July
Emerito
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Inserito - 04/12/2005 : 17:03:48
I primi raggi del sole del mattino s’inoltrarono con discrezione attraverso le fessure dell’avvolgibile abbassata, scoprendo debolmente i contorni della mobilia e degli oggetti ancora avvolti nel buio della stanza. A poco a poco, presero forma il comodino e l’armadio in arte povera, mentre la scrivania ancora rimaneva celata dall’oscurità. La luce diafana cominciò poi a farsi più intensa, e si stese sul tappeto di matrice orientale collocato ai piedi del letto, sfiorato leggermente dal copriletto di raso bianco sotto cui ancora Lynette dormiva. Dormiva, ed il ritmo del suo respiro emergeva appena sotto il pigiama celeste di cotone; dormiva, e le lunghe ciglia si stendevano a delineare due semicerchi neri sulla pelle bianca candida e levigata, dono prezioso tramandato dalla madre tedesca, che si fondeva delicatamente coi colori bruni dei capelli e degli occhi che costituivano invece l’eredità del papà. La suoneria del telefonino cominciò a suonare, prima piano, poi più forte, richiamando Lynette alla vita. Lynette si stropicciò gli occhi e sospirò, prima di allungare la mano verso il cellulare; poi si alzò a sollevare la persiana. Ed ecco la luce del giorno penetrare, generosa ed abbondante, dentro la sua cameretta, il cui interno chiuso cominciava ad essere appesantito dall’aria che ristagnava da una notte intera. Lynette spalancò i vetri, poi si sedette sul letto. Si sedette sul letto e cominciò a pensare. Da un po’ di tempo, non appena apriva gli occhi, il primo pensiero che affiorava nella sua mente era quello di Gordon. La travolgeva con tutte le problematiche che sollevava, e con tutti i ricordi che inevitabilmente destava. E che, soprattutto, la obbligavano a domandarsi perché. Perché, con tutti gli uomini esistenti al mondo, si era innamorata proprio di lui, che oltre ad avere vent’ anni esatti in più di Lynette, era sposato. Perché si era illusa che avrebbe lasciato sua moglie per lei, e avevo creduto nelle sue promesse, edificando una serie di patetici castelli in aria destinati solo a crollare sotto l’impulso leggero del vento. Inizialmente, non credeva che avrebbe preso la loro storia così a cuore. Quando aveva iniziato a lavorare al pronto soccorso aveva subito provato simpatia per lui. Vi era in Gordon qualcosa di Peter Pan e, allo stesso tempo, quasi come un paradosso, qualcosa dell’Arsenio Lupin. Lynette non era mai riuscita a spiegarsi il perché, ma era evidentissimo che era così. Gordon era simpatico in una maniera un po’…un po’ infantile, si! A volte, più che un attempato medico, sembrava un adolescente alle prime armi col mondo, che parlava in modo impacciato di sé e delle cose che amava, che arrossiva, che abbassava lo sguardo per non sostenere quello altrui. Altre volte era gentile e sensibile come pochi. Con i pazienti anziani, per esempio; o con i bambini. Lynette adorava il modo in cui giocava con loro. A poco a poco, ella se n’era innamorata. Adesso, a distanza di mesi dai primi giorni in cui si sentiva fremere per l’emozione quando gli stava vicino, o quando era travolta dal profumo di dopobarba che emanava, Lynette si domandava quando fosse accaduto. Nelle pieghe sgualcite del suo cuore, cercava con una punta di rimpianto il momento magico, l’attimo fatale, il frammento minutissimo d’eternità in cui era successo. E le immagini che le sovvenivano erano ricordi sbiaditi dal tempo, in cui Gordon scriveva, o parlava, o leggeva, tenendo il libro con le mani grosse ed abbronzate. Lynette si era sempre domandata come mai avesse le mani così poderose, quasi avesse praticato un lavoro manuale prima di fare il medico. Invece non era stato così; aveva indagato per saperlo. E aveva passato settimane a domandarsi cosa avrebbe provato a venire stretta da mani così. Tempo dopo l’aveva scoperto. L’aveva scoperto in una giornata di pioggia, in cui, rincasando assieme, era accaduto che la macchina di Gordon si era guastata. “Perfetto!” aveva esclamato lui. Era sceso e aveva controllato il motore, con la pioggia che gli cadeva sui capelli, e di lì, poi, sulla pelle olivastra del viso, e scorreva sin giu, sulla giacca a vento blu scura che sua moglie gli aveva regalato per il compleanno. Erano ad ottobre inoltrato, e verso le otto c’era gia buio; così, attraverso il finestrino gocciolato dal temporale, Lynette vedeva la sua sagoma illuminata dai raggi pallidi della luna, che non era luna piena, ma un quarto. Lo vedeva armeggiare in mezzo al tintinnìo di quelli che ella non avrebbe saputo dire se fossero cacciaviti o chissà cos’altro. Non s’intendeva affatto di motori, ma nemmeno Gordon, il quale poco dopo si era arreso ed era andato a chiederle se poteva reggergli la pila accesa mentre lui si dava da fare. Lynette l’aveva fatto. L’acquazzone si faceva sempre