Ideato e scritto da PaoloTalancaFILM: NON CI RESTA CHE PIANGERE
ANNO: 1984
REGIA:MASSIMO TROISI, ROBERTO BENIGNI
SOGGETTO:MASSIMO TROISI, ROBERTO BENIGNI
Premessa
Il film, di cui analizzerò alcuni aspetti in questo mio studio, ha due diverse versioni. Le sostanziali differenze della fabula sono concentrate nell’ultima parte, di cui esiste una versione lunga, differente rispetto a quella uscita nelle sale cinematografiche nel 1984.
Nelle pagine che seguiranno, darò per scontata la conoscenza della trama del film nelle due diverse versioni, anche perché la perfetta conoscenza della storia non è fondamentale al fine della comprensione di quanto verrò esaminando. La medesima indicazione varrà per il film Totò, Peppino e la malafemmina, nell’accostamento tra la coppia Benigni/Troisi e quella formata da Totò e Peppino De Filippo.
1. MOTIVI COMICI E RAPPORTO TRA DUE STILI E MASCHERE DIVERSE
Analizzando da vicino la psicologia dei due personaggi co-protagonisti del film Non ci resta che piangere, notiamo una riuscita complementarietà tra due maschere caratteriali che si supportano bene nella direzione di una perfetta resa comica.
Mario, interpretato da Massimo Troisi, riflette lo stereotipo del personaggio messo in mostra dall’attore napoletano nei suoi due film precedenti, Ricomincio da tre [1] e Scusate il ritardo [2]. Fedele al ruolo di antieroe per eccellenza, Mario si presenta carico di un personalissimo modo di vedere la vita, che impone alle pressioni, agli obblighi e alle scadenze quotidiane un proprio ritmo, al doveroso orgoglio e coraggio una propria strada. E’ pressoché un delitto inchiodare la descrizione del tipico personaggio troisiano in queste poche righe; basteranno, però, per cogliere il contrasto/completamento con l’altro co-protagonista di Non ci resta che piangere. Mario, ancora, sin dalle prime battute del film, fa capire di non gradire le intromissioni nella propria sfera privata, preferendo di avere a che fare quotidianamente con il proprio mondo e mal sopportando novità spiazzanti o intrusioni. Guarda il mondo con i propri occhi, non fidandosi di conclusioni altrui e cercando una propria strada, anche e soprattutto di fronte ai luoghi comuni.
Questo punto di vista è un forte topos del personaggio troisiano. Il comico, spesso, nei personaggi di Troisi, nasce dall’arte di capovolgere il luogo comune, proponendo soluzioni “fai da te” nelle quali il personaggio riesce a trovarsi a proprio agio e muoversi liberamente. E’ il caso della celeberrima battuta contenuta nel film Scusate il ritardo, con Lello Arena come degna spalla. Al campanello d’allarme lanciato dall’amico Tonino (Arena, appunto) circa la volontà di suicidarsi per pene d’amore, troviamo la spiazzante risposta di Vincenzo (Troisi):
T: Vince’, io mi uccido. No, no, non voglio pietà, non voglio compassione. Io mi uccido. Meglio un giorno da leone, Vince’. Eh? So’ meglio cento giorni da pecora? Meglio un giorno da leone, no?!
[Tonino è sempre più incalzante]
V: Sì, none, Toni’, meje… nnu saccie io… da pecora e da leone… fai cinquanta giorni da orsacchiotto, almeno staje in miezz’ e nun faje a figur e mmerd d’a pecora e nemmen ‘o leon ca però…camp nu jurn… che t’aggia dicere?
Funziona, in questo caso come in moltissimi altri episodi esilaranti dei film di Massimo Troisi, un meccanismo mentale che risponde a una sorta di autarchico artificio comportamentale, a difesa della propria identità e immunità dalle oppressioni della vita.
Troisi ribalta il luogo comune in maniera cosciente, cesellando espressioni nuove di conio che più si adattano alle proprie esigenze. E’ questo anche il meccanismo che si attua nel caso del titolo del suo primo film, Ricomincio da tre, dove il comune “ricominciare da zero” è piegato alle esigenze del personaggio, il quale almeno tre cose nella vita le aveva fatte bene e non aveva alcuna intenzione di resettare la propria esistenza. Questa è la strada che porta al meccanismo dell’artificio del comico delle parole, che Bergson ha analizzato nel suo libro Il riso. Saggio sul significato del comico.
Per Bergson “Si otterrà sempre una frase comica inserendo un’idea assurda in un modello di frase stereotipata” [3]. Va da sé che l’assurdità, nel caso dei cinquanta giorni da orsacchiotto di Troisi, sta nell’ apparente idiozia di voler trovare una soluzione a un dilemma che ha, come unica ragione di esistere, l’obbligatorietà di dover scegliere tra due alternative, senza la possibilità di una terza strada. Si ottiene, così, lo sberleffo all’imposizione orgogliosa di un luogo comune.
In Non ci resta che piangere, Mario, all’inizio del film, sembra già abilmente calato nella realtà, completamente in grado di controllare l’alterità secondo un proprio codice. Quando lo sfasamento temporale mescolerà le carte, Mario si troverà assolutamente spaesato nella nuova realtà. Sarà comprensibilmente, per quanto abbiamo detto finora, spaventato dalle novità, ma non tarderà ad ambientarsi nella sconosciuta situazione, avvalendosi della sopraccitata impermeabilità e ricorrendo a un personalissimo “piano di azione” con Pia. Si spaccerà per un compositore, cantandole, come fossero sue, alcune famose canzoni del XX secolo. Mario, come detto, ha paura di ciò che non conosce e a ogni domanda di Pia risponde con un secco “no”, per poi rendersi conto di aver sbagliato a negare, mutando di poco l’ipotesi insita nella domanda. Un esempio lampante ce lo dà il primo dialogo tra Mario e Pia, sulla porta di casa della ragazza:
P: Ma voi vestite… così…
M: Male?
