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 Noi, a noi stessi..
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giulietta fuocospento
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Inserito - 18/06/2005 :  20:53:38  Mostra Profilo  Visita la Homepage di giulietta fuocospento Invia un Messaggio Privato a giulietta fuocospento
Titolo: Noi, a noi stessi.

Ci tolsero le scarpe e le gettarono lontano, nella speranza che seguissero quella retta via che una sapiente penna aveva smarrito, nel passato.
Fu così che l’arida terra sgretolò, mortificò i nostri passi.
I nostri piedi muti e nudi,patirono l’ansia del cammino poi,dimenticarono.
Ci tolsero in fretta i vestiti, i più si avventarono sull’illusoria speranza di recuperarli…ma l’imponente monte variopinto di stoffe,tessuti e bottoni già
sormontava le nostre teste: il collo e lo sguardo faticavano a raccogliere la sontuosa visione.
Qualcuno, si abbandonò ad una vivace diatriba. C’era poi chi si abbracciava per non sentire freddo,chi si distanziava dagli altri per non sentire puzza, dato che l’olezzo dolciastro di sudore cominciava a librarsi nell’aere: ambedue i gesti, non è che avessero molto significato.
Un gruppetto di impuberi in fondo, cominciò un alterco: qualche graffio, una o due pedate, niente di eccezionalmente godibile, il tizio zoppo che si guardava sempre le mani, sedò il tutto. Si proseguì.
Un anziano signore dovette fermarsi: quando ebbe finito la minzione liberatoria lo vedemmo ritornare con un telone di plastica sudicio sulle spalle, a mo’ di mantello.
Fu il nostro Re, per bacco! Lo divenne subitaneamente. Lo seguimmo con quieta devozione, sentendoci potenti nella nostra sottomissione: ci bastava un lurido sovrano, una sozza maestà, in fondo. La nostra mesta parata fu ad ogni modo effimera, privarono il vegliardo del suo titolo e lo gettarono tra la folla: ritornò un chiunque spintonato da tutti. Fecero un autodafé col suo mantello. Lui, lo spodestato, non sopportò l’offesa: morì sul colpo.
Piangemmo, e i bambini disegnarono fiori di carta per lui e presero fuoco comunque.
Conclusosi l’encomio funebre, non ci diedero tempo per rassegnarci al dolore; ci sputarono addosso qualche parola scivolosa intimandoci di ripartite.
Poi, giacchè la realtà pone poliedriche sfaccettature in forme astruse: sbocciò un amore che la circostanza annaffiò con spruzzi di casualità e noia.
Lei, aveva una folta chioma ramata raccolta in una coda dondolante che ad ogni passo le regalava una parvenza civettuola, i suoi occhi: una metafora vivente della notte. Lui, un tizio smilzo e barbuto che faceva capolino dalle retrovie, rimase languidamente colpito dall’ondeggiare suadente di cotanta fulva meraviglia, e s’abbandonò silente ad un ipnotico sentimento.
Lei, sentì i suoi occhi solleticarle la schiena, roteò il lungo collo da cigno e vide: un ometto bruno col viso ottenebrato da un’irsuta macchia nera. Lui, colto in flagrante si nascose in un’espressione da timido orgoglioso e discostò appena il guardo.
Lei, s’apprestò a voltarsi così: voluttuosa e femminea, dopotutto.
Noi, che avevamo sempre avuto uno sfacciato interesse per le questioni altrui, fummo volgarmente e silenziosamente complici: occhiate ammiccanti, e appiccicoso paternalismo.
