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 Ho paura
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July
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Inserito - 31/08/2006 :  11:42:30  Mostra Profilo  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a July
Ho paura.

Anne scese le scale lentamente, appoggiata al corrimano in ferro battuto il cui freddo contatto si riduceva ad una sensazione tiepida, fugace ed evanescente; un particolare per nulla degno di nota, mentre sporgeva leggermente il capo verso destra per spiare con gli occhi l’immagine di sua figlia. Christina sedeva di fronte al computer, nel disimpegno che solo di recente avevano adibito a “pseudo-studio” – questo era almeno l’epiteto usato da Jordan per indicarlo – ossia stanza gremita di libri, scartoffie, vecchie lampade e oggetti vari. Sopra la vecchia scrivania marrone dai cassetti verdi, unico cimelio della vecchia camera dei marmocchi Grant, erano sistemati il monitor e la tastiera; ai piedi della stessa il computer vero e proprio. Anne ringraziò il cielo che la porta della stanza fosse aperta e potesse accertarsi con una celere occhiata che sua figlia stava bene; ma come sempre si trattò di un grazie fievole, strascicato. Si, perché ella si rendeva conto che questi altro non era che uno dei molteplici segni del cambiamento perpetrato, in Christina, dalla malattia, la sorda, lurida malattia che la stava consumando tutto.
E che la obbligava a compiere gesti aberranti, dei peggiori, anche se pochi lo sapevano.
Fino a due anni prima, Chrissie era un’adolescente come tante; che andava a scuola e prendeva bei voti, qualche volta brutti; che piagnucolava per poter rientrare un’ora più tardi; che si truccava di nascosto sul pianerottolo all’insaputa dei suoi; e che, naturalmente, si ritagliava un pezzo di privacy, dal quale i genitori erano, chiaramente, esclusi.
Adesso non era così. Era come se Chrissie non avesse più una privacy; come se i suoi pensieri fossero divenuti, con l’avanzare della malattia, di pubblico dominio. Come se tutti avessero libero accesso al suo universo mentale, e questo ad Anne suggeriva l’idea dei vecchi manicomi, delle persone malate dei cui pensieri e delle sue paure, nessuno si curava.
Il campanello suonò. Aprendo la porta, la signora Grant si trovò davanti l’ultima persona al mondo che avrebbe voluto trovarsi davanti, e con indosso l’espressione che mai avrebbe voluto vedere impressa sul suo viso; era costui il suo vicino di casa, il sig. Hall. Con addosso la maschera dell’ira, pura e palese.
“Signora Grant – incalzò con una voce resa abilmente sottile dall’astio e dalla collera – posso farle una domanda?”
“Si…certo…”
“Sua figlia c’entra forse qualcosa con quello che è successo oggi al mio gatto Arthur?”
Anne aggrottò le sopracciglia.
“Perché? Cos’è successo al suo gatto?”
Si augurava che Chrissie, poco lontano, non sentisse.
“L’unica cosa che so dirle è che ne ho trovato la carcassa stamattina. Appesa al filo del bucato.”
La frase fu pronunciata in modo così tagliente che Anne ebbe quasi la sensazione di qualcosa che fendeva l’aria tra di loro; sensazione che venne acuita dall’occhiata glaciale che il signor Hall fece ricadere su di lei.
“Non immagina – proseguì il vicino – che cosa ho provato quando ho visto il mio Arthur lì. Sospeso a mezz’aria. Con un….con un….” Abbassò gli occhi fissando le mani, che avevano preso a tremare “Con un’orrendo squarcio che partiva dal collo e arrivava alle zampette…posteriori, intendo….”
Anne assunse un’espressione disgustata, mentre continuava a fissare il suo interlocutore con la porta semiaperta alle spalle.
“E’ stato uno spettacolo orribile. Il sangue gli grondava dal muso…e dal pancino….”
Alla nausea si aggiunse l’inatteso, quanto improvviso, impulso a ridere, che Anne fu molto brava a reprimere. Sapeva che il signor Hall viveva da solo, che era scapolo e che con ogni probabilità il suo rapporto più profondo era quello che aveva col suo gatto; capiva che per una persona la cui esistenza era stata sempre priva di contatti intimi e legami amorosi l’affetto di un animale doveva essere una specie di oasi; ma nonostante ciò trovava ridicolo usare pubblicamente espressioni infantili come “pancino” per riferirsi ad una parte del corpo del felino!
