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Elena Pizzetti De Lucchi
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Inserito - 12/06/2005 :  14:16:28  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Elena Pizzetti De Lucchi
Ho cercato di ascoltarti

di Elena Pizzetti De Lucchi

L’aria fredda si insinuava tra le fessure della tua sciarpa nera. Chinavi istintivamente il capo per ridurre la superficie della pelle esposta al freddo e gli occhi scivolavano sulla luce bagnata e fredda dell’asfalto.
Infastiditi e ancora assonnati indugiavano sulla pelle morbida degli stivali cercando un riparo dove posarsi. Non potevi guardare tutto quel freddo grigio.Non lo reggevi più.
Tu eri lì ad aspettare il tuo treno. Intirizzita, picchiettando il piede destro nel tentativo di dimostrare a te stessa che eri sveglia. E le mani serrate a pugno nei guanti di pelle nera.
I tuoi compagni di viaggio con il sonno della notte ancora negli occhi si muovevano tra il bar e la sala d’aspetto. Composti e silenziosi con il gusto del caffè in bocca. Pensavi a tutte quelle tazze che aspettavano di essere lavate, ai cucchiaini sporchi e ai barattoli di zucchero rimasti aperti. Alla vita domestica lasciata in sospeso come in una calda bolla di sapone.
Alle colazioni consumate veloci di fronte alle fiammelle violette del gas guardando le lancette dell’orologio perché il treno del mattino non aspettava nessuno.
Riti di passaggio. Valigette, zaini, borse. Un piccolo mondo che partiva e ritornava, un universo scomposto fatto di piccole cose, fazzoletti di carta, penne, agende, trousse e bottigliette di acqua minerale, mazzi di chiavi, cellulari sempre accesi, giornali e libri in formato tascabile.
Quante storie si muovevano con te ogni mattina, quanti baci erano stati abbandonati sulle federe dei cuscini o sulle soglie di casa? E quanti sogni erano stati interrotti nelle stanze buie?
Tu mi dicevi sempre che viaggiare ti piaceva e che il mattino era il momento della confidenza con chi ti era intimo. Che raccontavi minuscole tessere di te lungo quel tragitto. Avevi un’amica, me ne parlavi spesso. La descrivevi come una bella donna. Ti era rimasta impressa la sua eleganza così naturale, ricordo. E le raccontavi di te incurante del fatto che chi ti sedeva vicino ti poteva ascoltare. “C’è una regola tra pendolari del mattino – mi dicevi – una specie di codice di rispetto istintivo. Ognuno a quell’ora si fa religiosamente i fatti suoi. E lo fa così bene che ti sembra di essere nel posto più appartato del mondo invece che su un locale affollato lanciato verso una qualsiasi città del nord”.
Dicevi che era una specie di magia, un minuscolo salottino della confidenza tra anime. E tu allora avevi un’anima sentimentale un po’ troppo animata. “Tanti amici amorosi – dicevi – per fare un uomo normale”. Non ho mai capito cosa tu intendessi per “uomo normale” e come tu potessi preferire rapporti così frammentari e inconcludenti a una relazione vera e appagante. Se non ti avessi conosciuto da così tanto tempo sarebbe stato più credibile. Ma proprio tu?
“Ho tutto quello di cui ho bisogno”. Mi mentivi. Ora lo so con certezza ma allora ne avevo solo un vago sospetto. Ti faceva comodo girare all’infinito su questa giostra di vite per non sceglierne nessuna. Non c’era alcuna coda da afferrare per vincere un altro giro. E anche se qualcuno te l’avesse offerta tu non avresti alzato il braccio per pura paura.
“Sono tutti uomini meravigliosi” mi dicevi. “Assolutamente unici come sei tu”.
Quando ti rividi l’estate del grande caldo in quel baretto affollato di Milano vicino alla Stazione Centrale avevo colto una tristezza infinita nei tuoi occhi. E una lentezza strana nei tuoi movimenti.
“I pendolari si riconoscono dal passo” mi dicevi per protestare contro la mia andatura romana troppo rilassata. “Noi abbiamo sempre qualcosa che potremmo perdere da un momento all’altro. Come chiunque del resto. Ma la differenza sta nel fatto che noi ne siamo sempre consapevoli”.
Lo dicevi per ferirmi perché io ti avevo lasciato andare senza affrettare minimamente i passi della mia vita verso di te. Eppure quell’estate tu avevi perso la tua solita fretta, era come se ti fossi rassegnata al caldo e alla sua indolenza. Così come alle tue storie sentimentali che si stavano avvitando sempre più strette lungo l’asse spezzato del tuo cuore. Vedevo l’ampiezza del tuo battito ridursi drammaticamente. “Anna, se continui così non sarai più in grado di dare davvero. Non puoi pensare di consegnare agli altri solo tessere frammentarie del tuo essere cercando di fare una distribuzione più equa possibile. Non ha senso”.