Così, vedemmo Lui- imporporato da una ventata d’imbarazzo misto coraggio-farsi spazio tra la folla per avvicinarla, gli venne la baldanzosa idea di tirarle simpaticamente l’ equina capigliatura. Lei, immaginando l’autore del gesto (oh! Muliebre ed impeccabile intuito) sciolse quei demoni fiammeggianti, quelle scintille ammaliatrici che lo avvinghiarono in una spirale di vanità. Lui, sentì arrivare alle sue nari un effluvio di more: quell’onda sanguigna l’aveva pervaso! L’aveva cambiato istantaneamente, non si dominò più, le si accostò dicendole:
-Tu, sei una civetta! E,mi permetto di aggiungere che sei pure furba, e questo è un guaio!-
- E perché?- disse lei, con pacatezza inopportuna, roteando appena il collo, per inquadrarlo.
- Perché un conto è: essere una civetta-media stupida diffusa ad ampio raggio, un altro è:essere una civetta-rara furba a tiratura limitata- disse lui, dandosi un certo tono.
- Certe persone riescono ad offendere per fare un complimento!tzè…! Comunque voglio darti un ultimatum: IN DECOMPOSIZIONE!- squittì lei.
-In decomposizione?! Ehm… -
-…-lei.
-No, no aspetta in decomposizione,cosa?- disse lui perplesso, interrogativo.
- Le tue sensazioni, emozioni, pensieri : sono in decomposizione! Il loro tanfo avvizzisce la mia pelle, ed insozza l’aria che respiro- disse lei, con sufficienza.
- L’aria che respiri però ti necessita per vivere!- rispose lui, risoluto.
(Noi, che continuavamo a camminare, pensammo in silenziosa unanimità, che l’idillio amoroso aveva qualcosa di pressoché ambiguo, l’esordio ne era una prova! Ma sorridemmo, chi più chi meno…continuando il nostro ruolo da spettatori smaniosi del “come va a finire”).
-Bene, allora morirò del mio vivere-disse lei, d’improvviso poetica e letteraria.
-Benissssimo Strega, non porterò alcun fiore variopinto al tuo funerale.- disse lui, che voleva annegare in quel mare rosso, accettando di rischiare,data l’ostilità delle onde.
-I fiori strappati dalla terra, sono anch’essi morti sarebbe un orrido omaggio- disse lei, beffarda e irresistibile.
-Omaggiare che sei esistita è orrido!-disse lui, nettamente poco convinto.
-Essere presente al divenire della tua vita è ancora più orripilante- disse lei, ancora meno convinta.
-Ne convengo, civetta!- motteggiò lui, sorridendole e tirandola per un braccio verso un luogo più appartato : vicino un gruppo di monaci buddisti, che camminavano con gli occhi socchiusi, persi in uno stato semi-comatoso.
Noi, sospirammo e ognuno nel suo sospiro ci mise quel che voleva.
Ci tolsero i piedi e le gambe, con metodo. Dimenticammo così, il piacere fisico di raggiungere un luogo o di allontanarcene, di correre a perdifiato fuggendo lontano,o di passeggiare indolenti senza una meta.
Loro, gettarono con sdegno malcelato i nostri arti inferiori a certi famelici “cani rabbiosi”, che abbaiavano violenti ai margini della strada.
Sbranarono la nostra dinamicità, con ferocia.
Continuammo a camminare , infatti, ci dissero che disponevamo dello spirito delle nostre gambe, che potevamo ancora usufruire della forza contenuta in esse: di quell’ alito di vita che le spingeva ad andare avanti.
L’assenza delle gambe fu per molti,inaccettabile: c’era chi si accasciava disperato, chi cercava di strapparle dalle fauci bavose.
Era appena trascorso il mezzodì ed era una giornata senza sole.
Parlavamo del più e del meno e ci accorgemmo che più o meno non avevamo niente di cui parlare. Ci guardavamo intorno, cercando uno scopo, forse una scusa. Cercavamo il modo più indolore per non pensare…
Ci privarono anche dell’apparato riproduttivo, sia maschile che femminile. Dimenticammo così, il piacere di generare una discendenza, di moltiplicare le nostre speranza all’infinito, di passare lo scettro delle illusioni ad un altro individuo.
Le donne soffrirono più di tutti, molte si dissero inutili, ormai. Si cercò di consolarle, invano, così asciugarono le loro lacrime al vento. Ed il vento, a sua volta, si dissetò col sapore agrodolce delle loro speranze violate.
