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 4 Favole e Racconti / Tales - Galleria artistica
 Marlene è fuggita
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Isabella
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Inserito - 11/08/2005 :  16:49:41  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Isabella
I

Quando entrò nella camera della figliastra, la trovò come di consueto in perfetto ordine: i vestiti, delicati e leggeri, erano stati riposti nel grande armadio di legno, appartenuto alla ormai deceduta madre della piccola. Un dolce riverbero rossastro ridisegnava il pregiato mobile. La rimanente parte della stanza restava invece nell’ombra delle alte ed austere pareti olivastre. L’aria, satura di polvere e naftalina, affaticava ulteriormente il respiro asmatico della vecchia.
Solamente l’antico comò era fuori posto, ma ciò non sfuggì a quei suoi acuti occhi, che, leggermente velati dall’avanzata età, Dora aveva portato vicinissimi al malconcio pavimento di moquette, inarcando la robusta schiena da contadina. Sforzando leggermente la vista, poté facilmente notare i chiari segni lasciati dal mobilio durante il recente spostamento.
Fu proprio quell’inatteso cambiamento che riuscì ad insospettire non poco l’intransigente signora.

Dopo la tragica morte della sorella minore, il cuore di Dora s’era chiuso definitivamente. Nella sua buia e monotona vita non c’era stato più spazio per pace, amore o amicizia, e, come l’impetuoso vento sulla prateria, il tempo e la depressione avevano spazzato via dalla mente di Dora ogni lieto ricordo, ogni sorriso, in sostanza anche il più piccolo riflesso della lucente, seppur breve, esistenza di sua sorella Caterina.

Al funerale il curato l’aveva definita “impareggiabile cometa”. Erano state parole prive di sentimento alle quali, i parrocchiani più bigotti avevano asserito macchinalmente. A Dora la messa in scena non era andata giù. Coi pugni serrati si era precipitata sulla scricchiolante gradinata, impettita ed oltraggiata dall’ignobile comportamento dei suoi stessi compaesani.

Dora era ben conscia che tutto, oltre la folta siepe che orgogliosa si ergeva intorno ai suoi estesi possedimenti sulle assolate colline toscane, avrebbe rappresentato un pericolo per sé allo stesso modo che per la reputazione della sua amata sorella defunta. Toccava a lei difenderla e ne sentì il gravoso dovere anche nell’impartire un’educazione alla piccola Marlene.
Un’educazione dura, che plasmò la ragazzina fino al midollo e ne fece una copia perfetta della zia. Fin dai primi giorni di vita, potremmo affermare che Marlene ebbe la sfortuna di sperimentare una tra le più orrende privazioni umane: le era negato di divertirsi assieme ad altre bambine e ogni forma di distrazione “insensata ed infantile” era severamente condannata.
Mai quest’atteggiamento crudele e maligno incontrò la resistenza di Marlene. Ella, infatti, malgrado le tristi condizioni, sapeva essere magnificamente ubbidiente, ordinata, servile e in questo modo compiaceva pienamente zia Dora, che però non riusciva a comprendere il motivo di tanta devozione. Così fu che tanto amore non venne mai ricambiato dalla malinconica signora, che, naturalmente, non poteva comprendere cosa Marlene le volesse dimostrare. Caterina era morta e con lei ogni umano sentimento.

Nessun luogo era a Marlene più gradito del grande salotto indiano. Inginocchiata sul gran tappeto finemente decorato, amava osservare per ore la zia leggere in salotto, assorta in pensieri che non si era mai sognata di penetrare. Eppure, serrando al petto il piccolo siamese, amava perdersi in quel suo mondo abitato da fiori, stupende principesse, eroi erranti e spaventosi draghi. Proprio questi ultimi infestavano i sogni di Marlene con tale insistenza e tale violenza da parerle a volte perfino reali. Nel suo morbido lettino, il cuore della ragazzina trasaliva, poi, acquietata da un fascio di luce lunare, ella tornava nell’infantil torpore che colora così dolcemente le gotte di quelle care ed ingenue creature. Fino ad una notte.