P: No. Senza giacca, senza cappello. Siete un artista?
M: No. Sono… sì, un artista? Sì, già, eh sennò mi mettevo una giacca e un cappello no? C’ho tante di quelle giacche e cappello… e beh, però, sono un artista.
P: Dipingete? Fate il pittore?
M: No. No, sono… sono… faccio… il musicista
oppure la scena che vede Troisi, a cavalcioni sulle spalle di Benigni, intento a fissare un appuntamento con Pia, che sta al di là del muro che delimita il proprio giardino:
P: Ma che cavallo montate?
M: No, non è un cavallo. No, è una cavalla, una cavalla, è una… Saveria.
Mario ottiene una fiduciosa rispondenza dal mondo esterno, principalmente nella figura di Parisina, vero indicatore di successo sociale per segnalare la differenza tra Mario e Saverio.
Di tutt’altra pasta è l’altro co-protagonista del film, Saverio, interpretato da Roberto Benigni. Se, per vedere più da vicino nel personaggio troisiano, ci siamo avvalsi dei primi due film del comico di San Giorgio a Cremano, per Benigni possiamo ricorrere comodamente ai film che seguiranno Non ci resta che piangere. Comprensibilmente, la verve comica di Roberto Benigni risiede nell’istrionicità toscana, rappresentante un crogiolo di improvvisazioni da taverna in duelli in ottava rima e idealismo sentimentale di una poesia di Lorenzo il Magnifico o di una cantica di Dante. Benigni, in film come Piccolo diavolo [4] o La vita è bella [5] o Pinocchio[6] , incarna l’essenza di una energia spiazzante e confidenziale, capace di slanci sentimentali da sognatore inguaribile e soprattutto ingenuo. Proprio questo doppio registro è presente nel personaggio di Saverio, con l’aggiunta di una realtà che però boccia questi slanci e una inadattabilità al mondo che nel film si presenterà tanto nel XX quanto nel XV secolo.
Tenuto conto di questo slancio inappagato, Saverio escogita dei piccoli stratagemmi per cambiare le cose. Potrebbe rasentare persino la figura dello Jago shakespeariano, non a caso citato in un passo del film, quando Saverio vorrebbe conquistare Astriaha, la ragazza spagnola incontrata nel cammino verso Palos. Da qui, si capisce la soggezione di Saverio verso Mario.
E’ importante sottolineare che durante tutto il film c’è un tormentone rappresentato dalla sorella di Saverio, Gabriellina, che questi vorrebbe far sposare con Mario. Il film inizia proprio con i due amici che partono in macchina dall’ospedale in cui Gabriellina è stata ricoverata, in seguito a una forte depressione per pene amorose. Mario non ci pensa nemmeno a sposare la sorella di Saverio. Per Saverio quella sarebbe una prova dell’amicizia di Mario.
Emerge, da questo come da molti altri episodi del film, il carattere bambinesco di Saverio e la sua soggezione nei confronti dell’amico, al quale tutto sembra andare per il meglio. Saverio è convinto di colmare questa soggezione con la cultura e la furbizia. Anche il ruolo di maestro (Saverio), contrapposta a quella di bidello (Mario), aiuta a far credere a Saverio di avere le carte in regola per sopraffare l’amico, rendendogli ancor più inspiegabile la cruda realtà dei fatti e l’insuccesso con i personaggi e in amore.
Valga per tutti la battuta di Parisina, quando Saverio le comunica la decisione di partire per Palos, dopo aver riempito di insulti Mario, senza convincere la donna:
P: Addio Saverio. Salutami Mario e digli che io… che io gli ho voluto più bene che a t… uguale! Uguale…
oppure la scena tra Parisina, Saverio e Mario che precede l’episodio della lettera a Savonarola, che analizzeremo più avanti:
S: M’è venuta un’idea, forse, per far uscire di galera Vitellozzo.
P: No!
S: Sì!
P: Può essere? Grazie Mario.
S: No, che “Grazie Mario”?! Io dico, stanotte, non lui, non Mario, c’ho pensato e m’è venuta un’idea – forse, naturalmente – di parlare con una persona per far uscire di galera Vitellozzo e per star meglio tutti.
P: Davvero?!
S. Sì!
P: Grazie Mario.
S: Ecco, “Grazie Mario”
M [non comprendendo la situazione, ancora assonnato]: Ma ‘e che?
S: E che ne so?! “Grazie Mario”…
Saverio vive una situazione di alienazione già nel XX secolo. Per lui il salto temporale, all’inizio, è visto come una possibilità di riscatto, come un nuovo mondo da esplorare per iniziare una nuova vita. Dopo l’incredulità iniziale, appare entusiasta di uscire e incontrare nuova gente. D’altronde, lo slancio emotivo verso il prossimo è particolarità fondante del suo carattere. Dopo le prime esaltazioni, però, Saverio non trova quelle rispondenze che invece raccoglie Mario (da Pia e da Parisina), così prospetta un piano quasi diabolico: andare a Palos – inventando patriottici motivi per convincere Mario a seguirlo – per evitare la nascita, circa cinquecento anni dopo, del ragazzo americano che causerà i drammi amorosi della sorella Gabriellina. Durante tutto il viaggio, Saverio terrà in scacco Mario, forte di una maggiore cultura – anche se assolutamente sedicente e autoreferenziale –, convincendolo definitivamente del fatto che fermare Cristoforo Colombo sia l’unica salvezza per l’umanità. La cultura, come già ho accennato, è uno dei pochi e parziali riscatti da parte di Saverio verso Mario.