più intenso mentre ella scendeva dalla macchina coprendosi il capo con la giacca in jeans. La luce circolare della lampada si diffondeva nelle tenebre in cerchi concentrici, che man mano che diventavano più esterni si facevano sempre più tenui, fino ad arrivare ad avvolgere il viso di Gordon in un velo di penombra, il quale ne rendeva i lineamenti più nascosti ed intriganti. Lynette lo osservava; ne studiava i contorni marcati, gli zigomi pronunciati, il naso un po’ forte, ma tutto sommato, gradevole. Si domandava se egli pensava a lei come ad una collega più giovane o come ad una bambina. “Non so proprio cosa fare, Lynette. – aveva detto ad un certo punto Gordon – Siamo destinati a rimanere impantanati qua.” Si era voltato verso di lei e le aveva sorriso. Lynette era completamente inzuppata, in quel momento. La maglia nera che indossava sotto il giubbotto le aderiva sulla pelle quasi fosse incollata, facendo risaltare la forma del seno e dei fianchi. Lui la guardava. Lynette se n’era accorta, e si era sentita arrossire. Aveva pregato che il buio celasse il suo rossore. Ma era stato un attimo. Poi Gordon le si era avvicinato. Ancora Lynette non sapeva se era stata la magia della pioggia, e della serata, a spingerlo a baciarla, o se era stata lei resa più sexy dal temporale. O se ci stava pensando da tempo. Sapeva solo che all’improvviso egli l’aveva abbracciata, che aveva sentito il suo alito caldo carezzarle la pelle del collo, e le sue forti mani cingerle la vita. Sapeva che aveva sentito serpeggiare dentro di sé un brivido sinuoso di piacere mentre egli cominciava a baciarla, sul viso, sui capelli, sul collo; fino a quando Gordon l’aveva sollevata da terra, e l’aveva condotta dentro la macchina. E là, sotto lo sguardo complice della luna, erano sprofondati nella voragine del piacere, l’uno fra le braccia dell’altro. Avevano sentito i confini del mondo sfuggire alle loro mani e al loro controllo, come foglie ingiallite in autunno portate via dal vento. Era stato quasi come se d’improvviso tutto fosse svanito attorno a loro. Il cielo, le stelle, la luna. L’aria. L’odore del temporale che poco prima avevano sentito diffondersi nella notte. Persino l’auto impannata in cui si era sparso l’amore nutrito reciprocamente fino ad allora in silenzio sembrava dissolvere nell’aria i propri limiti. Gli anni passarono. Ne passarono dieci. Dieci anni di lavoro e di studio, benché Lynette avesse pensato, in origine, che lo studio fosse finito, dieci anni di lacrime e di sofferenze, si, ma anche dieci anni di riso e di gioia. Lynette, che aveva smesso da tempo di soffermarsi a chiedersi perché – dopo i primi tempi, aveva constatato che si trattava solo di tempo perso – era sposata. Era mamma di una bambina bellissima che amava, e che si chiamava Lara; lavorava in un reparto di chirurgia d’urgenza, e la sera tornava a casa, in famiglia. Qualche volta, ma solo qualche volta, mentre stava sola in quel caldo nido che era la sua casa, le si riaffacciava nella mente il ricordo di Gordon, e di quell’unica volta in cui in vita sua si era concessa il lusso di perdere la testa. Non aveva pensieri di biasimo per sé stessa, né rancore verso di lui. Custodiva gelosamente nel cuore la memoria degli attimi magici, e degli istanti di poesia ai quali entrambi si erano teneramente abbandonati, ma non si domandava mai cosa sarebbe successo se tanta magia avesse avuto un seguito. Era accaduto, semplicemente, che all’improvviso Gordon aveva chiesto il trasferimento in una città lontana, e l’aveva ottenuto. Lynette aveva concluso, non senza rammarico, che forse, per la prima volta in vita sua, Peter Pan aveva deciso di fare la cosa giusta. Per tutti. Un giorno, mentre prendeva il treno con la figlia per andare a trovare i suoi genitori, Lynette si affacciò al finestrino. E allora lo vide. I loro sguardi si incrociarono per un secondo, Lynette sentì un tuffo al cuore, le sue dita si strinsero, forse con troppa forza, attorno alla manina della figlia, che si divincolò da lei. Gordon ricambiò il suo sguardo, era invecchiato eppure sempre uguale, i suoi occhi recavano la stessa inquietudine di un tempo, si posarono su di lei e per qualche istante parvero non volersi mai più staccare. Entrambi ebbero lo stesso impulso: lasciare immediatamente tutto e correre ad abbracciarsi, ma le condizioni non lo permettevano. Tutto questo accadde in meno di un minuto, poi il treno si mise in cammino. Solo allora Lynette sollevò la mano per salutarlo. Gordon sussultò, all’improvviso si sentì come risvegliato dal torpore che l’aveva colto, e rispose al saluto della donna che aveva amato in macchina anni prima. Lynette non l’avrebbe saputo mai, ma era una delle due donne che sebbene per poco aveva amato di più nella sua vita. Infine il treno partì. Giuliana carta
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