno di quelli esperti in fatto di conversione e di esorcismo.
- Senti Lilia, per favore, lasciamo perdere questo argomento.
- Ma perché Alfonso? Potresti tornare sereno! Se ti riavvicinassi alla fede, potresti sentire Marta di nuovo vicina. Senti, io conosco un frate che si occupa di problemi come i tuoi. Te lo presenterò e ne parlerai con lui. Sei d’accordo?-
- No, scusami, ma proprio non voglio. Non ho intenzione di conoscere nessun prete o frate che sia. Mi tengo lontano da certa gente perché so che niente e nessuno potrà ridarmi Marta.
- Sì questo è vero, non si tratta di ridartela, bensì di farti riacquistare la pace. Non ti rassegnerai mai se non ritroverai la fede, perché solo attraverso quella potrai sentire tua moglie vicina. Marta è un anima beata, Alfonso, devi pensare a quanta fede aveva lei!-
- Aveva una fede intensa e profonda, - disse - era un’anima pura e devota come difficilmente se ne incontrano.
Aveva abbassato la testa e stringeva i pugni. Il suo dolore era palpabile e Lilia pensò di non avere mai visto tanta sofferenza sul viso di un uomo.
- Alfonso, il sacerdote di cui ti parlo si chiama frate Agostino. E’ una persona umile e bonaria, ti farà piacere conoscerla perché ispira simpatia e fiducia a tutti. Prenderò l’appuntamento e poi si vedrà.
- No, no, non prendere nessun appuntamento. Non ho intenzione di conoscere nessuno.
- Insisto e ripeto che prenderò l’appuntamento.
- Fa un po’ come ti pare. Io non verrò. Non ti prometto niente.
Qualche giorno dopo, Lilia incontrò frate Agostino e gli raccontò di Alfonso e degli strani fenomeni cui era soggetto. Il frate ne fu molto colpito e incuriosito: - Potrebbe trattarsi solo di suggestione e di un dolore così profondo che lo ha scosso e gli fa vedere cose che non sono. Oppure potrebbe trattarsi di una possessione che si manifesta solo a tratti per tenerlo lontano dalla fede. In ogni caso mi piacerebbe conoscerlo e parlargli. Fallo venire, Lilia, cerca di convincerlo.
- Credo che sarà difficile, ma farò tutto il possibile. Gli dirò che lei l’aspetta e che non può deluderla. Frate Agostino, preghi che il Signore lo illumini e lo convinca a venire.
- Sì certo. Vedrai che verrà. Tu comunque cerca di essere convincente.
Così in una bella domenica di giugno mentre fuori il sole splendeva alto nel cielo, Lilia si trovava nella hall dell’albergo e cercava di convincere Alfonso: - Frate Agostino ci aspetta. Di sicuro non vorrà convertirti e non dirà nulla che possa turbarti o darti fastidio. Vuole solo conoscerti perché gli ho parlato di te e s’è incuriosito.
Alfonso in un primo tempo pensò di acconsentire, ma provò una strana sensazione allo stomaco, come una specie di nausea. Rispose: - No, no, lasciamo perdere, il frate mi scuserà.
- Dai, Alfonso! Guarda che frate Agostino non ti mangia! Non fare il prezioso e vieni con me. Altrimenti dovrei dirgli che non hai voluto conoscerlo e faresti la figura della persona antipatica. Vai a mettere la giacca e usciamo. Il convento è un po’ lontano, ma andremo con la mia auto.
Provò ulteriormente a rifiutare, a mostrarsi restio, ma capì che non poteva ancora dispiacere l’amica, anche se tutto il suo essere fosse recalcitrante. Dunque suo malgrado, acconsentì e poco dopo uscirono. Lilia lo condusse in una zona nuova di Palermo e lui poté ammirare dei bei palazzi moderni e una zona residenziale. L’auto percorse strade e stradine e poi attraversarono un lungo viale alberato, molto ombreggiato e dove i raggi del sole occhieggiavano tra il fogliame degli alberi. Svoltarono a sinistra e furono in una strada appena fuori dall’abitato, dove lei fermò la vettura davanti un convento. Quando entrarono, furono accolti da un francescano sorridente e cordiale, ma alla sua vista, Alfonso iniziò a percepire i primi segni di disagio. Furono annunziati a frate Agostino. Entrarono in una grande sala e lo videro. Il suo sembiante era assolutamente angelico, con gli occhi azzurri, i capelli e la barba bianca. Il sorriso era dei più accattivanti, ma Alfonso si sentì gelare il sangue al primo sguardo. Il frate se n’accorse e gli andò incontro con fare paterno e stendendo una mano. Alfonso si ritrasse e non riuscì a stringergliela. Tutte queste sensazioni vennero però registrate dal suo cervello e ad un tratto incontrò lo sguardo del frate, il quale gli si avvicinò maggiormente. Provò come un senso di soffocamento. Portò le mani alla gola e si sentì mancare come già gli era successo dentro la cappella benedettina.