Da una parte, dunque, come detto, abbiamo Mario, con un rassegnato egoismo autodifensivo, che riesce a calarsi nella nuova realtà a poco a poco, con buona dose di successo nei rapporti interpersonali e senza darsi più di tanto; non si aspetta niente dalla nuova situazione e anzi ha paura a calarvisi. Dall’altra parte abbiamo Saverio, carico di sfrenate speranze volitive, che non riesce a realizzare i propri progetti e fallisce nel rapporto con le altre persone, pur annullando le proprie barriere autodifensive, ma facendolo credendo ingenuamente di ricevere un immediato riscontro; è pieno di aspettative, anche di riscatto, verso il nuovo tempo e vi si butta a capofitto ma, dopo le prime delusioni, come i bambini, si stanca subito e cerca malignamente di risolvere le situazioni in suo favore.
Tutto questo culminerà nella scena di sesso tra Mario e Astriaha (sogno amoroso dell’amico), con Saverio che piangerà in disparte, sorprendendo gli amanti (per poi vendicarsi, facendo fuggire la ragazza poche scene dopo).
In mezzo, troviamo scene perfettamente e consapevolmente comiche, col Benigni/Saverio avventato e bambinesco – capace, per ripicca ingiustificata, persino di escogitare tranelli e voltafaccia all’amico –, e il Troisi/Mario sempre razionale e sulla difensiva. Inoltre, l’eccessiva confidenza di Saverio e la smodata diffidenza di Mario creano contrasti assolutamente convincenti.
Si diano, per tutti, tre esempi, presenti nella versione lunga del film. Il primo si riferisce alla scena nella quale Astriaha accusa, infondatamente, Mario di essere “uomo di Alonso” (un probabile signore rivale), con Saverio che conferma subdolamente le accuse:
A [minacciando Mario e Saverio con arco e freccia puntata]: Sono tre giorni e tre notti che non dormo e non mangio per colpa vostra, da quando vi ho visti lì al fiume. Lo so che siete uomini di Alonso! Lo so!
S: Io?
A [rivolta a Mario]: So che tu, principalmente, sei uno di Alonso!
S [rinfrancatoe indicando Mario]: Lui…
M [cadendo dalle nuvole]: Chi è Alonso?
A: Tu sai bene chi è Alonso.
[Mario e Saverio si guardano disorientati]
A: Anzi, vai a dire ad Alonso che io ora vado in Spagna da mio padre e che lui verrà con un esercito. Poi vedrà lui cosa succede! E che neanche se manda cento uomini come voi perché io vi ammazzo! [sempre più minacciosa]
M [completamente in preda al panico]: Beh, calma signorina. Andate da vostro padre, da vostro cognato… io ci vado pure da Alonso e gli porto un’imbasciata picché sono una persona… così… voi mi dite: “Vai là, dici a Alonso che io vado da mio padre”. Io vado là e dico: “Mi ha detto la signorina (poi mi dite il nome)…” e tutto. Ma non lo conosco adesso.
[a questo punto Saverio barcolla con la testa, dimostrandosi titubante sulla veridicità delle parole di Mario (anche se lui sa bene che l’amico dice la verità)]
A: Vai da Alonso e digli che poi mio padre verrà con un esercito. E poi, così, io avrò mio figlio; ma mio figlio vero – capisci? – non quello finto, prodotto dalla menzogna, quello vero! [alza la voce e punta ancora la freccia contro Mario]
M [sempre più spaventando e gridando a sua volta]: Sì, ci vado, signorina! Ma non lo conosco, mi dovete dire dove devo andare! Picché Alonso… e togliete quella freccia… mi sento… ah!
A [sempre verso Mario]: Tu sei uomo di Alonso.
S [che assiste quasi soddisfatto e divertito a fianco a Mario]: Sì…
M: Non sono l’uomo di Alonso!
S [possibilista]: Mah…
A: Tu sei l’uomo di Alonso.
M [infuriandosi]: Ma guarda… non lo conosco Alonso!
S: Chi lo sa…
A [sempre più sicura]: Tu sei l’uomo di Alonso!
M [rassegnato e sbraitante]: Allora sono l’uomo di Alonso! Va bene?! Sono il fidanzato di Alonso! Ma guard’ nu poc’!
[Saverio annuisce soddisfatto].
Il secondo esempio si riferisce a una scena che, emblematicamente, sottolinea il tipo di comicità ricercata dai due registi e sceneggiatori, capaci di usare concetti dotti come mezzo risibile:
[Saverio è innamorato di Astriaha e fa credere a Mario di essere ricambiato. Così Mario lo mette in guardia dalle menzogne della ragazza, che ha già mentito loro una volta]
M: Stai calmo, nun parti’ accussì, innamorato. Poi questa è una bugiarda, è una che già, insomma…
S [sorpreso e incredulo verso l’amico]: Bugiarda?! Ma allora lo fai per… ma… ma hai sentito che ha detto? Lei ha detto…
M [riferendosi alla precedente bugia di Astriaha]: Ma se tu mi hai detto ca ‘u marit’…
S: Ecco, appunto, sì lo so. Quando stava per dire la bugia m’ha specificato prima, lei, dice: ora, che io gli dovevo dire… cioè, una che dice “Ora dica la bugia” è la persona più sincera che ci può essere. Eh?
[Saverio si rivolge, soddisfatto all’amico, che subito lo disillude]
M: No.
S: Come no?
M: No, picché, si un’ è buggiard’, dice la buscia, no? Quand’…
S: Ma lei l’ha detto pirma!
M [spazientito]: Ma fammi dicere na cosa a me!
S: Allora di’ la cosa te.
