Renato Attolini
Senatore
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Inserito - 28/12/2007 : 20:13:52
Ognuno di noi, penso, ha il suo giorno sfortunato per eccellenza. Non si sa come mai, per quale motivo ma c’è un giorno della settimana in cui le cose vanno meno bene, se il periodo che si attraversa è di relativa tranquillità o peggio degli altri giorni se il momento è proprio di quelli negativi. Il mio giorno “nero” è il mercoledì. L’ho potuto appurare studiando la casistica e dopo varie riprove sono giunto alla conclusione che non possono essere delle coincidenze. Non è detto che debbano succedere cose per forza gravi (sono capitate anche quelle) ma il più delle volte sono quegli intoppi e inconvenienti che ti fanno proprio dire: ma che giorno di mer…coledì, come spesso usano dire i cosiddetti ispano-hablantes, cioè coloro che appartengono alla madre lingua spagnola. Il termine “miercoles” (mercoledì) è usato sovente da loro in luogo di un'altra parola che non si può dire ma che ha molte assonanze fonetiche. In particolare mi ricordo di un mercoledì i cui avvenimenti mi rimasero impressi per parecchio tempo. Mi ero già svegliato tardi, più tardi del solito, e correvo come un matto fra la stanza, il bagno e la cucina per riuscire a fare le solite operazioni di routine più in fretta che potessi. Mi ritrovai vestito di tutto punto, giacca e cravatta, tirato a lucido per un appuntamento che avevo in mattinata, con la tazza di caffé fumante in mano che cercavo di trangugiare in piedi per risparmiare tempo. Mia moglie mi disse: “Ma dai caro, siediti un attimo, mangia anche qualcosa!” “No tesoro, non posso, sono già in ritardo” risposi deglutendo a fatica mentre il delizioso ed aromatico infuso nero scendeva nelle mie budella ad una temperatura di circa mille gradi celsius o almeno tali mi parevano. In quel mentre la mia adorata bambina sopraggiunse col suo zaino carico di libri o almeno così dice lei, mentre io ho sempre avuto l’impressione che porti a scuola dei campioni dei marmi di Carrara a giudicare dal peso. Con una grazia degna di Nureiev se lo issò sulle spalle e si girò di scatto per salutarmi, colpendomi a tradimento nella schiena con quella specie d’arsenale militare che si portava appresso. Il caffé rimasto si rovesciò su giacca, camicia e cravatta ed io lanciai un urlo animalesco molto simile a quello di King Kong quando si batteva i pugni sul petto e nel frattempo cercai con lo sguardo il calendario perché avevo l’intenzione di tirarli giù tutti, dal 1 gennaio al 31 dicembre, nessuno escluso, ma fui bloccato da mia moglie che mi tappò la bocca impedendomi di giocarmi in modo definitivo le ultime residue speranze di andare in paradiso. La bambina scoppiò in una risata irrefrenabile che presto si tramutò in pianto angosciato quando vide il mio volto satanicamente inferocito che la stava incenerendo con lo sguardo. “Non te la prendere con la piccola adesso!” mi urlò mia moglie “Se ti fossi seduto a mangiare questo non sarebbe successo!”. Non so perché ma in quel momento mi vidi nei panni di un giudice di tribunale che concedeva le attenuanti ad un imputato accusato d’uxoricidio. Come in una scena di un vecchio film di Fantozzi urlai: “EMERGENZA!” Questo era l’allarme generale stabilito che impegnava tutta la famiglia a risolvere casi come quelli. Mia moglie si precipitò nella camera da letto per cercarmi un abito in sostituzione, mentre mia figlia mi aiutava a togliermi gli indumenti “corretti al caffé”. In cinque minuti esatti ero di nuovo pronto. C’è un detto che afferma che la gatta frettolosa fece i micini ciechi ed, in effetti, è vero almeno a giudicare dal risultato. La nuova combinazione di giacca, camicia e cravatta era più adatta al Circo Barnum che non ad un ufficio, ma ormai non c’era più tempo. Il ritardo stava assumendo proporzioni bibliche e mi tuffai nel traffico quotidiano cercando di imitare i protagonisti del famoso telefilm “Le strade di san Francisco”. Me la stavo cavando egregiamente, quando vidi una grossa Jeep che mi tagliava la strada. Dio, quanto li odio quelli che vanno su quelle specie di mini-autocarri! Si credono i padroni della strada, sempre col telefonino in mano, incuranti dei segnali e delle altre autovetture. I cosiddetti “parvenu”, arroganti e prepotenti. Inchiodai la mia auto con uno stridìo tale che ebbi l’impressione di avere consumato tutte le gomme e di frenare ormai con i cerchioni. Abbassai il finestrino e mentre il mio dito medio fendeva l’aria, urlai all’indirizzo di quell’incivile tutti gli insulti che mi passavano per la testa e mi permisi anche alcune considerazioni sulla professione esercitata dalle di lui madre, moglie e sorella. Dovevo aver colpito nel segno perché questi scese e si avvicinò minacciosamente a me. “Oh,Oh!” pensai “Qui si mette male. Se è un “parvenu” sarà anche sicuramente un “palestrato” per cui vedo in pericolo le mie ossa”. Fui salvato da una pioggia di clacson che lo indusse a risalire sulla sua “astronave” non prima di avermi lanciato uno sguardo della serie: “Prima o poi ti ribecco.” Giunsi finalmente trafelato in ufficio e poiché io ne ho le chiavi trovai colleghi e clienti già in impaziente attesa. Il commento più benevolo alludeva alla mia propensione a svegliarmi tardi. Su gli altri