Cauti passi accompagnavano il dolce sonno della dodicenne. Il grande orologio a cucù aveva battuto da poco la mezzanotte. In quella notte senza luna sembrava che la zia fosse più inquieta del solito. Appoggiandosi al ligneo passamano, Dora si dirigeva verso il salotto, mossa da un indicibile timore.


La vecchia signora era venuta a conoscenza dei lugubri sogni della bambina grazie alla fedele cameriera, con la quale la piccola si era ingenuamente confidata. Scossa dalla notizia, Dora si era precipitata a cercare un vecchio cimelio nell’immensa biblioteca ma non l’aveva scovato. Solo questo aveva potuto vedere Marlene, nascosta dietro di una delle rigogliosissime piante grasse poste ad ornamento nel lungo corridoio di fronte al salotto.
Nel sonno, Dora fu tormentata lungamente dal dubbio di aver perduto la memoria del nascondiglio dove lei era sicura d’aver custodito per così lungo tempo un antico libro. Un semplice diario, a quanto si ricordava, tenuto da sua nonna, nata dalle parti di Trieste, nella bella Venezia Giulia.


Col passare del tempo i passi della vecchia zietta s’eran fatti sempre più sicuri. La morbida chioma corvina poggiava spettinata sulla lunga vestaglia azzurra. A Dora sembrava quasi di esser tornata indietro nel tempo. I suoi occhi, accesi in gioventù da una selvaggia tinta verdastra, riprendevano ora vigore e lucentezza. Trasportata da un incontenibile impeto entusiastico, a lei quasi estraneo e da lei medesima a lungo ripudiato, Dora perse facilmente il controllo delle gambe e si trovò bocconi sul lucido pavimento di marmo, tramortita e dolorante. Sbigottita si levò lentamente in piedi ma non fece in tempo a riprendersi perché una nuova sorpresa era pronta a confonderla maggiormente: un candido fascio di luna era entrato attraverso l’ampia finestra dell’entrata e con spaventevole intensità riproduceva a terra le seguenti frasi:


“Il manto celeste s’era lievemente adagiato sull’arido Carso triestino. Copiose, scintillanti lacrime accompagnavan il candido, divin abbraccio. Le fronde mansuete si lasciavan educare dalla gentil brezza che dall’Adriatico mare lieta e briosa si distendeva. In picchiata un giovine passero raggiunse svelto la bianca fontana, sulla quale un gruppo di marmi angelici gli amabili occhi portavan. Nel suo movimento frizzante e sereno, la simpatica creatura attirò su di sé il nobile sguardo di un cigno che, imperturbabile, pochi attimi dopo ripose l’aggraziato collo fra il bianco suo piumaggio. Le acque dell’esiguo canale brillavan già più vivacemente, accarezzate dai sanguinei raggi del morente sole settembrino. Ad un tratto il vento crebbe con inattesa veemenza. Un lontano tuono solitario salutò le ultime fuggiasche nubi. E nel festoso cielo s’accesero le prime luci… Le ombre scendono ora sul castello di Miramare e, sussurrando, le onde del vicino golfo, rievocano il curioso intrecciarsi di vite che ad esso per l’eternità si legano. Una luna placida e completa asserisce silenziosa. E’ la notte dei sospiri, dei ricordi velanti. E’ la notte triestina.”


A Dora le gambe non ressero più. L’emozione era troppo grande per il suo povero cuore. Fu così che, incredula, si mise a fissare involontariamente quel lembo d’incubo, il cimelio da lei tanto amato e temuto: “Il Sogno Triestino”!

L’anziana signora si prese la testa fra le mani. Poteva essere? Con estrema chiarezza il ricordo della sua dolce giovinezza si risollevò dalla mente ancora scossa ed incredula.


