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Cesare Baccheschi
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Inserito - 13/02/2005 :  12:14:00  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Cesare Baccheschi
Cara Luana non ti dimenticherò mai

Sotto una spessa scorza stagionata dai lunghi anni, bolliva ancora una lenta vita fatta di remissioni, di rinuncia, di silenzio, di terrore e di debolezza; di debolezza che immediatamente diventava forza per tacere, di rinuncia che immediatamente diventava volontà scottante che imponeva e non ascoltava remore.
Sapeva di soffrire per una semplice e stupida volontà, bizza del destino, che un giorno casualmente gli aveva fatto aprire gli occhi facendolo ritrovare sposato da venti anni; lo stupore fu molto;la presa di coscienza della sua situazione avvenne in una mattina come tante altre e a vederlo si sarebbe detto che questa cosa gli era scivolata addosso come pioggia su un impermeabile, tale era l’abitudine a non lasciar trasparire niente all’esterno. Continuò quindi a pensare di fare come fino ad adesso aveva fatto, cioè fingere spudoratamente amore, passione, credenza.
Questa sua scelta era dovuta ad un vago senso di autocommiserazione che lo faceva sentire terribilmente forte, spaventosamente al disopra di tutti gli altri, di modo che per non far soffrire la moglie aveva deciso di continuare a viverci assieme e di fargli credere che la stava amando, di modo che lei sarebbe stata contenta, e lui sarebbe stato un eroe che si era sacrificato per la felicità degli altri.Il suo errore fu di credere che la sua presenza era necessaria e che quindi doveva continuare a starci.
Ne era completamente convinto, totalmente assorbito da questa sua missione che addirittura si auto-convinceva di stare bene, di essere felice anche lui, di amare sua moglie e che quella era la soluzione migliore al problema; ma in realtà non era assolutamente così, stava semplicemente recitando, incarnando un personaggio, e dato che la ragione ogni volta si rifiutava di accettare questa situazione, metteva in ballo i sentimenti sedandoli e illudendoli con ideali. Questo in qualche modo gli riusciva, ma non bastava, aveva bisogno anche di qualcosa di più pregnante, e proprio per questo motivo si rifugiò nei sogni.
Scopri questa possibilità, una volta, durante la messa; durante le lunghe ore di attesa prima di uscire e di potersi andare a prendere il giornale all’edicola di fronte alla chiesa; prima di poter addentare il piccolo pane che la domenica distribuiscono alla uscita; si accorse che poteva assopirsi ad occhi aperti, con sogni, con desideri che in quella realtà potevano realizzarsi, e come con un iniezione di tranquillanti, far salire il torpore e calarsi in una dimensione onirica di compiacimento. I sogni addormentarono la sua coscienza, e impastarono il meccanismo del cervello con moralismo che fu oramai accettato e utilizzato come olio per far scorrere liscia la vita sulle rotaie , diritta, diritta fino alla morte, senza nessuna fermata.
Un giorno, come per caso , si accorse di avere un male incurabile , che oramai da molti anni covava dentro di lui; i dottori dissero che non c’erano speranze di guarigione, e che quindi la morte sarebbe stata imminente, essendo la malattia in una fase terminale.
Non fu affatto un duro colpo per lui, avrebbe lasciato la vita che non gli era mai appartenuta veramente tra qualche sofferenza in più; faceva in fatti la terapia del dolore, che lo privava di qualsiasi sensibilità corporea, lasciandolo per intere giornate tra il sonno e la veglia, tra lucidità e momenti di divagazioni pindariche che disegnavano grandissime paraboliche sopra quelle ore di incoscienza.
L’unica cosa di cui si avvide fu che sua moglie sarebbe rimasta tra dolore e solitudine, infelice.
Era proprio l’infelicità di sua moglie che gli procurò il maggior dolore; non tanto perché l’amava; non ostante tutto se ne era accorto anche lui che non provava più niente per lei, ma quanto per il fatto che si era fissato nel voler far sua moglie felice a tutti costi, per una questione puramente vittimaria.
Quindi pensò bene che l’ultimo gesto che gli spettava, il definitivo, quello che in una giornata qualunque sarebbe stata per la loro situazione una parola in più in un mare di parole insignificanti, ma proprio per il fatto che queste parole fossero pronunciate con il prezioso fiato di quei due respiri finali, quei due ultimi rantoli, avrebbero suggellato nell’eternità il significato di quelle parole nell’animo della persona a cui erano dirette, mitigando il suo dolore per il defunto. Era l’ultimo regalo che gli voleva fare e Proprio per questo in punto di morte avrebbe pronunciato il suo nome e avrebbe detto “non ti dimenticherò mai”.
La morte stava facendo lentamente irruzione nella vita del malcapitato che vide la sua indipendenza venire meno; vide la sua vita scivolargli dalle mani come una manciata di acqua e sfracellarsi a terra. Infatti non era nemmeno più in grado di bere senza essere imboccato.
Con il tempo la terapia del dolore non fece più effetto, il dolore era troppo maggiore in confronto alla quantità di farmaci che una persona avrebbe potuto assumere in un tale caso, quindi ogni volta che il dolore aumentava, Luana si sentiva chiamare e di fretta accorreva al letto del moribondo. Lui le prendeva la mano, la guardava negli occhi, e le diceva:
_”Luana non ti dimenticherò mai”.
A questo punto sarebbe dovuto morire, vista l’espressione di gravità definitiva che assunse la sua voce, ma non accadde assolutamente niente; Ci sarebbe dovuta essere, o almeno lui così si immaginava, uno di quei brani che mettono nei film e che celebrano la morte dell’eroe, strappa lacrime e anche drammatico. Ma ci fu solo un grande silenzio, al quale seguì la ripetizione della stessa frase, che aveva un suono ancora più stupido e insignificante.
Ci fu molto imbarazzo, ma la moglie allora, che pensava di aver compreso il malato, che sicuramente era troppo annebbiato del dolore e dalle medicine per essere attendibile, con la normale tranquillità di chi oramai si è rassegnato, provvide ad alleviargli il dolore con qualche piccola cura, come aggiustargli il guanciale, e stando vicino a lui fini a che non si era addormentato, cosa che stonava terribilmente con l’atteggiamento definitivo del malato.
Scene come questa si ripeterono due o tre volte al giorno, per almeno due mesi. Le parole persero il loro significato, senza però che i due se ne accorgessero, e la nuova routine si creò e proseguì e ognuno recitò la sua parte in questo dramma satirico, fino a che non giunse veramente il giorno della resa dei conti.
La morte si insinuò tra un istante e l’altro della sua mediocre e lagnosa esistenza, e serpeggiò nelle vene fino a che non ritenne quello essere il momento adatto, e così con un dolore vile e definitivo allo steso tempo, niente del dolore eroico che il malato si immagina, conficcò un colpo tra capo e collo al nostro eroe, che per il dolore imprecò in faccia alla moglie, svelandogli, con quei due ultimi sospiri che gli rimanevano,ciò che realmente lui era.
La morte poi provvide a chiudere per sempre la bocca e poi gli occhi nei quali rimase impressa l’espressione della moglie e della sua tardiva, nuova consapevolezza.
Così la sua missione di bene finì nel fallimento totale; la moglie infatti si accorse che l’espressione del marito nel momento della morte,che contrastava fortemente con quella che nel corso degli anni aveva conosciuto, mostrava una sincerità cristallina che era rimasta delineata chiaramente nel volto del marito e che il rigor-mortis aveva suggellato per l’eternità nell’anima della sventurata.

Cesare Baccheschi

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