fu meglio sorvolare. Dopo un po’ arrivò il capo che notando il mio abbigliamento fu quasi colto da un conato di vomito e sibilò ironicamente: “Siamo sul variopinto oggi”. La mattinata trascorse fra i soliti problemi d’ogni tipo ed arrivò mezzogiorno. Il mio capo si fiondò nel mio ufficio e tutto agitato mi disse: “Preparati, sta arrivando quel tizio che vuole investire da noi 500 milioni d’euro, un miliardo del vecchio conio. Hai già preparato i prospetti?” “Si, boss, tranquillo, è tutto ok” feci io alla maniera di Clint Eastwood. “Fallo pure accomodare”. Fu così che il mio capo mentre i suoi occhi roteavano come delle slot-machines pensando alle provvigioni che avremmo guadagnato andò incontro al nostro “benefattore” e lo sentii cinguettare: “Venga venga dottore che le presento il nostro operatore finanziario il signor…” le parole gli morirono sulle labbra quando vide il mio sorriso stereotipato trasformarsi in una smorfia grottesca analogamente a quello che succedeva al tipo della jeep. Questi mi squadrò in modo furioso e poi puntando l’indice contro di me come fece Harrison Ford a Richard Harris nel film “Giochi di potere”, si rivolse al mio capo bofonchiando: “Mai farò un investimento con certa gente!”. Dopodichè se ne uscì sbattendo la porta. Il gelo era sceso nell’ufficio. Il boss mi guardò in modo inquisitorio ed io mentendo spudoratamente balbettai un: “Mah non so che cosa gli ha avrà mai preso”. Ovvio che questo non lo convinse affatto ed io ebbi la netta sensazione che la mia promozione sarebbe rimasta nel suo cassetto chissà per quanto tempo ancora. Arrivò la pausa pranzo ed io mi recai al solito bar per uno spuntino veloce. Al banco c’era una ragazza nuova ed io mi chiesi subito cosa ci facesse uno splendore del genere in un posto simile. Capelli neri ricci, bocca carnosa e sensuale, occhi scuri ed uno sguardo che avrebbe risvegliato Tutankamen. “Desidera signore?” mi chiese con un sorriso. “Un panino con crudo e mozzarella” il mio preferito. Dovevo farle colpo, magari con una frase spiritosa. “Che pane vuole, michetta, francesino, arabo?” “Arabo, sicuramente. E’ l’unico arabo buono che conosco!” le dissi strizzandole l’occhio. Il sorriso scomparve dalla sua faccia mentre mi diceva freddamente: “E’ molti anni che sono in Italia, ma sono nativa di Riad”. Anziché fare colpo, lo incassai invece. Inutile tentare un recupero sarebbe stato pietoso. Mi rifugiai in un tavolino d’angolo e ingurgitati in fretta il mio scarno pasto. Giunse finalmente sera, il ritorno a casa. Le tensioni di quella giornata maledetta sembravano tutte alle spalle, cosicché dopo una lauta cena mi tuffai nella mia poltrona preferita per godermi la partita di Champions League della mia squadra del cuore. Era una pura e semplice formalità: all’andata degli ottavi di finale avevamo vinto 4-1 per cui sarebbe stata quasi una gita turistica, ma che da tifoso “militante” avrei visto ugualmente. Dopo mezz’ora di gioco eravamo sotto di 3 goals ed io ero preda del panico più assoluto. In quel mentre mia moglie mi si avvicinò per abbracciarmi dicendomi: “Coma va, caro?” e così facendo m’impediva la visuale della partita. Come dice un mio caro amico: “Mai una donna deve mettersi fra il suo uomo e la sua squadra di calcio”. “Vai via, non vedo niente” le dissi stizzito. Lei, se n’andò offesa, ma a me poco importava: ero seriamente preoccupato dell’andamento del match. Risultato finale 4-0 e noi eliminati. Distrutto sulla poltrona facevo zapping su canali vari per stabilirmi poi su uno di quelli che trasmetteva quasi sempre notizie sportive. Mi ricordai che avevo scommesso il pareggio con la conseguente eliminazione del Real Madrid che giocava in trasferta contro una formazione approdata chissà come agli ottavi. Infatti il risultato era inchiodato sullo 0-0 (andata 1-1 al “Santiago Bernabeu”) ed avendo io scommesso 50 euro ne stavo per incassare quasi mille. Evviva, finalmente una buona notizia! Il telecronista stava facendo il resoconto degli ultimi scampoli di partita. “Mancano pochi secondi alla fine dell’incontro ed il Real è ad un passo da una clamorosa eliminazione, avendo pareggiato 1-1 all’andata. Seguiamo quella che è probabilmente l’ultima azione dei “merengues”: è Beckam che imposta, al limite passa a Raul, serpentina dell’attaccante tiro GOAL!!!!! Incredibile a dieci secondi dalla fine il Real agguanta la qualificazione!” Addio mille euro, ero sempre più distrutto. Sconfortato me n’andai a letto: mia moglie dormiva come un angioletto. La guardai ed un’ondata di tenerezza mi travolse. Eccola lì l’angelo del focolare, la regina della casa, colei che con un gesto fa passare tutte le tribolazioni, le preoccupazioni. Guai non ci fosse lei, che vita sarebbe? M’infilai sotto le coperte e l’abbracciai sussurrandole dolcemente: “Ciao amore mio”. Il calcio violento e ben assestato mi colpì sul ginocchio. Era un fallo da “cartellino rosso”, da espulsione. Non riuscii a reprimere un gemito di dolore soffocato. Lei non fece neanche una piega e senza aprire gli occhi mi disse seccamente: “Vai ad abbracciare i tuoi giocatori, non me”. Beh, un po’ me l’ero cercata. Guardai il display dell’orologio: 23.59. Ancora un minuto e quel maledetto mercoledì sarebbe finito.
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