Mi sentivo il detentore di verità che in realtà non avevo mai posseduto e un po’ mi piaceva ascoltarmi. Mi guardavi stranita come se fossi diventato a un tratto un estraneo o se all’improvviso mi fossi allontanato per chilometri lanciato da una forza aliena in uno spazio che non era più il tuo.
“Devo andare, ora ho il treno e non posso perderlo” avevi detto perentoria. Così mi avevi lasciato seduto a quel tavolino appiccicoso di aranciate e coca-cola bevute troppo in fretta. L’ultima cosa che avevo visto di te era la tua splendida schiena che dettava la sua forma sinuosa al lino bianco della camicia e la immaginavo già appoggiarsi a un sedile di finta pelle per poi scostarsene immediatamente. Eri abilissima nell’evitare qualsiasi forma di appoggio soprattutto con le mani nude. “E’ un’abilità che maturi con il tempo se fai questa vita” mi spiegavi” Impari a toccare il meno possibile. Sei parte di un vagone ma solo idealmente. In realtà vuoi condividere con il resto la minor superficie possibile del tuo corpo”. Non ti piaceva la promiscuità eppure ne eri affascinata. Attratta come da un abisso. In fondo eri fissata con questa storia dei treni, quasi come se prenderli o meno tutti i giorni rappresentasse una differenza sostanziale della condizione di vita. Uno status symbol ribaltato. Dicevi che a me mancava l’esperienza promiscua, come la chiamavi tu con un vago tono radical chic che però non riuscivi a sostenere fino in fondo.
La mia colpa era non aver idea di cosa poteva accadere ogni mattina su un convoglio della metropolitana o su un vecchio vagone pendolare. E questo significava non vivere e non conoscere la città. I piccoli dettagli del suo mondo di strada. Perché solo su un mezzo pubblico puoi osservare con calma come parlano tra loro i sudamericani o che tipo di gestualità inesistente hanno i cinesi. E, soprattutto, sentire i bambini dell’est suonare il violino.
Un giorno mi avevi raccontato di un punto nella metropolitana di Milano dove la polvere di tutta la città si mescola in una patina grigia e densa che avvolge ogni cosa come una vecchia nuvola sfuggita con rimpianto al suo temporale. Mi era piaciuto questo paragone con una nuvola in fuga pentita, mi ero sentito spesso anch’io così.
“C'è un luogo di non respiro - mi avevi raccontato al telefono”.
Tu quel giorno eri in quel punto. E lì l'aria è solo fiato, e i rumori ronzio di passi e ossa in movimento incessante. Come in una spirale senza vento.
Ma in quel punto hai sentito una nota di violino. Tenera, troppo tenera per essere davvero malinconica. Una nota immobile, troppo ferma per vibrare nell’aria. Troppo limpida per trovarsi lì. E hai capito che era la nota di un bambino.
Sei rimasta a lungo immobile senza senso e senza vita, sospesa al filo della sua nota. Catapultata senza via di uscita nel suo sogno vuoto.
Tu mi dicevi che non potevo sapere come suonano questi bambini finché non fossi sceso nel ventre della città tutti i giorni per cercarli. E neppure l’avrei potuto immaginare. Io non capivo cosa potessero c’entrare i treni, le stazioni e tutti i mezzi pubblici di questo mondo con la musica. Ma non era solo la musica a vivere in questo mondo in movimento. Tu dicevi che il ritmo del treno era il compagno più poetico della tua lettura. E non capivo come l’essere in movimento poteva favorire la tua concentrazione fino a renderla poetica. Anzi. Come facevano a non distrarti i prati di brina della pianura che scorrevano silenziosi oltre il finestrino? O i tramonti invernali nei giorni tersi d’inverno che incendiavano le Prealpi?
Tu sostenevi che il treno era la migliore poltrona da lettura del mondo, che le parole scorrevano diversamente sui binari, che scivolavano più leggere e ti accompagnavano con una fluidità e un’energia magiche, di torrente in piena. E io sorridevo.
Chissà che strana tenerezza provavo per te, Anna. Chissà perché non ti prendevo seriamente e non riuscivo a considerarti oltre la bambina che sentivo vivere nelle tue parole. E ora che mi raccontavi di queste strane storie di amori ghigliottinati sul nascere non riuscivo a crederci fino in fondo. Sorridevo come a una bambina che ti racconta la sua storia preferita mescolando fatti e personaggi fino a ricreare una storia del tutto nuova ma che si ostina a chiamare con il titolo originale. Questi uomini erano ombre come quelle che incontravi ogni mattina andando al lavoro. Non potevano essere altro per te. Ombre di passaggio. Labili come la nebbia che ti inghiottiva al mattino e si dissolveva a mezzogiorno. Fuggitive come le nuvole bianche di primavera che correvano verso le montagne di Lombardia. Inconsistenti come il vapore che d’inverno appanna i finestrini della seconda classe dove una volta ti divertivi a tracciare con il dito simboli imperscrutabili.
Invece mi sbagliavo. Che stupido. Ti sei fatta rapire fino a prendere un treno diverso. Molto più veloce, molto più pericoloso. Un treno senza corsa di ritorno.