M: Eh: quand’ uno dice la buscia, si un’ è busciard, dint a chillu mument’ che ne sai se sta dicendo la verità? Nun può mai sape’ quand’ un’ è bugiard’.
S [che non c’ha capito molto e mostra francamente di non importarsene, anzi, confermando la sua tesi]: Vabbé, dai, prepariamo la roba.
E’ il famigerato “paradosso del mentitore” [7] che può generarsi dal concetto di metalinguaggio di Tarsky – se dico “Sto mentendo”, dico il vero o dico il falso? – ed è uno dei pezzi forti della comicità di Troisi, quella cioè di indagare concetti dotti tramite una rappresentazione comica, come nel caso della traduzione maccheronica del termine “inconscio” (“in testa”) del film Le vie del signore sono finite .
Il terzo esempio lo troviamo in una delle scene finali del film, quando Saverio, invidioso della storia d’amore tra i due, convince Astriaha ad abbandonare Mario, inventando una storia assurda:
S [col ghigno degno del peggior Jago]: Astriaha, ti ricordi quando ci hai aspettato con l’arco alla curva e Mario ha detto “sì, noi siamo uomini di Alonso”?
A [spazientita]: Sì, mi ricordo.
S: Era vero. Noi due… ma non t’arrabbiare, aspetta, fammi parlare Astriaha.
A: Parla!
S [in preda all’invida più atroce]: Astriaha senti: Mario e io, ma più lui che io, siamo due uomini di Alonso. Astriaha!
A [sorpresa e disgustata]: Voi?!
S: Noi.. lui! Perché io sono… aggiunto, così. Io non sono proprio di Alonso. Sono un uomo. Lui è proprio… Astriaha. E io gli ho detto: “Diciamolo a Astriaha che noi siamo uomini di Alonso” e lui mi ha detto: “Non glielo diciamo!”, hai visto come fa lui, “Non glielo diciamo, io… che me ne frega di lei. Io sono… sono schifoso, io” lui diceva a me. Io dico: “Perché?”, dice: “Perché sì. Io la voglio toccare quella bugiarda!”.
[Astriaha comincia ad agitarsi]
S: Stai calma. Poi ho detto: “Cosa vuoi fare te?”, e lui ha detto “Voglio toccare quella bugiarda” ha detto.
[Astriaha si accinge a prendere l’arco e le frecce]
S: Astriaha, no! Non con le frecce, te l’ho detto prima. Caso mai, se ti arrabbi… Astriaha non con le frecce. E poi, io non sono uomo di Alonso, Astriaha, non picchiare me. Perché se tiri la freccia a lui, ammazzano me. Hai sentito ieri? Ha parlato di Colombo e io gli ho detto: “Non la portiamo”. Lui dice: “Sì, portiamola”, perché Colombo è… è un torturatore di Alonso, mi scortica vivo.
A [completamente sorpresa]: Colombo?!
S: Sì, mi scortica vivo, Colombo. E’ uno tremendo.
A: Io vado via.
S [con sguardo compiaciuto verso Mario che dorme ancora, lontano]: Sì. Te gli vuoi bene al tuo Saverino, no? Mantre… sicché, se gli vuoi bene al tuo Saverino, va via.
[così la ragazza galoppa via lontano, lasciando i due amici da soli, per la compiacenza vendicativa di Saverio]
In generale, abbiamo un bell’esempio di descrizione del rapporto interpretativo tra Troisi e Benigni nel libro di Matilde Hochkofler Massimo Troisi. Comico per amore: “Strana coppia quella formata da Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere. Invece di lavorare fianco a fianco, sembrano bloccarsi a vicenda, ascoltarsi invece di porgersi le battute, come se fossero troppo rispettosi uno dell’altro. Sono entrambi personalità troppo forti per poter essere di volta in volta uno spalla dell’altro. […] Allungano le mani l’uno sull’altro come se il loro corpo d’attore fosse l’unico bene che possiedono, su cui poggiare tutta la storia. Ma in questa simbiosi comica sta anche l’originalità del film” [9]. Aggiungerei che i due riprendono entrambi qualcosa dei personaggi dei propri film, fatti e da fare, però nessuno dei due potrebbe definire la propria maschera comica senza l’aiuto dell’altro. Mario non apparirebbe abbastanza sornione, quasi sciupafemmine – e, infatti, i rapporti amorosi nei film di Troisi prevedono pene passionali anche da parte del protagonista. Saverio, al contrario, non avrebbe il movente per rappresentare il prototipo perfetto di toscanaccio dispettoso e bambinescamente burlaiolo – e, anche qui, nei film successivi il personaggio di Benigni si risolverà con un risvolto tenero e sentimentale.
A conclusione di questa prima parte, analizzerò il momento, forse, più conosciuto del film Non ci resta che piangere: il passaggio alla frontiera di Mario e Saverio che sono diretti a Palos e, arrivati al confine, sono obbligati a pagare un fiorino (la D sta per “doganiere”):
D: Eh! Chi siete?
M: Siamo due che…
D: Cosa fate? Cosa portate?
M: Niente, roba…
D: Sì, ma quanti siete?
M [guardandosi, divertito, con Saverio]: Due, siamo io e lui, dietro non c’è…
D: Un fiorino!
M: Si paga?
D: Un fiorino!
[pagano e passano la linea di confine. Ma cade un sacco al di qua della linea]
S: Oh! Scusi, il sacco! Doganiere!
[Mario fa cenno all’amico che andrà lui a raccoglierlo, così si accinge a ripassare la linea]
D [nell’attimo in cui Mario rimette il piede al di qua della linea di confine]: Eh! Chi siete?
M [volgendosi, incredulo, verso Saverio]: Quello che è passato adesso col carro. Ci è caduto il sacco qua.
D: Cosa portate?