II


Da bambine, a Caterina e Dora era sempre piaciuto farsi leggere qualche frammento dal vecchio diario della nonna al momento di coricarsi e avevano spesso pregato la mamma di prestarsi a narrar loro quella descrizione tanto affascinante. E quando le loro supplichevoli preghiere non venivano ascoltate, era proprio la voce mite della loro nonnina a cullarle nel sonno.

In punto di morte la nonna aveva consegnato il diario a Caterina. La piccola, straziata dal dolore, non aveva potuto comprendere il gran valore di quel dono e dopo qualche mese l’aveva riposto nella biblioteca di famiglia. Nella notte che era seguita, Dora aveva sognato sua nonna che, amorevolmente, seppur con grande insistenza, l’aveva pregata di copiarsi “Il Sogno Triestino” su di un foglietto e di riporlo sul letto della sorella minore ad ogni notte di luna piena, in modo che almeno un debole fascio di luce, irradiato dalla bella Madama, avesse potuto rischiarare un piccolo lembo del breve scritto.
“Nelle notti senza luna veglierò io stessa su tua sorella.”

Nella notte del dodicesimo compleanno di Caterina il biglietto fu smarrito, come risucchiato dalla stessa luna, alla quale Dora si era così pienamente affidata.
Al loro risveglio il maligno fato si preparava già a dividere i destini delle due sorelline, crudelmente: Caterina era chiamata dalla zia a trascorrere le vacanze natalizie a Trieste, mentre Dora, ormai diciottenne, era pronta ad intraprendere con delle amiche una gita di qualche giorno a Roma.
A Trieste Caterina aveva trovato un ambiente maggiormente adatto a lei, più raffinato, squisitamente colto e vedendo finalmente stimolata la piccina, che grandemente soffriva della rustica vita di campagna, la zia aveva intercesso tramite lettera, affinchè il soggiorno triestino per la nipote venisse prolungato.

Dora non rivide più sua sorella, che poi sapeva aver abbandonato Trieste per San Pietroburgo ai tempi dell’università. Qui una storia d’amore, scossa da folli passioni e indicibili gelosie, l’avevano totalmente trasformata. Le lettere indirizzate alla sorella erano sempre più lunghe e meste: le pazze spese avevano ridotto i due innamorati in miserabili condizioni economiche. Alla nascita della piccola Marlene, gli usurai avevano già cominciato ad inviare con una certa frequenza i loro strozzini. Per sfuggire agli affilati coltelli, Caterina e Jan, disperatissimi, si erano gettati nella scura e profonda Neva.

Prima di compiere l’estremo gesto, Caterina aveva scritto a Dora un veloce messaggio, nel quale dopo aver informato, in modo piuttosto asciutto, la sorella del suo ormai prossimo suicidio assieme al fidanzato, affidava la piccola Marlene alle sue amorevoli cure.
Nuovamente Dora fu visitata in sonno dalla nonna che, piangente, la supplicava di recarsi col primo treno a San Pietroburgo: Marlene si trovava in mano agli strozzini di Caterina.

Al suo arrivo nella fredda e dorata metropoli russa, Dora fu colta da forte malore che la costrinse, non senza forti esitazioni, alla ricerca di un dottore. Dopo circa due ore, affaticata e sofferente, Dora arrivò al ponte della Banca. La posizione particolarmente propizia offriva ai passanti un panorama mozzafiato, ma a Dora, e a lei sola, quella vasta distesa blu, accapponava la pelle. Stringendosi nella lunga e profumata pelliccia, Dora si chiedeva invano se fosse stato proprio quello il ponte da dove i due amanti avevano deciso di gettarsi nella cupa notte, al suono disperato di un pianto, lontano, che si perdeva sconsolato ed errante nello sferrante vento nordico.
Sempre tossendo, abbandonò quel triste luogo per tuffarsi nella folla e rimettersi nuovamente alla ricerca di un dottore. Le fitte al cuore s’eran fatte sempre più lancinanti. Dora cadde sul ciottolato, stremata.