- Benvenuto Alfonso, figlio mio,- disse il frate, - è una vera gioia averti qui. –
Alfonso strinse i pugni e provò un forte disagio. Improvvisamente sentì di dover lottare senza sapere contro chi o cosa. Doveva lottare contro qualcuno che era dentro di lui e lo tormentava.
Frate Agostino continuava a fissarlo con sguardo insistente e Alfonso capiva e sentiva che poteva trovare aiuto solo in quello sguardo.
Ad un tratto Lilia lo vide retrocedere con gli occhi puntati e fissi sul volto del frate. Lo udì parlare con voce dura e perentoria come se si rivolgesse a se stesso:
- D’accordo, mi hai già plagiato una volta. Non potrai farlo ancora! No! Non voglio! Voglio tornare ad essere quello ch’ero quando c’era Marta. Non mi fai paura perché adesso c’è questo sant’uomo con me! Lui m’aiuta e mi difende e io posso batterti. No! Non mi fai paura perché Dio è dalla mia parte e mi vuole proteggere, mi vuole con sé, mentre tu sei dalla parte del male e vuoi perdermi. Cosa vuoi da me? Perché continui a perseguitarmi?-
Aveva detto queste ultime parole gridando, sbracciandosi e stringendo la testa tra le mani. Lilia fece un passo per soccorrerlo, ma frate Agostino la bloccò dicendo: - No, lascialo stare. Siamo di fronte ad un rarissimo caso di autoesorcismo. La mia presenza è fondamentale, ma è lui stesso che reagisce e trova in me la forza per cacciare il male che ha dentro.
Alfonso era pallido come un morto. Aveva afferrato due scope che erano a terra e adesso le brandiva come a formare una croce. Sembrava impegnato contro qualcuno che solo lui poteva vedere e sentire:
- Sei malvagio, ma non puoi restare per sempre vicino a me. Devi andare via, via, via! Vedi, faccio il segno della croce che portò nostro Signore e tu andrai via, via! Perché Cristo ha vinto, vince e vincerà sempre sul male. Allontanati da me! Te lo ordino in Suo nome!-
A questo punto vi fu un attimo di silenzio. Gli occhi di Alfonso erano stravolti e continuava a tenere in alto i bastoni delle scope, sempre a formare una croce. Era come se stesse combattendo una battaglia. Ma contro chi o contro cosa? L’aria era ferma e Lilia era molto impressionata. Frate Agostino invece continuava a fissare Alfonso. D’un tratto lo videro contrarsi e piegarsi su stesso come se avesse ricevuto un pugno allo stomaco. Poi lo videro crollare in ginocchio e gettare le scope. Strinse le mani al petto e cominciò a singhiozzare disperatamente.
L’atmosfera sembrava divenuta irreale.
Poco dopo, sempre in ginocchio, giunse le mani e iniziò a pregare con fervore improvviso. Anche il frate e Lilia si sentirono spinti a fare la stessa cosa e s’inginocchiarono.
Come quando il mare è in tempesta e lentamente si placa, così anche Alfonso che prima aveva sbraitato, adesso si calmava, aveva abbassato la testa e continuava a pregare. Pregava in silenzio. Nello stesso tempo inspirava ed espirava a fondo dando l’impressione di cacciare qualcosa di torbido e inquinato che aveva avuto dentro.