M: Niente, quello di prima! Ma siamo passati proprio adesso. Stavamo qua ed è caduto il sacco.
D: Sì, ma quanti siete?
M [completamente incredulo e divertito]: Uno adesso, eravamo due quando siamo passati, mo’ uno, vado a prendere il sacco.
D: Un fiorino!
M [cercando un fiorino dalla tasca]: Perché era caduto il sacco no…
D: Un fiorino!
[Mario raccoglie il sacco e si accinge a oltrepassare nuovamente la linea per tornare al carro]
D: Eh! Chi siete?
M [ridendo a squarciagola]: Quelli di prima, so’ venuto a prendere il sacco…
D: Cosa portate?
M: Porto: ulive, caciotte, pane, un po’ di…
D: Sì, ma quanti siete?
M: Uno! Io! So’ entrato, sto uscendo, no?
D: Un fiorino!
M [pagando l’ennesimo fiorino]: Cioè, uno entra, esce, paga sempre un fiorino?! Siamo due, tre… sempre… Grazie, arrivederci.
[Mario riattraversa e dimentica una caciotta sul banco del doganiere. Saverio si volta e la vede]
S: Oh! La caciotta!
[Mario zittisce l’amico e, per non far succedere casini, si appresta a recuperare la caciotta, cercando di passare ancora il confine]
M: Senta…
D: Eh! Chi siete?
M: Ma vaffanculo!
[fragorosa risate dei due protagonisti. Poi, si allontanano col carro]
M: Eh!
D: Chi siete? Cosa portate? Sì, Ma quanti siete? Un fiorino!
La situazione comica, in questo caso, nasce dal sordo ripetere un comportamento meccanico da parte del doganiere. Secondo Bergson, infatti, “E’ comica qualunque situazione di atti e di avvenimenti, inseriti gli uni negli altri, che ci dia l’illusione della vita e la sensazione netta di un ordine meccanico” [10]. E’ quando captiamo il “meccanico nel vivente” [11] che in noi nasce la reazione di una risata nei confronti di una situazione comica. Ciò che scatena questa risata è il voler “punire socialmente” colui che si è macchiato di una distrazione, che non gli ha permesso di evitare la meccanica ripetizione. Se, dunque, il riso è la punizione sociale verso chi si macchia di un comportamento meccanico [12], il “Vaffanculo!” di Troisi trova gli spettatori completamente d’accordo e dà il via alla collettiva risata di fine scena.
2. NON CI RESTA CHE PIAGERE E TOTÒ, PEPPINO E LA MALAFEMMINA [13]: GIOCO DI CITAZIONI ED EVOLUZIONI DI UNA SITUAZIONE COMICA
La complementarietà fra Troisi e Benigni non può fare a meno di ricordare un’altra coppia di grandi attori comici del passato: Totò e Peppino De Filippo. In particolare, la vicinanza è forte nel film Toto, Peppino e la malafemmina. Esistono, infatti, rimandi chiari, nel film Non ci resta che piangere, ad almeno tre situazioni del film del 1956, oltre alla medesima importanza della teatralità per le due coppie. Due di questi rinvii sono, fondamentalmente, indizi filologici. Il primo di questi – che in realtà è il secondo, stando all’intreccio del film del 1956 – lo troviamo nella scena in cui Totò e Peppino si trovano spaesati a Milano, tanto da chiedere a un vigile urbano delle indicazioni. Totò dice a Peppino di tirarsi indietro e di lasciar fare a lui, poi si rivolge al vigile:
T: Scusi, lei è di qua?
V: Eh, sono di qua, perché? M’ha ciapà per un tedesco?
E’ la famosa scena del “Noio volevam savuar l’indriss” e Totò fa capire a Peppino di lasciargli fare.
Parallelamente, nel film del 1984, in una scena Benigni e Troisi – alla prima uscita, quindi spaventato e spaesato – si trovano nella piazza di Frittole e chiedono indicazioni a un passante per rintracciare il boia del paese. Anche qui, Benigni/Saverio, come Totò, fa la parte dell’esperto e dice a Troisi/Mario di tirarsi indietro il più possibile. Sia chiaro che da questo momento in poi la B starà per Benigni e la T per Troisi, visto che in questa seconda parte del mio scritto non è fondamentale la caratterizzazione psicologica dei personaggi (la P del seguente dialogo significa “Passante”):
B: Scusi, cercavo un signore, non so se lo conosce, lei è del posto?
P: Sì, sono del posto.
Il passante, poi, fuggirà quando sentirà le campane dell’ “ora di buio”.
L’altro rimando è presente più avanti, nel primo film come nel secondo. E’ un rimando terminologico, più che situazionale e, come detto, appare unicamente come un indizio filologico. Totò e Peppino entrano dietro le quinte del teatro in cui si esibirà la “malafemmina” e, appena entrati, vengono redarguiti da un addetto all’ordine, per poi essere interrogati, dal medesimo, sul motivo del loro trovarsi dietro le quinte. L’inserviente chiede:
I: I signori, innanzi tutto, mi devono dire: chi sono, cosa vogliono e chi cercano.
T: Ma che è un posto di blocco? Una frontiera? Un confine? Ma che… [allarga le braccia e dà inavvertitamente uno schiaffo a Peppino] Oh, scusa, mi stai sempre dietro! Insomma, nel paese nostro c’è più libertà.
Questo passo si può accostare al momento del passaggio alla frontiera e alle parole del doganiere nel film del 1984: “Chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!”.
Arriviamo, però, al pezzo che più di tutti unisce indissolubilmente i due film: l’episodio della lettera, rispettivamente, alla “malafemmina” e a “Savonarola”.
Riportiamo le battute delle due lettere.
Totò, Peppino e la malafemmina:
T [in dpiedi]: Giovanotto... carta, calamaio e penna, su scriviamo!...Hai scritto?