Una teiera sbuffante di ceramica finemente decorata accolse il risveglio della ancor giovane aristocratica. Portandosi una mano al capo dolorante, Dora cercò di mettersi seduta.
“Neanche per sogno, signorina,” – predicava una voce paziente, mentre due braccia forti e decise la costringevano nuovamente supina – “siamo stanchi e la mia infermiera non permetterà che si allontani così facilmente dalla vostra branda.”
Infermiera? Branda? Ma allora… quella doveva essere la voce di un dottore! I pensieri si affollavano confusamente nella mente ancora stordita di Dora.
Tutta agitata, tentò di formulare qualche frase di senso compiuto in modo da giustificare le disgraziate circostanze in cui, per amore di sua sorella, si era venuta sfortunatamente a trovare. Evitare qualunque possibile equivoco e tornare al più presto in Italia con la bambina era la sua più grande, nonché unica speranza, ma forse un po’ di razionalità, se lo sentiva, avrebbe fatto bene anche a lei.
“Senta, mi scusi, deve credermi, sono qui per un urgenza…” farfugliò Dora, nello sforzo di alzarsi nuovamente dal letto.
Una calda risata accolse la sua traboccante ansia.
“Non si preoccupi…” – e tendendo una tazza fumante – “e prenda, ora proviamo di fare assieme un po’ di chiarezza. Mi chiamo Boris, come può notare, non più giovane dottore moscovita, al momento a San Pietroburgo per motivi… di lavoro, almeno credo… .” - il dottore parlava un po’ l’inglese e tuttavia amava confonderlo con un più genuino accento russo.

“Complimenti! E proprio a questo modello di intelligenza e lucidità dovrei affidare i miei mille penseri? Stiamo freschi!” – pensò Dora frettolosamente, evitando in ogni modo di dimostrarsi scortese con chi, in fin dei conti, le aveva salvato la vita.
Con eccezionale risolutezza ripose la bollente tazza nelle imbarazzate mani di quello strano dottore: una barba rossiccia circondava, ribelle, il pallido volto dai tratti tipicamente russi, mentre due occhi cerulei roteavano furbescamente, dando consistenza alle tante sorridenti rughe d’espressione. Di costituzione abbastanza robusta, le spalle erano lievemente curvate, come trasportate verso il basso dal peso di una pancetta un po’ troppo felice. I goffi piedi producevano un simpatico scalpiccio sull’antico pavimento di legno.

No. A quel modo, e Dora ne era sicurissima, non sarebbe mai riuscita a trarre in salvo Marlene. A passi spediti si diresse verso la porta del piccolo locale, che il sessantenne pediatria aveva adibito quasi interamente a studio. Montagne di libri pericolavano sugli innumerevoli scaffali.
“Si fermi, signorina, non si è ancora completamente ristabilita. Se non si è ancora accorta… Lei ha il capo bendato!”
Incredula, Dora cominciò a tastarsi freneticamente il capo: effettivamente, in corrispondenza della nuca, il dottore le aveva applicato un’abbondante garza. Il cuore non le batteva più. Le lacrime, irose, ribollivano nelle orbite e la mente, annebbiata, lasciava sgombra la strada ad un fragoroso sfogo d’irriducibile rabbia.
“Non è possibile!” – urlò Dora, pestando i piedi a terra dalla collera. Quell’imprevisto tendeva a rallentare lo svolgersi della faccenda, cosa che, in quel momento così critico, Dora non riusciva proprio ad accettare.

Poi un sussulto. Ed il suono di un pianto che, lontano, sembrava essersi perso, sconsolato ed errante, nello sferrante vento nordico. Il cuore di Dora riprese improvvisamente coraggio.