Frate Agostino gli s’avvicinò e gli pose una mano sulla spalla:
- E’ finita Alfonso, coraggio, se n’è andato e non tornerà più. La mia presenza è servita ad allontanarlo. La mia fede incrollabile l’ha battuto. Non chiedermi chi o cosa fosse. So solo che mi temeva e sentivo che stava combattendo contro di te. Allora pregavo, ti guardavo e cercavo di trasferirti con gli occhi la mia fede e la forza che mi viene da Cristo. Vedi, si è trattato di autoesorcismo, perché sei stato tu stesso a capire, reagire e combattere. In fondo non hai mai perso veramente la fede e adesso l’hai riacquistata completamente, dopo questa esperienza sarai di nuovo credente come quando c’era tua moglie.
Alfonso s’era alzato in piedi e finalmente aveva lo sguardo sereno. Nelle venature verdi dei suoi occhi traspariva il sollievo. Respirò a fondo e disse: - Sì, ad un tratto ho provato la voglia di scappare e allora ho capito che qualcuno mi teneva succube. La mia razionalità però non accettava questo e ho voluto ribellarmi. Si trattava di trovare la forza per oppormi e guardavo i suoi occhi, frate Agostino. Era come se una forza enorme ne scaturisse e, a quel punto ho visto per terra le scope. Le ho afferrate, sapevo che nel simbolo della croce avrei trovato maggiore forza e così è stato. Ho sentito come se avessi fuoco dentro. Ho provato un dolore lancinante allo stomaco, ma poi più niente. Niente. Solo pace. Mi sono sentito libero e leggero e ho provato il desiderio di pregare.
Lilia lo guardava commossa: - Se non l’avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto! Perché io ho visto tutto! Stavi lottando, Alfonso, ti volevo aiutare, ma frate Agostino mi ha fermata. Che cosa incredibile! Quando hai alzato le scope in aria, ho creduto che fossi impazzito. Ma le hai poste a forma di croce e allora mi sono commossa. –
- Secondo me,- disse il frate- tutti i fenomeni di cui sei stato vittima sono riconducibili a ciò che avevi dentro. Da questo momento, dovresti accorgerti che erano cose che vedevi solo tu. –
- Grazie frate Agostino, le sarò riconoscente per sempre. Ha insistito per conoscermi e sapeva che poteva aiutarmi. Infatti mi ha difeso e sorretto moltissimo. Grazie, padre.
- E’ la mia vocazione, faccio il sacerdote per aiutare gli altri. Non ringraziarmi. Credo di essere più contento di te per ciò che oggi è avvenuto e che sono riuscito a fare.
Lo salutarono e Alfonso volle abbracciarlo. Non avrebbe mai più dimenticato quello sguardo profondo che sembrava penetrare l’anima.
Avrebbe ricordato per sempre quel viso bonario dall’espressione dolce e mansueta.
Tornarono all’auto. L’amica guidava e lui aveva voglia di cantare, aveva l’animo libero e tranquillo come non gli succedeva da tempo. Si sentiva leggero e pensò che avrebbe dovuto continuare a pregare: - Lilia, poteresti accompagnarmi in una chiesa? –
- Certo! Sicuro che t’accompagno! Guarda, saliremo al santuario di Monte Pellegrino. E’la chiesa di Santa Rosalia, la patrona di Palermo. -
Ripercorsero la strada a ritroso e poi imboccarono un’altra direzione. Attraversarono il parco della Favorita che, come Lilia spiegò, fu la riserva di caccia dei Borboni. Salirono per la strada di Monte Pellegrino, da dove Alfonso poté osservare il panorama di Palermo. Si sentì commosso e lodò Dio per quella magnificenza. Intanto l’amica gli narrava la storia della Santa patrona che, nel 1624, salvò la popolazione dalla peste.