P [si siede asciugandosi il sudore]: Che ho scritto!? Un momento.
T [spazientito, inizia la dettatura]: Oooh... signorina... signorina...
P [girandosi a guardare]: Dove sta?
T: Chi?
P: La signorina!
T: Ma quale signorina!?
P [girandosi verso la porta]: E che ne so! Avanti!
T: Animale! Signorina è l'intestazione autonoma della lettera [riprende]... Ooh! Signorina...
[Peppino cambia foglio]
T: Non era buona quella "signorina" lì? Signorina, veniamo "noi" con questa “mia” addirvi
P: A dirvi
T: Addirvi. Una parola.
P: A dirvi una parola
T: Che
P: Che!
T: Che
P: Uno... quanti?
T: Che?
P: Uno... quanti?
T: Che?
P: Uno che?
T: Che
P: Uno
T: Uno che?? Che! Scusate se sono poche, ma settecentomila lire ci fanno, specie che quest'anno, una parola, c'è stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete! Punto! Due punti. Ma si, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum. Questa moneta servono acché voi vi consolate. Scrivi presto!
P: Conninsolate.
T: Che voi vi consolate.
P: Ah! Avevo capito con insalata.
T: E non mi far perdere il filo, che ce l'ho tutto qui.
P: Avevo capito con l'insalata.
T: Dai dispiacere che avreta...che avretta...e già, è al femminile, che avreta perché... [guarda Peppino interrogativamente] perché…
P: Non so.
T: Che è che non so?
P [interrompendo la scrittura]: Perché che cosa?
T: Perché che?? Ooh!! Dai dispiaceri che avrete... Perché è aggettivo qualificativo, no?!
P [indicando il foglio]: Ah! Perché qua.
T: Perché dovete lasciare nostro nipote, che gli zii medesimi che siamo noi, medesimo di persona.
[Peppino si asciuga il sudore]
T: Ma che stai facendo una fatica che ti asciughi il sudore? Di persona vi mandiamo questo [alzando un pacchetto con le mani ], parché il giovanotto è studente che studia, che si deve prendere una Laura...
P: Laura...
T: Laura.
T: Che deve tenere la testa al solito posto, cioè...
P: Cioè...
T: Sul collo. Punto, punto e virgola, un punto e un punto e virgola.
P: Troppa roba.
T: Lascia fare! Che dica che siamo provinciali, che siamo tirati. Salutandovi indistintamente... indistintamente... sbrigati! I fratelli Caponi, che siamo noi, apri una parente e dici che siamo noi, i fratelli Caponi.
P: Caponi.
T: Hai aperto la parente? Chiudila.
P: Ecco fatto.
T: Vuoi aggiungere qualcos'altro?
P: Io, insomma, senza nulla a pretendere, non c'è bisogno.
T: In data odierna?
P: Eh, ma poi?
T: Ma no, va bene, si capisce.
P: Si, si, si capisce.
Non ci resta che piangere:
[entrambi seduti]
T : Mi raccomando, Saverio! Non facciamoci riconoscere.
B: Stai tranquillo
T: Con educazione.
B: Caro...
T: Cerchiamo di fare una cosa…
B: Allora dettala te la lettera, eh?Vai!
T: Avanti! Caro Savonarola…
B: Aspetta! Prima la data, no? Frittole...
T: Frittole.
B: Quanto sarà?
T: Quasi millecinquecento.
B [con la faccia di chi gli cascano le braccia]: Frittole quasi millecinquecento?!
T: 'O 'ssaje tu quant' n'avimmo?
B: Perché tu scrivi una lettera "Roma, quasi duemila? "
T: Non lo mettere. “Estate quasi millecinque”, dai! Isso 'o sape.
B: Beh, aspetta mi informo io. Allora: caro...
T: Aspetta...
B: Caro no, mica è un nostro amico.
T: Aspetta, non scrivere subito...
B: San... San... Sant...
T: Santissimo Savonarola
B: Santissimo!
T: Come sei bello, per esempio, com’ si je vulissem mettere...
B: Non scrivo “Come sei bello”.
T: No, no.
T: Savonarola!!
B: Santissimo Savonarola...
T: Savonarola!
B: Quanto ci piaci!
T: Quanto ci piaci.
B: A noi due.
T: Almen’, già vere che simm' seguaci
B: L'esclamativo ce l'avrà?
T: Mettilo!
B: Vabbe'!
T: Allor, si nin si sape’ ca ce sta l’esclamativ’. Metti “scusa le volgarità”.
B: Scusa le volgarità... ma che volgarità? A Savonarola?
T: Pe’ chillo ogni cosa è peccato. E’ capa ca miett’ o punto esclamativo e dice: “Che è sto' coso qua? Un uomo con il puntino?” E allora noi ci mettimmo “Scusa le volgarità”.
B: Volgarita'. Allora mettiamo una freccia: “Questo è un esclamativo”…
T: No, no “scusa le volgarità… eventuali”.
B: Eventuali, perché?
T: Eventuali, pecché sennò... 'a vuo' scrivere come dico io o no?! Pecché, sennò dice: “Perché hann’ scritto “scusa le volgarità”? E se non ci stanno le volgarità, vuol dire che volevano essere volgari e non ci so’ riusciti?”.
B [acconsentendo suo malgrado]: “Eventuali”, punto... eh' come va'? no, non va!
T: Santissimo, noi... non...
B: Santissimo Savonarola, lascia vivere Vitellozzo.
T: Lascia... potresti lasciar vivere Vitellozzo?
B: Vitellozzo!
T: Se puoi, eh?
B: Savonarola!
T: Savonarola. Mo' adesso bisogna spiegare per bene perché lui fa così.
