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 La puzza dell' amore
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Luigi Mannori
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Italy
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Inserito - 12/08/2006 :  20:00:35  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Luigi Mannori Invia un Messaggio Privato a Luigi Mannori
La puzza dell' amore

Capitolo 1°


Penso che fra tutte le esperienze che un uomo potrebbe desiderare vivere, la più anelata, anche se ne viene timidamente nascosta la più viva presenza in ognuno di noi, sia quella di ripercorrere un po' del nostro cammino, di quello che ormai fa parte della porzione di tempo che identifichiamo passato.
Tutto sommato è un riemergere costante e oppressivo della vergogna per la nostra impreparazione, quella stessa che ci permette di non riuscire mai ad essere sufficientemente tempisti da riconoscere a prima vista, quale potrebbe essere il comportamento migliore per superare le difficoltà della vita ed esporci alla "postuma" violenza dell'autoinvestimento di tanta incapacità.
Ma a volte la vita si veste dei caratteri più imprevedibili e bizzarri, quasi a rasentare la fantascienza, se non addirittura a sconfinarvi e, come se provasse un gusto sadico nel riproporre i suoi quesiti, riesce addirittura a "riesumarli" come in una macabra "medley", combinati fra loro con la minuzia di chi sa scorgere i particolari più toccanti, di chi riesce a identificare anche le sfumature più impercettibili ed apparentemente prive di importanza e significato.
Forse è solo il frutto della nostra limitatezza che ci impone di confinare gli atti con pochi, rodati movimenti e di liberare il pensiero solo in percorsi sufficientemente brevi, per non farci correre il rischio di smarrirlo, né di logorarlo eccessivamente; ed è probabilmente per questi motivi che, nonostante la molteplicità dei nostri "involucri" e relativi "alter ego", continuiamo a competere con i nostri vicini per le medesime azioni, in ambienti che, pur differenti per estetica e importanza, si sono in fin dei conti prefissati le medesime finalità.
Né può correre in aiuto e variante a tanta uniformità, il comune divisore dell'amore verso il denaro, simbolo incontrastato e incontestato ovunque elegga dimora la figura di un uomo, di benessere, di realizzazione, di capacità e di intelligenza.
Vicino a tanti titoli è probabile possa sopravvivere l'amore propriamente detto ma con un valore puramente estetico, quel tanto che basta per dichiararne la giusta dose di possesso ai casuali passanti.
Questa scarna, quanto purtroppo realistica visione, non può certo stimolare in alcuno la minima meraviglia, tanto siamo abituati alla sua costante presenza, se non quando si coglie l'occasione di viverla in un ambiente tanto limitato, quanto può esserlo uno sperduto paesino di montagna, ove, per la ristrettezza del luogo, riesce a rivestire tutta la sua più brutale sembianza ed a sprigionare a pieno la sua malefica energia, mettendo in evidenza quanto possiamo essere deboli ed inermi al cospetto di tanti, nostri, spaventosi fantasmi.
Ma se la nostra presenza "straniera" non è sufficiente a stravolgere tanta equilibrata tradizione, lo è il suono di una parola emessa semplicemente, senza fini premeditati né toni particolari: "io amo!"
E' probabile che anche le parole, in questo clima affogato nella sua forzata, tranquilla solitudine, debbano essere soggette a "civile censura" ed il suono della mia frase è sicuramente apparso troppo nudo e rischiava quindi di mostrare troppa vivacità, forse virilità, forse addirittura troppa felicità, tutte cose in netto contrasto con le vesti del luogo, da additare in quanto fonte di malcostume e di disordine: nessuno si era mai chiesto "come amo" o "cosa amo", e chi lo aveva fatto inizialmente era stato inesorabilmente travolto dalla reazione delle convenzioni.
E' proprio in questa atmosfera che ho "vissuto la gioia" di ritrovarmi di fronte un'incredibile parata di esperienze già vissute, impersonate dagli stessi personaggi, meglio, da nuovi personaggi perfettamente calzanti gli attori delle mie "commedie" più antiche, grossolanamente rivestiti di un falso modernismo a sfondo commerciale, profondamente pregni della staticità e dell'infelicità delle loro esistenze.