Il sole stava ancora appeso al cielo : i suoi raggi sghignazzavano dietro le nostre spalle ricurve.
Decisero allora, crudeli e perentori, di far fuori anche il nostro apparato digerente o pancia che sia: bestemmiando il piacere della sazietà, allontanandoci dall’inutilità dell’ingordigia, e preservandoci dall’acidità di stomaco.
Il pomeriggio s’era già inoltrato, ed i bambini cominciarono a risentire della stanchezza di un giorno cominciato alle luci di un alba sbiadita o forse eravamo noi che proiettavamo su di loro questa sensazione.
Lui e lei, tubavano impigliati nella loro commedia amorosa. Noi ormai, eravamo diventati spettatori distratti ed annoiati, privi di speranza per il futuro ( o privi di un futuro?), immobili fisicamente ma mobili spiritualmente, sazi di un nulla che ci ciberà per il viaggio.
Loro, ci guardavano con rispetto misto pietà. E la pietà, si sa, è una merce di poco prezzo che arricchisce pur senza un guadagno chi la dona e impoverisce chi la riceve pur senza una perdita.
Ci aspettavamo qualcosa, e l’attesa disegnava sui nostri volti,bislacchi punti interrogativi che mutavano, a seconda delle fisionomie.
Punti interrogativi che diventarono punti esclamativi quando ci tolsero il torace, petto. All’anima del nostro busto però, lasciarono attaccate le braccia penzolanti: una beffa ben congeniata.
I bambini, ne risero. Seppero cogliere quell’ironia che s’annida nella cruda realtà.
Cosa che le nostre menti adulte forgiate nello stampo della razionalità, ignoravano, precludendosi una sfera della quotidianità dove per ogni disperata verità reale troviamo una gioiosa verità astratta.
Cominciò a piovere ma non ne fummo stupiti. Loro, sfoggiarono ombrelli multicolore che irradiavano la nostra passeggiata di una luce spenta.
Si vociferava nelle prime file di un tizio pingue dalla pelle bruna, che aveva tentato la fuga, e che quel tentativo l’avesse corroso interiormente( per quel che ne restava)tanto da perdere se stesso e la sua triste assennatezza: immolandosi così alla consapevolezza d’essere perduto.
O di quella anziana signora, che con voce di miele raccontava ad un bimbo dagli occhi smeraldini la storia “Della pioggia e delle parole”. [ Le gocce di pioggia: sono le parole dei bambini che sono salite in cielo a trovare un anzianotto canuto dal farfallino a pois rossi. Terminata la visita, ritornano sulla terra sottoforma di goccioline, felici di voler raccontare quei segreti di cui l’anziano le aveva arricchite, ma si ritrovano dinnanzi una novità: il bambino è già grande e munito d’ombrello si riparerà,non rischierà insomma.. di bagnarsi con ciò che è stato o con ciò che avrebbe dovuto essere. E ti ho spiegato perché la pioggia leggera sia più fastidiosa di quella torrenziale e come non sia poi così logico e scontato che la si voglia guardare da dietro un vetro appannato piuttosto che viverla…].
Eh sì, inventavamo storie…ed era piacevole crederci. O forse squarciavamo verità nascoste per illudere il tempo, che intanto si distendeva al fresco della sua ricchezza.
L’inverno invitava la sera ad entrare in scena già alle cinque del pomeriggio, infatti chiazze di un azzurro più intenso cominciavano a farsi largo tra nuvolette imbronciate.
Arrivò il momento delle braccia : non fu un caso che tutti ci ritrovammo a pensare a quelle volte che avevamo abbracciato qualcuno (quando per un secondo il nostro respiro s’era confuso con quello dell’altro). E così anche la mani!! Oh sì, quelle mani che portano l’acqua fresca al viso, che lavorano ubbidienti, che carezzano un volto, che scrivono e disegnano, afferrano e rilasciano: quelle mani che tremano, tremavano.