“Su, su, quietati, piccina mia, non è niente. Ah, ho capito! Vuoi fare la conoscenza della nostra misteriosa paziente? Peccato se ne stia andando di già. Signorina, se ha ancora un momento, Le vorrei presentare la mia giovane assistente. L’ho assunta stamane ed è già al lavoro… ma signorina… è sicura di sentirsi bene? ”
Improvvisamente Dora si accorse di trovarsi di fronte ad un miracolo. Si avvicinò alla culla, a passi felpati, mentre dentro di lei la ragione tentava invano di calmare la più irrefrenabile delle gioie.

Il dottore aveva ritrovato Marlene in una vecchia casa sulla riva destra del fiume Neva, mentre, barcollante, stava rientrando a casa dopo una nottata trascorsa con gli amici, a zonzo per le taverne. Non abituato a simili festeggiamenti, all’udire i primi pianti della bambina, era scoppiato in una lunga ed insensata risata. “Hai bevuto troppo, bel mio! Chi vuoi che viva in quella casa fatiscente?” Poi, scrollata di dosso la momentanea ebbrezza, che non era riuscita però ad intaccare la gentile indole del buon dottore, si era trascinato nella triste dimora di Caterina, e, cadendo dallo stupore, vide la bambina in fasce, piangente.

Le premure e le chiacchiere del dottore riuscirono a ritardare la partenza dell’amabile compagnia appena di due giorni.
“Ma Lei non si è ancora completamente rimessa! Sono un dottore e so bene cosa dico!” – protestava Boris spingendo la pesante valigia all’interno della carrozza.
“Non si preoccupi, so badare a me stessa! La voglio ringraziare ancora per tutte le cure che c’ha riservato in questi giorni, è stato davvero gentile!”. La dolce voce di Dora si perse nel fumo della locomotiva.

III

“Il Sogno Triestino” era stata la chiave per salvare Caterina da terribili incubi, e Dora sentiva ora il dovere di agire anche a favore della piccola Marlene, sebbene cosa fare non le era ancora chiaro.

Alle sue spalle qualcosa si mosse nell’oscurità. Riconobbe con facilità i leggeri passi di Marlene, che lentamente ripercorrevano la lunga rampa di scale. Solo di sfuggita riuscì ad intravedere la bambina. Doveva essere sicuramente terrorizzata, ma, invece di raggiungerla per consolarla, Dora si gettò alla ricerca di un foglio e di una penna per notarsi le magiche frasi lasciate dal raggio lunare.

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Sola e scoraggiata, Dora s’adagiò sul letto della figliastra: la bambina era fuggita e con lei anche tutte le sue nuove speranze s’erano dileguate, come i sogni al levar del sole.
Marlene aveva lasciato solo un biglietto, che il giocoso vento mattutino aveva cullato fin sul pavimento:

“Sono fuggita. Non voglio ferirti ma ho bisogno di ricostruire me stessa e prima di tutto sento la necessità di ricostruire il mio passato.
Ti voglio bene…
Marlene”

Sotto il breve messaggio, la bambina aveva trascritto l’indirizzo di sua cugina Harriet ed il numero della domestica con cui Marlene si era così sinceramente confidata e che l’aveva poi accompagnata nella fuga.

Dora si riprese le tempie fra le mani. Cercò di fare un po’ di chiarezza nei suoi allibiti pensieri. Ma questa volta non c’era alcun paziente dottore ad assisterla, e sperare in un nuovo miracolo sarebbe equivalso per lei a sfidare il destino,di nuovo, così impudentemente. Il Buon Dio le aveva inviato un angelo e lei ne aveva goduto la bianchezza, la sincerità, la bellezza, ammaliata dalla sua luce benigna. Egoisticamente se l’era tenuta solo per sé, impaurita dai fantasmi del passato.
“Può un essere simile ottenere ancora misericordia?” si chiedeva Dora ripetutamente, convulsa, nell’atto di stringere con maggior veemenza il messaggio di Marlene, forse l’ultimo disperato tentativo da parte della piccola di instaurare un rapporto amichevole con la zia.
“E’ la mia ultima possibilità, non posso fallire!”


PS: è la continuazione de "Il mistero".


   
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