Prima di avviare la mia "odissea" di paradossi e di sentimenti, spinto dalla presunzione di ambire alla pubblicazione di queste pagine, ho scelto la strada dell'esposizione anonima di tanti pensieri ed atti, che al contrario hanno coinvolto e travolto persone fisiche reali e viventi, sostituendo i loro nomi e quelli dei loro percorsi, con fantasiose identità, suggerite dall'evolversi degli avvenimenti.
Penso altresì sia doverosa una piccola presentazione, se non altro per motivi di educazione nei confronti del lettore ed un po' per senso di ospitalità.
Io faccio parte di quella categoria contraddistinta dall'etichetta "artisti", molto poco conosciuta e proporzionalmente stimata, al tempo stesso tanto commentata e criticata con sapiente ignoranza, anche perché la nostra letteratura riesce sempre a ricordarci immersi nelle fasi più critiche della nostra complessa esistenza.
Certamente chi milita fra le nostre file, con la convinzione e la determinazione di farne una ragione di vita e di trovare in un'attività apparentemente tanto evasiva, anche i propri mezzi di sostentamento, non può essere una persona inquadrata, soggetta alle convenzioni ed agli usi, anzi, normalmente ne rifugge la ovvia e lecita monotonia, tant'è vero che non a caso si dice "non è una persona normale"; questa superficiale definizione che, detta con la leggerezza di chi non spreca mai il proprio intelletto per capire l'essenza dei significati può apparire quasi una condanna, diventa effettivamente una necessità professionale che per fine deve avere lo scopo di sensibilizzarci, per permetterci di raccontare ai nostri vicini il vero aspetto di quello che si agita sotto le loro maschere convenzionali o per lo meno, fornire una nostra, anche se presuntuosa, valutazione sull'effetto della visualizzazione di tutti i loro sentimenti, vestiti della confusione che generalmente li accompagna.
Più propriamente, faccio parte della sottospecie chiamata "orchestrali", riconosciuta pericolosa cacciatrice di donne, portafogli e portacenere, decisamente i più sfaccendati perditempo che la storia possa ricordare ma non approfondisco oltre, per poter rimandare un commento di queste correnti definizioni, a quando gli avvenimenti mi forniranno un metro sufficientemente calibrato per sfatare la leggerezza di tanti superficiali giudizi, e forse pregiudizi, che costellano il firmamento dei nostri più tradizionali luoghi comuni.
Venendo agli avvenimenti, come sempre accade nel nostro mestiere, tutto ebbe inizio con il consueto abboccamento telefonico, l'incontro con il "boss" di turno e via dicendo.
Questa volta la "colpa", detto naturalmente in senso simpatico, si deve attribuire a “Pupina” (così la chiamavo), mia fedele compagna all'epoca degli avvenimenti.
Stavamo vivendo gli ultimi sprazzi di un periodo costellato di difficoltà economiche conseguenti alcuni investimenti miei, a carattere professionale, non errati, ma fastidiosi per alcuni colleghi "già grandi", che avevano saputo togliermi di mezzo con sistemi forse poco delicati, ma decisamente efficaci ed avevamo bisogno di un periodo sufficientemente lungo per prepararci ad una nuova sortita, alla ricerca di una altrettanto nuova escalation personale, in un ambiente sufficientemente lontano e anonimo, da farci quasi dimenticare da quanti normalmente operavano con noi e noi per loro.
Fu Pupina che suggerì una zona del centro Italia, tenutaria della tradizione di scodellare il maggior numero di spettacoli da piazza, ove in passato aveva avuto occasione di lavorare (Pupina era una bellissima ballerina, con notevoli capacità anche come coreografa), con uno dei gruppi più "famosi" e organizzati della zona, per cui, trovandomi consenziente, aveva avviato e condotto quel famoso abboccamento telefonico, stabilendo un incontro con il nostro "boss" (o forse "bossetto" trattandosi in fondo di un gruppo di importanza regionale quindi minore, a dispetto della grandezza che gli "indigeni" gli attribuivano), incontro che avrebbe dovuto avvenire a Viareggio, ridente cittadina della Versilia, precisazione necessaria per chi non ne conoscesse l'ubicazione.
