July
Emerito
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Inserito - 18/11/2005 : 23:42:41
Le luci del palcoscenicoQuesta è la storia di Anna, un’attrice di teatro. Questa storia affonda le sue radici nei lontani Anni Settanta, verso la fine del decennio, spingendosi fino a lambire il cuore degli Anni Ottanta, forse anche oltre, ed è una storia che si perpetua, incessantemente, tutt’oggi. Ad Anna piace pensare che non si tratti di una storia unica, ma di un qualcosa di familiare, un’onda burrascosa – di quelle che si infrangono sul litorale scagliando tutt’attorno miriadi di goccioline - che da tempo immemorabile si infrange contro gli scogli dell’anima di milioni di persone. Sarà cattiveria, ma pensarlo, attenua l’inesorabile sensazione di solitudine che l’accompagna. Sin dagli albori, Anna avrebbe voluto recitare un’opera diversa. Ella avrebbe voluto interpretare la sua storia. Invece, ad essa aveva rinunciato tempo prima…. Erano passati anni da allora. Anna ricordava che all’improvviso il cielo si era oscurato, coprendosi di nubi cariche di tempesta, e il sole, come per incanto, aveva cessato di splendere. Il sole si era spento, per lei, lasciandola nelle tenebre. Così, Anna aveva trovato asilo presso quel teatro. Era un posto freddo e desolato, dai sedili vuoti ripartiti in due lunghe file, celati nell’oscurità più lugubre. L’unico angolo luminoso era il palcoscenico, il quale veniva rischiarato dalle luci dei riflettori puntati sulle sagome dei commedianti. Anna era entrata da spettatrice, ma ben presto aveva scoperto che così era obbligata a sedere nelle poltroncine avvolte nel buio, e lì si sentiva sola. Era una posizione fredda e desolata, mentre lei aveva bisogno d’amore. Ne aveva un bisogno spasmodico, come tutti gli altri attori, ma era l’unica a saperlo. Gli altri lo ignoravano, nonostante per ciascuno di loro, tempo prima, si fosse spento il sole (*), condizione essenziale e vincolante, senza la quale essi non si sarebbero trovati lì. Non potevano ascoltare la sete d’amore che si dipartiva, come un raggio invisibile, dal loro cuore. Non potevano perché tenevano il loro cuore chiuso in uno scrigno, e circondato da cuscini foderati di velluto, in maniera tale che esso fosse sempre più insonorizzato e la sua voce non giungesse fino a loro. Anna invece non era così; ella era l’unica ad ascoltare la voce del proprio cuore, che come un lamento si levava dalle sue membra e le sussurrava il proprio grande, immenso, bisogno d’amore. Era stato tale bisogno, tale necessità a spingerla a scendere a compromessi con gli autori; essi le avevano promesso le luci del palcoscenico, affinché in assenza del sole le si scaldasse il cuore, ma in cambio avrebbero scritto per lei la parte, ed Anna l’avrebbe rivestita. Fin quando la compagnia fosse sopravvissuta, ella l’avrebbe rivestita. Così, ogni giorno Anna vestiva nuove scene, interpretava personaggi nuovi, assumeva ruoli novelli, in una metamorfosi incessante; ma tutte le scene erano accomunate dal fatto che non si trattava della sua scena. Che non si trattava del suo ruolo. Che non si trattava del suo personaggio. In cambio di ciò, Anna poteva sentire le luci dei riflettori scivolare fino a lambirle la pelle, e scaldarla; luci fasulle elette quali sostitute di quei raggi che il sole le negava, gretti surrogati dell’amore. Mentre Anna avrebbe voluto l’amore vero, pulito e sincero. Quello cui le scene non rendevano giustizia, quello il cui anelito si dipanava dagli anfratti del cuore maltrattato che le pulsava dentro. E ogni giorno, Anna aveva un nuovo amante. Ogni giorno ella amava una persona nuova, donandosi a lei con tutta la forza e la passione che le scorrevano nelle vene, che le ricordavano che era viva, e che le ribollivano dentro come un’indomita furia. Quello era il piccolo angolo di piacere che ella si era ritagliata nel mondo costernato che la comprendeva. Ogni giorno, ella si stendeva, col suo corpo, a fianco al corpo di una persona nuova; spartiva con essa un amore profondo, l’amore vero, e non i rimasugli che la vita le aveva riservato. Un amore sconfinato, che accoglieva l’altro nella sua totalità, senza compromessi, perché era l’unico modo con cui Anna sapeva amare. Ma il giorno successivo, si partiva con una nuova scena; quella del giorno prima era finita, i vecchi copioni venivano messi da parte, gli amanti passati lasciavano posto ai nuovi. Solo nel cuore di Anna, l’amore nutrito il giorno prima rimaneva acceso, ma nascosto; non trovava un corrispettivo, se non celato nelle pieghe del cuore dell’altro, che comunque non sarebbe mai stato ascoltato. Così, Anna di tanto in tanto, prigioniera dei limiti di questa terra di nessuno, carezzava l’idea della morte. La morte, unico riscatto al non poter recitare la propria scena. Unica via di fuga dall’ipocrisia che permeava quelle pareti, quei pavimenti, quelle soffitte tanto neglette; unica e sola porta d’emergenza rispetto a un palcoscenico che odiava con tutta sé stessa. Altre volte, Anna veniva sfiorata dall’idea che fosse la compagnia a soccombere; quella sarebbe stata una soluzione, ma fino ad allora, ella avrebbe dovuto recitare i suoi copioni, sia pure con la morte nel cuore. Gliel’avevano detto il giorno stesso in cui si era spento il sole. L’unico sollievo erano gli attimi d’amore, che Anna viveva intensamente, e poi conservava gelosamente, nel cuore, affinché non potessero volare via assieme a tutto il resto, ed intridersi dell’odore del teatro… Giuliana carta
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