Un giorno te ne stavi seduta come al solito. Ma la mente era occupata: ti martellava in testa il pensiero di Francesco che aveva deciso di passare la sua vita tra le lacrime dell’insoddisfazione. “Una malattia dell’anima” mi avevi spiegato. “Una malattia della mente ti avevo risposto”. “Lascialo perdere” avevo insistito. Invano. Ti eri fatta travolgere dal buio della sua mente, da quel pozzo dove gettava qualsiasi emozione, anche la più bella. Solo per il gusto di poter accusare la vita di qualcosa.
Avevo appena terminato un intervento, ero stanco e mi avevi chiamato. Avevo dimenticato il telefono acceso. Mi doleva la testa. Un cerchio insistente come quello tracciato dall’orbita di un satellite che gira impazzito attorno al suo pianeta. Sapevo che eri in treno per quel sottofondo indistinto e rumoroso che accompagnava così spesso la tua voce, esaltandola per assurdo nelle sue note più acute, quelle che la caratterizzavano. Dovevi fare qualcosa per quest’uomo ma non sapevi cosa. Mi chiedevi un consiglio. Sembravi così preoccupata.
“Anna vieni a Roma ne parliamo. Devo capire in che rapporti sei con lui, ma qualsiasi cosa tu decida di fare, sappi che quest’uomo non è alla tua altezza, lo hai capito?”
No, non lo avevi capito. Intuivi che c’era dell’altro. Ti piaceva il suo lato poetico ma non avevi colto che la sua poesia nasceva solo dal terreno della sua sconfinata malinconia. Ti piaceva la sua leggerezza ma non avevi inteso che in realtà si trattava solo di precarietà. E il suo fondo di tristezza ti attirava e ti respingeva allo stesso tempo come solo un abisso che sprofonda nel mare può fare.
Così quella mattina non mi hai dato retta. Hai deciso di provarci. Ti sei lasciata scivolare lungo il crinale sassoso della sua mente. Gli hai consegnato la tua bella anima di bimba con tutti i suoi fiocchi colorati. Per lasciare che lui potesse disfarli uno a uno. Sei stata risucchiata nel vortice della sua depressione e ti sei fatta massacrare. In nome di un rapporto da costruire hai sacrificato la tua freschezza che a lui non poteva sembrare altro che gelo. Come poteva capire la tua delicatezza? Non sapevi che l’avrebbe chiamata durezza? Che il suo bisogno urgente di averti avrebbe cancellato ai suoi occhi ogni tua sfumatura? Che il tuo spirito libero sarebbe apparso solo come puro egoismo, pericolosa minaccia alla sua insicurezza?
Perché darti a chi non ti può capire? Che gusto ne traevi Anna?
Quella mattina la linea è caduta nel solito posto dopo il fiume, ti ho richiamata ma non hai più risposto. E così hai fatto per giorni. Per anni ti avevo parlato lungo il tuo tragitto in treno, ne conoscevo ogni stazione, ogni rumore, ogni rito. Dal tuo affanno sapevo quanto avevi corso per non perdere il treno, quanto sonno ancora ti girava in corpo. Quali sogni avevi fatto, se ne eri contenta o spaventata, che pensieri ti accompagnavano. Intuivo se la tua bocca sapeva di caffè o di pasta dentifricia alla menta.
E ora mi negavi il piacere di coglierti al mattino. Mi piaceva parlarti così nello spazio che intercorre tra la notte e il giorno, lungo i binari del tuo quotidiano ma ancora fuori dal suo recinto. MA tu non rispondevi più.
Sentivo che un punto nero ti aveva agganciata alla sua follia come un pesciolino argentato all’esca.
E ora stavi male. Così male da confonderti con la nebbia dell’inverno come succede al fumo tremolante di un camino. Così sono venuto a cercarti e l’ho fatto negli unici luoghi possibili: la tua stazione, il tuo binario, il tuo locale. Ti ho attesa a lungo quella mattina su una fredda sedia di plastica della sala d’attesa.
Ho respirato la stessa aria bagnata di nebbia che tu hai respirato per tanti inverni e ho cercato di sentire cosa hai sentito tu per anni. Ho guardato il volto di ogni persona perché anche tu senz’altro lo hai fatto almeno una volta e ho cercato disperatamente di riconoscere quello della tua amica. Ho bevuto il caffè al bar della stazione per vedere in viso chi te lo serviva e riconoscere nella mia bocca il sapore delle tue labbra. Ho sentito il fischio tormentato del treno in arrivo e ho pensato alla delicatezza dei lobi delle tue orecchie. Non ho potuto fare a meno di chiedermi su quali federe lasciano ora la loro impronta sottile. E quali note riescono a cogliere nel ventre della città.
Non c’è più la tua persona su questo treno ma è come se tu continuassi a raccontarmelo. Vagone per vagone, stazione dopo stazione.. Mi sono seduto e ho cercato di ascoltarti.

Elena Pizzetti De Lucchi


   
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