Lilia lo riaccompagnò in albergo e lui si sentiva diverso, trasformato, quasi un’altra persona. Si chiedeva cosa avrebbe detto Ignazio della sua strana avventura. Intanto ringraziò molto l’amica e salì nella propria camera dove aveva premura di rivedere il medaglione, il libro di racconti con l’immagine di Marta e il famoso Diario. Aprendo l’armadio, rivide subito il medaglione e restò di sasso perché s’accorse che era di metallo e di forma rotonda. La collana era d’acciaio e le pietre erano false, sembravano di giada, corallo e turchesi, ma in realtà erano solo delle imitazioni. Ecco perché nessuno l’aveva reclamato! La cosa era straordinaria! Ciò che prima aveva creduto identico al medaglione di Marta, adesso appariva diverso e solo vagamente somigliante. Davvero aveva avuto gli occhi annebbiati e comandati da una volontà che non era la sua. Pensò di guardare il libro di racconti e lo prese. L’aprì alla pagina dove era raffigurato il volto uguale a quello di Marta e di nuovo provò un senso di sbigottimento: l’immagine sfumata in bianco e nero mostrava un viso che solo lontanamente ricordava quello della moglie, anzi, a ben guardare, era troppo sfumato, quindi la somiglianza era molto vaga. Come aveva potuto vedere ciò che non era? Davvero aveva avuto gli occhi foderati di prosciutto!
Uscì fuori la finestra a guardare Palermo. La vista della città aveva sempre il potere di calmarlo. E infatti si tranquillizzò e pensò che ormai niente e nessuno poteva più spaventarlo poiché aveva il buon Dio dalla sua parte e l’anima santa di Marta che pregava per lui. Si rendeva conto comunque che quella città l’aveva incantato, la sentiva come parte di se stesso. Palermo! Magnifica città! Culla di civiltà antiche e di opere d’arte stupende. L’avrebbero dovuto nominare cittadino onorario perché l’amava più di un palermitano autentico. In lontananza udiva la sirena di un vapore che stava salpando e pensò che anche lui tra poco sarebbe dovuto partire e tornare a Milano. Quest’ultimo pensiero lo rattristò, ma poi si disse che sarebbe potuto ritornare sempre e in qualunque momento. La sua Palermo sarebbe rimasta lì ad aspettarlo. Sorrise e ricordò che avrebbe dovuto continuare la lettura del Diario. Continuare o ricominciare? E già! Avrebbe dovuto ricominciare da capo, per capire sin dall’inizio cosa vi era veramente scritto. E poi quel libro avrebbe dovuto avere un titolo diverso. Lui l’avrebbe intitolato: Diario palermitano.
Rientrò in camera e andò a prenderlo. Si mise seduto e iniziò a leggere accorgendosi subito che l’autore si chiamava Alfonso Zani e non Zanin come lui. Cominciò dall’inizio:
Palermo 18 febbraio 1910
Sono uscito dal carcere soltanto qualche giorno fa dopo una detenzione di trent’anni e ho deciso di scrivere queste memorie da lasciare alla posterità. Mi chiamo Alfonso Zani e ho sempre esercitato la professione di cappellaio qui a Palermo. Oggi ho più di cinquant’anni, sono un tipo smilzo ma molto alto, con occhi neri e una barba ormai tutta bianca. Non sono mai stato un bell’uomo, ma neanche brutto. Le donne comunque mi hanno spesso evitato. Io però ho amato solo la mia dolce Matilde, uccisa dal suo consorte che l’aveva colta in fragrante adulterio con me. Ma andiamo per ordine: di fronte alla mia bottega di cappellaio, trent’anni fa abitavano due donne, una giovanissima, Matilde, e sua madre Irene, anch’ella abbastanza giovane. La mia bottega era adiacente alla loro casa e appena la vidi affacciata al balcone, il mio cuore prese a battere violentemente per quella fanciulla dolce e tenera. La salutai e lei rispose al saluto. Le chiese quanti anni avesse e rispose che ne aveva sedici. Il suo sorriso e i suoi occhi mi fecero intendere che non le ero indifferente. Infatti spesso si metteva sul balcone e