“Povero il mio Arthur!” proruppe il signor Hall. In quel momento, Anne si accorse che egli era sul punto di piangere.
“Mi dispiace tantissimo, signor Hall – gli disse, ed era sincera – Vuole…vuole accomodarsi dentro? Le preparo una tazza di thè, se vuole”
Col capo chino il signor Hall si lasciò guidare nella cucina di casa Grant. Parve rasserenarsi, negli istanti successivi; quando Anne, messo il bollitore sul fornello, si sedette di fronte a lui e gli parlò.
“Comprendo il suo dolore, signor Hall, e me ne rammarico tantissimo.”
Il signor Hall sollevò il viso, rosso per via dello sfogo, e la osservò.
“Ma quello che è successo – proseguì Anne tentando di cogliere al volo la disponibilità del vicino – non deve assolutamente farle pensare ad un possibile coinvolgimento di mia figlia.” Stette a fissarlo dritto negli occhi per un attimo. Poi il bollitore emise il segnale che annunciava che l’acqua era pronta.
“Me lo assicura?” domandò il vicino mentre guardava il liquido giallo-arancio che scorreva dal beccuccio della teiera sulla tazza che Anne aveva posato sul tavolo.
“Certo.”
D’un tratto, ad Anne parve di percepire un rumore proveniente dallo pseudo-studio. Fu scaltra a nascondere la propria preoccupazione. Fingendo di andare a vedere se la lavatrice aveva finito, si allontanò per vedere cosa stava facendo Chrissie. Con aria apprensiva si appoggiò allo stipite della porta semiaperta, e con lo sguardo puntò dritta in direzione della sagoma ritta sullo sgabello ergodinamico, escludendo il resto. Fu per questo che le parve che tutto andasse bene.
In realtà, non andava tutto così bene. Decisamente, non andava tutto così bene.
Se Anne non si fosse subito precipitata nuovamente in cucina ad ascoltare il signor Hall, le cui frasi avevano ormai assunto una piega diversa, simile, ma non del tutto, a frasi di scusa, si sarebbe accorta di un dettaglio.
Anzi, due dettagli.
Ma per accorgersi del primo, ella avrebbe dovuto sporgersi più in là, fino a vedere il profilo di Chrissie dirimpetto al monitor. Solo in tal caso, avrebbe avuto l’amara sorpresa di vedere un volto totalmente perso, inebetito, simile a quello dei lobotomizzati. Con la bocca semiaperta che lasciava intravedere i denti bianchi, serrati, e gli occhi vitrei che fissavano un punto lontano. Aldilà del vetro del monitor.
Aldilà di ogni immaginazione, probabilmente.
E questo sarebbe stato il primo dettaglio.
Il secondo, invece, scorreva sullo schermo, incurante degli occhi vitrei e dei denti serrati.
Scorreva sotto l’impulso delle dita di Chrissie, che articolavano sui tasti grigi movimenti tanto minuti quanto ritmati, a frequenza regolare, sollevandosi ed abbassandosi come se fossero state staccate dal resto del corpo.
Scorreva, tracciando col carattere Comic Sans una serie di scritte tutti uguali, che si stendevano sia in orizzontale che in verticale, monotone, ineluttabili, tremendamente gelide nel loro ripetere un unico nome
Beatrice Shirley

Sarebbe stato come la lama di un coltello che si apriva un varco alla base del collo – proprio come lo sfortunato gatto del signor Hall – per poi procede, squarciando tessuti e giunture, in direzione del bacino, col sangue che zampillava, scorreva e infine si raggrumava. Perché se Anne avesse visto avrebbe compreso il significato di quella fosse successione tutta uguale…
Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley Beatrice Shirley…ma non la vide.
Tornò in cucina, per l’appunto, dove cinque secondi dopo il suo vicino le diceva, con aria contrita:
“Signora Grant, io non voglio accusare nessuno…è solo che dopo l’incidente di Andrew, la sua Christina, vede, è diventata un po’ strana.”
Quello “strana” un po’ stritolato non mancò di turbare Anne.
“Ha ragione, signor Hall. Ha perfettamente ragione. Ma questo non deve indurla a pensare che farebbe qualcosa di male ad un gatto. Come a nessun altro, del resto.”
Aveva pronunciato la risposta mentre fissava i fiorellini blu sul bordo della scodella. Lo stesso faceva il vicino, perlomeno prima di sollevare su di lei uno sguardo leggermente più sereno.