Ma da ridere non c'era poi tanto, perché faceva un freddo boia, tipico esempio del clima di fine Febbraio, che le nostre condizioni economiche ci impedivano di controbattere con sufficiente efficacia. E sempre in tema di risate, dovemmo fare appello a tutto il nostro "spirito di avventura", per intraprendere un viaggio che, seppur il giudizio di chi è abituato a frequenti spostamenti non può definire né lungo né problematico (partivamo da Genova), la nostra situazione economica lo riusciva a paragonare, senza timore di eccedere, alle migrazioni periodiche delle mandrie di bisonti, tipica immagine dei Grandi classici del Cinema americano ed il mezzo che tentava con disperata abnegazione di trasportarci, pur mantenendo a prima vista le caratteristiche di un pulmino, in realtà era in grado di fornire tutte le "scomodità" e le "apprensioni" tipiche di un "Conestoga".
A dispetto dei soliti scettici che potrebbero tacciarmi di "fantozziana esasperazione dei fatti", cerco di materializzare il ricordo delle "immagini" che hanno suggerito tanta ironia, apparentemente eccedente le umane possibilità.
- Portellone posteriore con doppia possibilità e/o funzione: non si poteva chiudere, o, nella casuale combinazione che ciò potesse accadere, non si riusciva più ad aprire, ed era l'ipotesi che immancabilmente si verificava in presenza di merci depositate all'interno. Il serbatoio della benzina, perché il vigliacco con tale carburante tentava di rendersi utile, forato ma debitamente tamponato con mastici, sapientemente miscelati con Cewing-gums usati sufficientemente da consentirgli di contenere e quantunque limitare la perdita del carburante stesso; l'aerazione dell'abitacolo di guida era favorita dalla mancanza del deflettore sinistro e, quasi per legge di compensazione, l'adiacente finestrino era chiuso con l'ausilio di una stecca di legno che riusciva ad adempiere al suo compito, fino a che le vibrazioni non ne modificavano sufficientemente il baricentro, permettendo al finestrino di rovinare a mo' di ghigliottina, accompagnato da un rumore perfettamente consono alla ubicazione del finestrino stesso; le luci, sorrette da un gioiello di ingegneria e di equilibrio, costituito da una serie di tiranti in filo di ferro, ogni tanto riuscivano ed eludere la stretta sorveglianza ed a concedersi un periodo di riposo, ma in compenso il motore andava bene, a parte un piccolo difetto del carburatore, dotato in origine di uno Starter automatico che col tempo e l'età, aveva probabilmente dimenticato la funzione dei suoi automatismi e, troppo solerte, era dedito a frequenti ingolfamenti.
Fra le altre cose, quel "coso" motorizzato, consumava più batterie di una radiolina tascabile posseduta da un tifoso della Juventus a fine campionato scorso e per quanto nuove potessero essere, riusciva sempre a rinnovare l'antico fascino della "partenza a spinta".
La presenza di una leva del freno a mano, non doveva comunque trarre in inganno un eventuale incauto quanto occasionale autista, poiché era da tempo investita di un valore puramente estetico e la altrettanto dichiarata presenza, sul libretto delle istruzioni, di un "servofreno", poteva far sorgere seri dubbi sul suo pur evidente nome, visto che già il freno non era in grado di rendersi molto d'aiuto a tutto l'insieme, quando si presentava la necessità di arrestare la corsa.
Per concludere la panoramica dei suoi principali difetti è doveroso rammentare la raggiunta, assoluta rigidità dei suoi ammortizzatori che riuscivano ad evidenziare la presenza di un imprevedibile numero di buche e cunette, immancabile ed essenziale componente tra i servizi offerti dale autostrade italiane: non che di per sé stesso potesse rappresentare un problema fondamentale, ma tutti i conseguenti scossoni avevano il cattivo gusto di riportare alla luce un'infinità di grani di sale che precedentemente colmavano gli imballaggi del baccalà che avevo trasportato il giorno prima e che la mia carente abilità nell'uso della ramazza non si era dimostrata in grado di scovare, saturando l'ambiente con "quell'erotico" profumo, tipico di alcuni natanti del Mare del Nord.
In effetti un mezzo di questo tipo, in Italia, poteva essere presuntuosamente chiamato mezzo di trasporto solo da due categorie di sopravviventi: la prima è quella degli extracomunitari, che riescono da un po' di anni a scoprirsi onnipresenti nel nostro paese, impegnati nella quotidiana vendita dei loro tipici prodotti-souvenir, originali, "made in Napoli" ed ovunque si manifesti la possibilità di concretizzare lavoro nero, e l'altra non poteva essere, se non quella degli orchestrali.