(la correzione del tempo verbale fu un duro colpo, s’accasciò l’ennesimo).
Convenimmo che eravamo grotteschi, e non c’era pozzanghera riflettente che non lo ribadisse: fantasmini diafani con la testa ancora attaccata. La testa?
Il rituale della testa fu tristemente bizzarro: la staccarono e nessuno provò dolore, anche perché provare dolore in una giornata del genere, sarebbe stato più impensabile che pensare di viverla.
Gli occhi, il naso, la bocca restarono ancora attaccati all’ombra della corporeità svanita: un dono atroce.
Il non-corpo pareva ancor più leggero, e non si concentrava più di tanto sui passi da fare, non s’indugiava più di tanto sulle sfumature di colore.
I pensieri si dispersero nell’aria, creando una nube incolore che agonizzava negli orizzonti perduti delle nostre coscienze.
Non bisognava disporre di un’arguzia sopraffina, per capire che la dipartita del resto era imminente: rubarono i nostri baci con la bocca; tutti gli olezzi e le fragranze d’ogni genere col naso; l’evidenza ai nostri occhi; tutti i suoni e le relative combinazioni alle nostre orecchie; anche le nostre voci: dissolte, sparite tra i rami degli alberi lasciandosi dietro un boato.
Rovistando nella sua anima un bambino riuscì a trovare un fil di voce: intonò un canto di farfalle svolazzanti e arcobaleni nell’aria vibranti, ma per quanto angelica fosse la sua voce, l’anima delle nostre orecchie traduceva quelle dolci note in un lamento perpetuo. Gli dicemmo di tacere, e per consolarlo e per consolarsi una donna bruna confezionò per lui una coltre di foglie.
Nessun ordine fuggì più dalle loro bocche, mentre noi evanescenti strisciavamo per attraversare l’ennesimo fiume: sentivamo la fine danzarci attorno.
Volavano pezzi d’orgoglio, stralci di fiducia, gocce di rimpianti e schegge di rimorsi, si accendevano fuochi di parole non dette che si spegnevano con l’acqua torbida di ricordi dimenticati.
Poi, una folgore squarciò il cielo:
Signore e Signori, il colpo decisivo venne sferrato: IL CUORE! Il muscolo involontario sede della volontà umana: rimosso, soppresso,liberato.
Li riposero in dei contenitori di vetro, nessuno mai seppe la loro fine.
Loro si diedero amichevoli pacche sulle spalle e si lanciarono sorrisi appaganti per il lavoro ben svolto e portato a termine.
Noi? Beh…noi vendemmo gli ultimi petali della nostra vita alla notte che s’era appena insinuata, suadente come una danzatrice scalza.
E, in una bolla di silenzio, ci innalzammo al cielo.


Gridava, dalle finestre il blu intenso della notte, quel grido per intenderci, che al risveglio soffia sulle coscienze,da lontano, e che uno sbadiglio distratto disperde. Il riverbero però ,resta nascosto tra le braccia del sole, la luce che arriva non è che oscurità, mascherata.
Sull’orologio appeso al muro s’era aggrappato il giorno , e credetemi : vederlo sudare secondi, e asciugarsi i minuti con la lancetta più lunga , non era esattamente un godere degli occhi.
Questa agonia temporale durò 24ore. Poi, il giorno cadde; e cadendo si frantumò in mille scaglie di emozioni cristalline, che l’aurora raccolse mesta e nascose tra la bruma del mattino.
Qualcuno, sbatté la porta, imprecando. Qualche parola gli si sciolse in bocca, amalgamandosi con una sorsata d’amarezza che saggiava da tempo: deglutì una parte di se stesso e vincente s’incamminò per il viale alberato. Non sarebbe stata una magnifica giornata quella, era riuscito a comprendere durante una sola nottata, ciò che gli uomini fanno a Loro stessi durante tutta una vita.



....voi non avete capito..

   
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