conversavamo amorevolmente. Un giorno però vidi arrivare in quella casa un importante notaio e seppi che Matilde era la sua pupilla. Dopo qualche tempo le due donne traslocarono e venni a sapere che avevano preso alloggio altrove. Le cercai e le trovai in un quartiere molto lontano. Mi presentai a sua madre e chiesi la mano di Matilde, ma donna Irene mi rispose che era già promessa al figlio del notaio. Mi sentii addolorato e domandai se la ragazza fosse consenziente a quelle nozze, ma lei non rispose. Continuai ad andare sotto la finestra della nuova casa di Matilde e lei mi disse che non voleva sposare quell’uomo perché ormai amava solo me. Ne fui felice e le proposi di fuggire assieme. Non volle acconsentire per non deludere e per non abbandonare la madre. Qualche giorno dopo anzi, Matilde fu condotta via e rinchiusa in un convento, giacché qualche lingua malevola aveva raccontato al notaio dei miei appostamenti. Andai anche dinanzi al convento per vederla e mi sentivo disperato in quanto ormai capivo che ne sarebbe uscita solo per recarsi all’altare con figlio del notaio. E così fu infatti. La mia dolce Matilde andò sposa ed io mi sentii l’uomo più infelice della terra. Un giorno andai a protestare a casa di sua madre ed Irene mi accolse affranta e addolorata perché sapeva che la figlia s’era sposata contro la propria volontà e che era infelice. Ma non avevano potuto fare altrimenti mancando loro la forza e l’ardire di opporsi ai voleri del notaio. Irene scoppiò in lacrime e mi raccontò la sua triste storia:
“ La mia vita è stata sempre tribolata e piena di disgrazie. Sono figlia di Corrado di Estamura, conte di Bagheria. Giovanissima, fui promessa sposa al barone Paolo Silincione, che io non volevo poiché era sgradevole, arrogante e violento, ma avrei dovuto sposarlo per forza. Un giorno mi trovavo a passeggio nei possedimenti di mio padre con la mia dama di compagnia. Improvvisamente inciampai in una tagliola e il mio piede rimase bloccato e ferito. Gridai ed ero terrorizzata perché la ferita sanguinava, ma improvvisamente dal bosco uscì un giovane bellissimo che corse in mio aiuto e in pochi istanti liberò il mio piede. Dopo lo fasciò col suo fazzoletto. Ci guardammo e l’amore scoccò all’istante. Disse di essere un cacciatore di frodo e che cacciava per sfamare la madre vedova e i suoi quattro fratelli. Era però addolorato per aver procurato la mia ferita. Restai incantata dai suoi occhi blu e dai suoi modi impacciati e cortesi. Ci rivedemmo molto spesso perché veniva sotto la mia finestra ogni giorno e il nostro amore cresceva sempre più. Poi egli scoprì il modo in cui introdursi di notte nella mia stanza e all’insaputa di tutti. Allora dormivamo insieme abbracciati e felici dopo lunghe ore d’amore. All’alba, il mio bel cacciatore fuggiva via ed io trepidavo nell’attesa di rivederlo. Sin quando un giorno, il mio ventre cominciò ad ingrossare e la mia dama di compagnia s’accorse che ero incinta. Ne fu esterrefatta e andò a comunicarlo a mio padre che andò su tutte le furie. Disse che m’avrebbe ripudiata per sempre. M’allontanò dalla sua casa e mi fece portare a Palermo in casa del notaio che era suo parente. Non potei mai più rivedere il mio amore perché egli non venne mai a sapere dove mi trovavo. Nacque comunque mia figlia Matilde e insieme conducemmo una vita di stenti perché il notaio ci trattava da serve e ci forniva il minimo per vivere. Poi egli riuscì ad estorcere a mio padre una promessa: quando la mia creatura fosse stata in età da marito avrebbe sposato suo figlio e le ricchezze degli Estamura sarebbero andate alla famiglia del notaio, visto che io ero figlia unica. Ecco perché chiuse Matilde in convento. Perché fosse al sicuro fino al momento delle nozze. Ma ormai è andata sposa. Rassegnatevi”.