B: Anche a dirgli… lui è proprio uno che… eh, che c'è?
T: Appunto! E che è?
B: E che è? Diamoci...
T: No sol’ iss.
B: Diamoci, come dire, tutti insieme, una calmata, eh! Oh!
T: Eh! Tra parentesi.
B: Eh! Oh!
T: Poi scrivi, nel caso, scusa la parentesi... e che è, e che è? Qua pare… che ogni cosa, uno non si può muovere... che è? E questo e quello e, pure per te… Oh!
B: Questo e quello, oh!
T: Due persone, due personcine per bene, noi siamo due personcine per bene...
B. Che non facciamo male a nessuno...
T: Che non farebbero male nemmeno a una mosca.
B: Figuriamoci...
T: Figuriamoci ad un santo come te.
B: Figuriamoci ad un santone come te.
T: A un santone come te.
B: Anzi, varrai più di una mosca, no?
T: No, pare che lo metti in competizione.
B: Vabbe’...
T: Anzi, già spieg’ tutt’ ‘e cose.
B: Anzi, ciao!
T: No, no, no, qua ci vuole un saluto per bene… cioè da peccatori umili. Noi ti salutiamo…
B: Ti salutiamo con
T: Con... non sappiamo neanche noi
B: Noi...
T: Aspetta. Scrivi… ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi... proprio il massimo del peccatore.
B: Con la nostra faccia sotto i tuoi piedi
T: Sotto i tuoi piedi, senza neanche chiederti di stare fermo. Puoi muoverti.
B: Cioè, che vuol dire?
T: Che con la faccia sotto i piedi può camminare su due umili, capito?
B: Bellissima immagine.
T: Esatto.
B: E puoi muoverti quanti ti pare e piace e noi zitti sotto.
T: Va bene
B: E noi zitti sotto. Punto.
T: Scusa il paragone tra il frate e la mosca, non volevamo minimamente offendere. I peccatori di prima.
B: Dobbiamo salutare.
T: Con la faccia dove sappiamo.
B: Ormai gli si è detto.
T: I due peccatori con la faccia dove sappiamo.
B: Sempre zitti.
T: Sempre zitti.
B: Sotto!
Le analogie sono riscontrabili nel taglio cordiale e rispettoso delle due lettere, oltre che in rimandi allusivi, come “la testa al solito posto” e “la faccia dove sappiamo”.
Ora: mentre nel film del 1956 la telecamera è fissa, con Peppino intento a scrivere, quasi di spalle, e Totò in piedi a dettare – e ci sono solo un paio di stacchi con montaggio alternato, per mostrare la sorella in ansia nella stanza accanto –, in Non ci resta che piangere assistiamo a una carrellata da sinistra verso destra, introdotta da una musica allegra, che isola i due attori in mezza figura[14], posizionandosi quasi di sbieco, facendo esaltare la figura di Troisi che deve dettare. Poi, però, si eseguono un paio di campo-controcampo per riequilibrare il peso dei personaggi.
In Totò, Peppino e la malafemmina, dunque, Peppino che scrive è una spalla del protagonista Totò – e, in effetti, questi saranno i rapporti durante tutta la durata del film. Al contrario, il campo-controcampo del film del 1984 avvalora la considerazione succitata della Hochkofler, circa l’assoluto equilibrio della forza dei due personaggi. E’ una battuta di Benigni che autorizza Troisi a dettare la lettera; inoltre i controcampo-controcampo servono per evidenziare l’esecutore della prossima battuta: così succede quando si vuole sottolineare la pusillanime afasia del richiamo di Troisi a Savonarola – “e che è, e che è? Qua pare… che ogni cosa, uno non si può muovere... che è? E questo e quello e, pure per te… Oh!” –, oppure nella battuta di Benigni “Varrai più di una mosca”, riferito a Savonarola, prima di tornare su Troisi per la chiusa della lettera (si badi bene, però, sempre di sbieco e mai facendo dominare un personaggio sull’altro).
Nel primo film funziona unicamente il congegno comico della distrazione per meccanicità, che abbiamo visto nel caso della scena della frontiera di Non ci resta che piangere. E’ così quando Peppino si gira a guardare la “signorina” – comportamento che Totò punisce con l’offesa “Animale!”, che funziona come il “Vaffanculo!” di Troisi al doganiere –, oppure il fraintendimento “consolate” con “insalata”, o ancora lo scrivere sistematicamente “una parola”, quando Totò vuole solamente dare indicazioni ortografiche.
Nel secondo film, invece, funziona anche un meccanismo comico che Bergson chiama “inversione”.
Abbiamo visto che la meccanicità nell’umano è risibile perché rappresenta una anomalia rispetto al comportamento cosciente e “normale”. Se noi pensiamo alla normalità, nello spazio e nel tempo, ci rendiamo conto che uno stato di cose è, diremo, “normale” nel momento in cui ognuno ha un ruolo sociale, culturale o storico e rispetta tale ruolo. Ci sono, per Bergson, tre situazioni che capovolgono questo stato di cose, creando il risibile: ripetizione, inversione, interferenza delle serie [15].
A noi interessa la seconda possibilità: l’inversione, appunto. Dice Bergson: “Immaginate alcuni personaggi in una certa situazione: voi otterrete una scena comica invertendo le parti e facendo ripetere la situazione. […] E’ così che noi ridiamo dell’imputato che fa della morale col giudice, del fanciullo che pretende dar lezione al genitore” [16]. Con la scena della lettera a Savonarola abbiamo una certa allusione a questo meccanismo, con i due che vogliono “fare la morale” al predicatore. Però non è questo meccanismo comico che, principalmente, crea comicità in questa situazione. Ma c’è un altro luogo del film in cui il procedimento dell’inversione la fa da padrone. E’ la scena dell’incontro di Troisi e Benigni con Leonardo Da Vinci. I due sono convinti che Leonardo capisca al volo i loro progetti di costruire qualcosa per arricchirsi. Riamangono, così, delusi quando vedono che lo scienziato non comprende tutto e subito. A questo punto, Benigni desiste dal continuare a snocciolare confuse e assolutamente incomplete nozioni – tra le quali quelle per la costruzione del treno –, ma Troisi vuole proseguire da solo, per istruire Leonardo e fargli costruire qualcosa di vendibile, come il gioco della scopa:
[esterno sera]
T: ‘i capit?!