“Sarà stato qualche ragazzaccio del vicinato. – concluse, facendo sì che Anne tirasse un sospiro di sollievo – Non sarà la fine del mondo, in effetti era solo….- fece uno sforzo per continuare – era solo un gatto.”
Anne sapeva quanto al suo vicino stesse costando quell’affermazione. Come sapeva che per lei la cosa migliore era che la facesse. Lo accompagnò all’uscita, senza staccare un attimo gli occhi dalla sua persona.
“Mi scuso ancora, signora Grant. – proseguiva l’ometto, ora ridotto ad un animale inoffensivo – Non volevo in alcun modo accusare sua figlia di niente e ….”
Tacque, intravedendo un’espressione preoccupata comparire all’improvviso sul viso di Anne. Entrambi lo ignoravano, ma nella stanza a fianco, Chrissie iniziava a svegliarsi dal proprio sonno temporaneo. Le dita intorpidite cessavano di premere sulla tastiera, e gli occhi vitrei diventavano sempre meno vitrei, man mano che la lucidità del quotidiano riprendeva il sopravvento.
E nel frattempo, Anne guardava fuori e il signor Hall si voltava per vedere cosa Anne stesse guardando, e allora sgranò gli occhi e spalancò la bocca in un’espressione comica.
La macchina della polizia si era appena fermata dinnanzi alla staccionata bianca di casa Grant, e ne stava scendendo un poliziotto, mentre l’altro, il compagno alla guida, rimaneva fermo nella sua stessa posizione.
“Signora Grant?” domandò il poliziotto giunto al cospetto di Anne, la quale lo riconobbe subito. Era il poliziotto incaricato delle indagini quando aveva preso fuoco la casa di Gilly Prass. Dunque una vecchia conoscenza, per loro.
“Si…?” rispose Anne, quasi rapita.
“Sua figlia Christina è in casa?”
“Si….”
“Posso vederla?”
“Che volete da Chrissie?” domandò bruscamente Anne, come se anche lei si stesse svegliando da una sorta di letargo.
“Ecco…abbiamo appena rinvenuto il cadavere di Beatrice Shirley. I vicini si erano insospettiti perché da qualche giorno la signora Shirley non si vedeva in giro, così hanno chiamato la polizia. L’abbiamo trovata morta, stesa sul suo letto; stringeva in una mano un flacone di pillole che abbiamo portato ad analizzare. Nell’altra un foglietto di carta con sopra scritto “Christina Grant”.
Il signor Hall strabuzzò gli occhi. Anne rapidamente parve venire assalita dall’orrore.
“Ora mi fa entrare?” domandò il poliziotto. Anne, che si era appena portata una mano alla bocca, quasi a voler contenere il proprio terrore che dappertutto cercava varchi per fare irruzione fuori, fu colta all’improvviso da un pensiero: doveva farlo entrare, e subito. Tutto quello che avrebbe fatto, d’ora in poi, avrebbe potuto aggravare la posizione di sua figlia.
Si scostò su un lato, con movenze da automa, e fece entrare il poliziotto. Poi lo seguì, come ipnotizzato, e allora entrambi videro.
Anzi, tutti e tre, visto che il signor Hall si era appena concesso la libertà di seguirli, forse in virtù del fatto che il suo felino era stato eletto vittima sacrificale quel giorno.
Videro la ragazza che guardandosi attorno, spaurita, si sgranchiva le gambe e le braccia.
E videro sul monitor, ripetuto una quantità innumerevoli di volte, proprio il nome di
Beatrice Shirley“Oh, mio Dio!” esclamò Anne.
“E poi non c’entrava niente col mio Arthur!” esclamò il signor hall con voce piena di risentimento.
Chrissie si sollevò, lentamente e pesantemente, dallo sgabello. Fissò l’uniforme con la bocca socchiusa, e con lo sguardo cercò subito quello della madre.
“Mamma…cosa sta succedendo?”
“Niente tesoro….va tutto bene.”
Anne l’abbracciò.
“Signorina Grant, deve seguirci.” Asserì il poliziotto.
Chrissie si divincolò dalla stretta della madre. Adesso era spaventata.
Veramente spaventata. E la madre lo era anche per lei.
Chrissie sentì un brivido agghiacciante percorrerle la schiena, e gelarla tutta, compreso il sangue nelle vene.
“Mamma – mormorò cercando nuovamente il suo contatto, e con gli occhi che le brillavano come se fossero stati pieni di stelle – Ho paura…”

July

   
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