Invece non mi rassegnai mai, pensavo sempre alla mia dolce fanciulla e saperla infelice faceva vibrare ogni corda del mio cuore. Allora mi informai dove abitasse col figlio del notaio e seppi che stavano in un quartiere ricco di Palermo. Mi andai ad appostare sotto il suo balcone e un giorno la vidi affacciare. Anch’ella mi scorse e i suoi occhi, nel rivedermi, furono colmi di gioia. Poi tornarono tristi e capii quanto soffrisse e quanto ancora mi amasse. Cominciai a perlustrare la zona e studiai tutti i vari accessi al palazzo. Così una notte mi intrufolai di soppiatto nei quartieri della servitù. Poi salendo ai piani superiori, finalmente trovai la stanza di Matilde. Ella dormiva da sola e non si aspettava di vedermi comparire. Si svegliò e stava per gridare, ma io le posi una mano sulle labbra e mi feci riconoscere. Fu estremamente felice e mi cadde tra le braccia. Il nostro fu un amore travolgente e appassionato. Ci amammo sino all’alba, dopo di che fuggii promettendo di tornare presto. Così mi recavo di notte da lei molto spesso, ma una volta, mentre eravamo a letto, vedemmo entrare come una catapulta suo marito che ci sorprese e sguainò una spada. Colpì per prima Matilde che cadde esanime. Poi si scagliò su di me, ma mi difesi ed ero disperato poiché vedevo il mio amore giacere in una pozza di sangue. Allora reagii e volli vendicarla. Afferrai un lume e lo fracassai sulla testa del marito che morì all’istante. Mi chinai dunque accanto a lei e piansi stringendola al petto. Nel frattempo erano arrivati i servi e dopo di loro gli sbirri che mi arrestarono e mi portarono in carcere. Vi ho trascorso trent’anni della mia vita, ma non mi sono mai rassegnato di aver perso Matilde e ho sempre pensato a lei.
A questo punto della lettura, Alfonso si fermò, alzò gli occhi e il vecchio diario gli cadde sulle ginocchia. Rimase con lo sguardo fisso e attonito dinanzi a sé. Ma come era potuto accadere? Come aveva potuto leggere ciò che non era? Vi era narrata tutta un’altra storia che non aveva nulla a che vedere con la sua vita! No, no, pareva impossibile! Era stato vittima e preda di una volontà più forte della sua! Allora si fece il segno della croce e improvvisamente sentì Marta vicina. Marta! Era lì, era con lui perché era nel suo cuore, e il suo cuore era vicino a Dio. Non avrebbe più continuato a leggere il vecchio diario. Ormai non gli interessava più e capiva che, da quel punto, Alfonso Zani aveva continuato a narrare tutti i suoi trenta anni di carcere, di coloro che vi aveva conosciuto, di cosa aveva visto e le avventure che aveva vissuto in prigione.
L’indomani mattina, andò a riportare alla biblioteca regionale il Diario di Alfonso, e consegnandolo gli sembrò di disfarsi di un peso fastidioso. Ancora non riusciva a capire come avesse potuto leggere qualcosa che non esisteva! Tornò in albergo e vide Guido in compagnia di Ignazio. Gli amici stavano ridendo mentre bevevano un aperitivo. - Alfonso! Ciao, – disse Guido- lo sai chi abbiamo visto poco fa? La signora Tagliabue con una parrucca bionda che la faceva sembrare una megera, ah ah ah ah ah. -Ma no! Che dici! Secondo me, - incalzò Ignazio - la faceva sembrare Marylin Monroe ah ah ah ah. Ricambiando il saluto, Alfonso ripensò alla signora Tagliabue. A quanto pareva, sotto ipnosi, le aveva raccontato cose assurde. A tal proposito, doveva andare ad ascoltare la registrazione. S’accomiatò quindi dagli amici dicendo d’aver bisogno di salire in camera e s’avviò.
Nella solitudine della stanza, accese il registratore e fu impressionato nell’udire la propria voce cambiata, alterata. Era come guidata da uno strano potere e stava raccontando un cumulo di fandonie. Pareva inverosimile che fosse proprio la sua voce! Alfonso ascoltò tutto sino in fondo provando un certo disagio, poi spense il registratore. Rifletté che non avrebbe dovuto raccontare niente a nessuno. Era meglio tacere. La strana esperienza dell’autoesorcismo sarebbe rimasta un segreto. Suo e di Lilia, ma difficilmente lei l’avrebbe raccontata, poiché si trattava di un argomento religioso e delicato. Quando la signora Tagliabue l’aveva ipnotizzato, non era stato in grado di controllare niente e una volontà arcana gli aveva fatto raccontare cose impossibili e false. Fantasie assurde, come il fatto che era sempre stato lo stesso Alfonso vissuto nel ‘700 e che aveva amato anche allora una Marta deceduta in giovane età. Se ci pensava, gli venivano i brividi e gli pareva d’aver vissuto un incubo. Per esempio il mancamento dentro la cappella benedettina, la strana visione avuta a Mondello o tanti altri fenomeni di cui era stato vittima: sicuramente anche quelli erano riconducibili ad una volontà che non era stata la sua. Ma adesso era tempo di tornare a Milano e di non pensare più a quella strana avventura. Il suo lavoro e la sua frenetica vita d’imprenditore l’avrebbero distolto da quelle angosce. L’indomani avrebbe salutato tutti: Lilia, Ignazio, Guido e la signora Tagliabue. E avrebbe salutato pure Palermo. Si rattristò al pensiero di non vedere più il mare e il cielo di quella città. Ma sarebbe tornato presto e sarebbe andato a spasso con i suoi amici tra le vie che amava come se ci fosse nato. Che cosa strana! Come ci si può innamorare tanto di una città? La Palermo della mafia, la Palermo dove rubano sempre i portafogli! L’aveva nel cuore e rimpiangeva di non averla potuta visitare assieme a Marta. Si girò e gli sembrò improvvisamente di sentire la moglie accanto e allora abbassando la testa, pianse come mai gli era successo da quando era morta. Era un pianto liberatorio, un pianto di rassegnazione.