Vero è che possedevamo anche una Mercedes 220, ma in quel periodo lo poteva sapere solo quel vigile urbano che continuava ad adornarne il parabrezza di bianchi inviti a provvedere e rimediare ad un'evidente incoscienza, ferma ipotesi professionale che forse riusciva a celare il nostro abituale e disperato bisogno di quattrini.
Probabilmente fu proprio la nostra conscia e consueta assuefazione alla presenza e permanenza di tante difficoltà, che ci spinse ad iniziare il viaggio con un lasso di tempo sufficientemente lungo da permetterci, in caso di impellenti necessità di proseguirlo con mezzi governativi, forse, anche se passivamente, maggiormente governabili.
Per tali motivi, eravamo partiti nel primissimo pomeriggio, visto che l'appuntamento era stato fissato per le 18 in una pensione di Viareggio e con nostra grande meraviglia funzionò tutto a dovere fino alla Versilia, dove l'improvviso impatto con la prima difficoltà, ci fece tirare un sospiro di sollievo, visto che la realtà era riuscita, anche se con un certo ritardo sui pronostici, a mantenere le sue performance.
In poche parole eravamo rimasti senza carburante, anche perché, mi ero dimenticato di annotarlo, il relativo contatore-spia, si era da tempo incrostato sulla posizione di "sottoriserva" e non potendo colmare il serbatoio, per la presenza di altri buchi meno curati di quelli nominati in precedenza, bisognava affidarsi all'intuito ed al "calcolo visuale" dei chilometri percorsi.
Quel giorno eravamo troppo distratti dalla discussione delle richieste da fare, dai termini che potevano farci accettare una proposta di lavoro e soprattutto dalla psicologia da adottare per la richiesta di tali termini, per cui avevamo trascurato le necessità della "vita di bordo".
Ci trovammo così appiedati, con la prevista, quanto provvidenziale tanka per i rifornimenti di emergenza in mano ed il consueto pollicione teso, nella convinzione di non attendere eccessivamente la concessione di un passaggio.
Il nostro abbigliamento, necessariamente tendente al sofisticato per lo scopo della missione (è sempre importante, quando si deve parlare di lavoro, rammentarsi che è proprio l’abito che fa il monaco), come già anticipato, si era dimostrato sufficientemente inadeguato alla rigidità dell'ambiente, ma la vistosa minigonna di Pupina, ci permise di non attendere troppo a lungo e di salire sul mezzo di un intraprendente camionista che, come unico inconveniente, ci costrinse a viaggiare sprofondati in una cappa da cucina rovesciata, che occupava l'unica parte di cabina che poteva darci ospitalità.
Fra le sue ripetute scuse giungemmo così dal più vicino distributore, trovammo pressoché immediatamente un passaggio per il ritorno ed arrivammo giusto in tempo per tranquillizzare uno dei poliziotti di una pattuglia che si era fermata in prossimità del furgone, probabilmente per indagare se si trattasse di un "Ufo" o della nostra "macchina”.
Optando forse per questa seconda ipotesi, ebbe la gentilezza di attendere che avviassi il mezzo per vedere se avessimo bisogno e, come prevedibile, il "coso”, probabilmente intimidito dalla presenza dell'agente, non diede segni di vita.
L'agente, molto cortesemente (ma forse anche ghignando in contenuto e comprensivo silenzio) avvisò l'A.C.I. e salutando altrettanto cortesemente, proseguì il suo servizio.
In un primo momento, non mi preoccupò il fatto di ritrovarmi in attesa di uno di quei carro-atrezzi, da tempo frequenti risolutori delle mie "migrazioni meccanizzate" ma il dubbio di non essere in regola con la quota sociale mi tormentò a tal punto da costringermi a controllare e l'evidenza confermò brutalmente la sua fondatezza; poiché a questo punto era come se non fossimo soci e conoscendo la caratteristica dei conti presentati ai non iscritti al servizio, accettai il sacrificio di Pupina, per tentare la fuga con la famosa "manovra a spinta "e siccome la fortuna aiuta gli audaci la partenza fu quasi immediata.
Ma i nostri orari ormai erano sufficientemente sballati per cui, alla Pensione di Viareggio, meta originaria di cotanta avventura, ci avvisarono che ormai si erano recati tutti a Camaiore, dove avrebbero dovuto animare una festa di piazza.
Giunti noi stessi a Camaiore, provvedemmo a parcheggiare il pulmino fuori dalla vista di eventuali giudizi e valutazioni e raggiungemmo la meta a piedi.

(continua)


   
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