L: Sì, ho capito…
T [spazientito]: No, no, nun dicere “sì sì ho capito” e poi nun hai capit nient. Picché nun me ‘u ddicie? Dicie “non ho capit” e i’ tu shpieghe n’ata vot. Ma nun fa chillu là che ha capit. I capit o no?
L: Ho capito!
T: Ho capito però ti vec c’a faccie chi nn’i capit. Allora vabbè, allor proviamo, vabben? a regol e prim, fai attenzion: pigli ‘e qquaranda cart, ta ta ta ta ta ta, mischi, mett’ cà, pa pa, alz’
L: Alz, alzo per non imbrogliare!
T: Brav, brav, esatt, per non imbrogliare, ca un dice “ho alzat”: tre cart a te, tre cart a me. Per terra – Attenzione guard Leonà, nun me fa…! –, per terra ce sta: settebbell, asso di danar, ott’ e spad; tu in man tenn 'u ott’ e bbaston, che pigli?
L: Settebbellasseddenar!!!
T: Brav!! Settebbellasseddenar!! Allor o vid’ ca nun ‘i capit nient? e dici “sì sì ho capit”. T’aggie ditt quand’ sta ‘u ott pe’ tterra nun po’ piglià sett e una ott’, adda’ piglià pifforz ‘u ott!
L: Ma perché?!
T [completamente spazientito]: Mamma mia ma perché??? E’ ‘a regola, è 'a regol’ di 'u gioc proprij che dicie accussì nun po’ piglià!
B [appena rientrato nella tenda-studio]: Mario! Andiamo va, si va via.
T: O ma nemmen a shcop, è na cos’ proprie…
B: E lo so, è colpa nostra. Arrivederci maestro, grazie.
T: Arrivederci maestro, però mamma mia du Carmine ‘u fatt da…
L [in preda a una totale confusione]: Sette e una ott’, ott’, no…
L’inversione teorizzata da Bergson la fa da padrone. Agisce, qui, la distrazione, bergsonianamente intesa, da parte di Benigni e Troisi, di non capire che troppo tempo separa i due da Leonardo. Le nozioni da loro spiegate, inoltre, sono grossolane e incomprensibili, anche se attentamente ascoltate dal pur umile Leonardo: è un particolare da non sottovalutare il fatto che lo scienziato si esprima in napoletano per dire “Sette di bello e asso di denari”. Questo è sintomo di fascino e rispetto per qualcosa che lui assolutamente non conosceva; per questo non gli viene nemmeno in mente di tradurre in toscano.
L’enorme inversione è data dai ruoli che lo spettatore si immagina nella testa: è Leonardo che dovrebbe insegnare qualcosa ai due, e non viceversa. Benigni e Troisi non tengono conto abbastanza dell’intelligenza di Leonardo, diventando risibili. Alla fine, infatti, la normale gerarchia tra i tre personaggi verrà ristabilita dalla reale costruzione del treno da parte dello scienziato, che si confermerà assolutamente un genio.
Paolo Talanca
Montesilvano
18/04/2005
NOTE:
[1] Ricomincio da tre, regia di M.Troisi, 1981
[2] Scusate il ritardo, regia di M.Troisi,1982
[3] H.Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 73
[4] Piccolo diavolo, regia di R.Benigni, 1988
[5] La vita è bella, regia di R.Benigni, 1997
[6] Pinocchio, regia di R.Benigni, 2001
[7] Cfr. P. Casalegno, Filosofia del Linguaggio: un'introduzione, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, pp. 107-108
Le vie del signore sono finite, regia di Massimo Troisi, 1987
[9] M. Hochkofler, Massimo Troisi. Comico per amore, Marsilio, 1998, p.147
[10] H.Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 46
[11] Ivi. p. 51
[12] Cfr. Ivi. Prefazione a cura di Beniamino Placido, p. XIX
[13] Totò, Peppino e la malafemmina, regia di C.Mastrocinque, 1956
[14] Cfr. Tesi di laurea di Claudia Verardi, consultabile all'indirizzo http://www.napoletanita.it/troisi/tesi.htm , sez. "Non ci resta che piangere"
[15] H.Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 58-59
[16] Ivi. p. 61-62
BIBLIOGRAFIA:
• H.Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 2001
• P. Casalegno, Filosofia del Linguaggio: un'introduzione, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997
• M. Hochkofler, Massimo Troisi. Comico per amore, Marsilio, 1998
• Tesi di laurea di Claudia Verardi, consultabile all'indirizzo http://www.napoletanita.it/troisi/tesi.htm
FILMOGRAFIA:
• Totò, Peppino e la malafemmina, regia di C.Mastrocinque, 1956
• Ricomincio da tre, regia di M.Troisi, 1981
• Scusate il ritardo, regia di M.Troisi,1982
• Le vie del signore sono finite, regia di Massimo Troisi, 1987
• Piccolo diavolo, regia di R.Benigni, 1988
• La vita è bella, regia di R.Benigni, 1997
• Pinocchio, regia di R.Benigni, 2001
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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c'è se mai nessuno l'ha veduto
Edited by - PaoloTalanca on 22/04/2005 19:59:08