Nel pomeriggio, chiese al telefono di poter parlare con la signora Tagliabue e quando rispose, le disse che avrebbe lasciato il registratore al bureau dell’albergo. Doveva ripartire e tornare a Milano, dunque la salutava e la ringraziava di tutto. Quella tentò di sapere qualcosa riguardo la registrazione, ma Alfonso tagliò corto dicendo d’avere premura perché doveva preparare le valigie. Poi scese nella hall, firmò un assegno di ventimila euro, lo chiuse in una busta e raccomandò al portiere che fosse recapitato alla cameriera Maria. Quindi chiese di prenotargli un volo per Milano per l’indomani e di preparargli il conto. Poco dopo, gli fu risposto che il suo aereo sarebbe partito alle 15,00. Quindi adesso doveva salutare gli amici e parlò al cellulare con Lilia avvertendola della sua partenza. Udì una voce dispiaciuta e Alfonso spiegò che sarebbe tornato presto, ma che nel frattempo doveva andare a controllare i suoi affari a Milano. Le chiedeva comunque di accompagnarlo all’aeroporto e l’amica si rese disponibile. Telefonò a Guido per salutarlo e per invitarlo a cena in albergo. Infatti quella sera, cenò con Ignazio e Guido e scherzarono ricordando le tante avventure vissute. Ma tornerai, vero Alfonso?- fece Ignazio. – -Credo amico mio, che difficilmente vi libererete di me. Ormai mi sono innamorato della vostra città e tornerò sempre. Anzi comincio a nutrire il desiderio di comprare qui una casetta e venire molto spesso a trascorrere i miei periodi di vacanza. - -Bene! Benissimo accidenti!- esclamò Guido con gioia, - noi conteremo i giorni per rivederti!- Si salutarono e Alfonso li invitò ad andarlo a trovare a Milano quando avessero voluto. - Mi raccomando, venite, vi aspetto e la mia casa sarà sempre aperta per voi. E’ una casa grande e potrete tranquillamente dormire da me.
L’indomani mattina, puntualmente Lilia era davanti l’albergo con la sua auto. Caricarono le valigie e si avviarono verso l’aeroporto. Quando arrivarono al settore delle partenze, ebbero la sorpresa di trovare Guido e Ignazio. Gli amici erano venuti a salutarlo e Alfonso si sentì commosso: - Mi avete insegnato che i Palermitani sanno voler bene e sanno rispettare gli amici. Non vi dimenticherò mai e vi prego di venire spesso a trovarmi. Io vivo da solo ormai e tutte le volte che verrete per me sarà una festa. - Guardò Lilia, poi: - Amica mia, vieni a trovarmi, ti porterò in via Monte Napoleone a fare shopping. – Lei sorridendo promise che sarebbe andata presto a trovarlo: - Prepara la stanza, Alfonso, sto arrivando. Tra poco inizieranno le vacanze estive e non dovrò più andare a scuola. Presto ti comunicherò la data d’arrivo. S’abbracciarono e lui andò a fare il check- in. Poi s’avviò al settore degli imbarchi e si girò a guardarli soffermando per un attimo gli occhi su Lilia. Alzò il braccio, salutò per un’ultima volta e scomparve.
Gabriella Cuscinà
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