Renato Attolini
Senatore
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Inserito - 21/06/2009 : 23:24:45
“Ci sono dei momenti in cui un cronista per quanto si sia esercitato per anni ad indurire la sua anima e raccontare con professionalità spesso mascherata da indifferenza dei fatti più atroci che possono avvenire nel mondo, proprio non ce la faccia e si ricordi anche solo per un attimo che è un essere umano con tutti i suoi sentimenti e la sua sensibilità, per cui…” e qui la sua voce s’incrinò “per cui…dicevo..quello al quale ho assistito oggi è uno degli spettacoli più sconvolgenti ai quali si possa assistere. Posso capire quindi cosa provarono i soldati russi, quando entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz.”. Fece una pausa, mentre dallo studio centrale la voce imbarazzata del conduttore del TG cercava di porre rimedio ad una situazione che sembrava gli stesse sfuggendo di mano. “Capisco, Stefano, se non hai altro d’aggiungere.. possiamo anche chiudere il collegamento.”. “Veramente qualcosa d’aggiungere ce l’avrei, se solo le telecamere inquadrassero anziché la mia faccia da idiota, quello che le ruspe dietro di me stanno riportando alla luce, cioè pezzi di centinaia e centinaia di cadaveri!” gridò nel microfono. L’immagine si fece di colpo confusa e scomparve del tutto, mentre lo speaker, raschiando la gola cercò di dissimulare un tono professionale e con noncuranza disse: “Sembra ci sia stata un’interruzione sul collegamento internazionale, perciò passiamo ad un altro argomento”. Stefano Donati prese il telecomando del videoregistratore e con un gesto meccanico lo spense. Quante volte aveva visto quella cassetta che riportava il suo ultimo servizio? Decine? Forse di più. Erano passati 15 anni da quando cronista d’assalto di un network nazionale era stato mandato in Ruanda per documentare il genocidio perpetrato dagli Hutu a danno dei Tutsi. Aveva allora più di quarant’anni, non era più giovanissimo, ma era dannatamente in gamba. Aveva fatto reportage sia pure per pochissimo tempo data la sua giovanissima età in Vietnam, aveva assistito al crollo del muro di Berlino, aveva raccontato dal vivo la “madre di tutte le battaglie” nella Guerra del Golfo” e si era guadagnato la fama di un reporter duro e cinico al quale niente faceva paura…almeno fino ad allora. Cosa c’era di diverso in quel luogo? Che cosa lo faceva sembrare più terribile rispetto alle bombe al napalm o alla strage di Song My nella guerra del Vietnam? L’efferatezza senza dubbio, ma probabilmente non il solo motivo. Prese in mano meccanicamente il telecomando del televisore e cominciò distrattamente a fare zapping. Vide il volto di una ragazza in lacrime che farfugliava qualcosa e quella sofferenza gli catturò l’attenzione per un attimo. Poi si rese conto che frignava perché aveva litigato con altri giovani che stavano rinchiusi giorno e notte in una casa e venivano costantemente ripresi dalle telecamere. Pensò al dolore e ai singhiozzi della gente in Ruanda e dopo aver amaramente mandato in un certo posto quella ragazza cambiò canale. Lo scenario cambiò di poco: avanspettacoli con battute grevi, talk-show e reality dove tutti gridavano e s’insultavano e presentatori che facevano fatica a tenerli a bada. La nausea lo sopraffece, spense l’apparecchio e si distese sulla poltrona. La bottiglia di whisky era sempre lì vicino con l’immancabile pacchetto di sigarette. Fece uso di entrambe come tutte le sere e come tutte le sere riandò con la memoria a quando fu inviato in quel lontano paese per raccontare di una guerra fratricida. Si rivide con i grandi occhiali da sole, la camicia kaki e il suo registratore aggirarsi per le vie della capitale in cerca di notizie. Quello che riusciva a vedere erano solo ed unicamente: morte e disperazione. Gli sembrava di muoversi in un orrendo e gigantesco mattatoio, generato dalle violenze degli Hutu che erano cresciute in modo esponenziale da quando la loro radio aveva lanciato un messaggio: “Tagliate la cima agli alberi alti” che in codice ordinava lo sterminio totale dell’etnia Tutsi. I servizi che confezionava per il suo network erano appassionati ma sempre improntati alla massima professionalità e anche in quell’orrore la sua dura corazza di freddezza mista a un po’ di cinismo sembrava non fosse minimamente scalfita. Riuscì ad intervistare appartenenti di entrambe le etnie e venne a conoscenza anche di curiosi aneddoti come di quell’alto esponente Tutsi che per sottrarsi alla mattanza fuggì dal paese percorrendo a piedi migliaia di chilometri nella foresta, impugnando un fucile che teneva più in alto possibile, in modo che se qualche serpente gli si fosse avvinghiato addosso avrebbe percorso tutto il suo corpo fino alla massima estremità e per lui sarebbe stato più facile liberarsene. Nei pochissimi momenti di riposo quando sorseggiava drink al bar dell’albergo scaricava la tensione ridendo e scherzando con altri colleghi e le battute preferite e più pesanti erano sulle ragazze di quei luoghi e su come si concedessero facilmente agli stranieri in cambio di cibo, vestiti o solo con la promessa di essere portate via. Lui non ci aveva mai provato ma spinto dalla curiosità e incoraggiato dalle “sparate” dei colleghi che declamavano conquiste in quantità industriale, decise di tentarci un giorno, approfittando di una visita in un villaggio Tutsi nel quale si era recato per un servizio. La delusione che ne ebbe fu pari all’intensità delle fandonie che gli avevano propinato. Trovò miseria, paura, disperazione ma anche una grande dignità e quelle ragazze che si sarebbero dovute abbandonare per un tozzo di pane avevano una fierezza e un portamento quasi regale. Non che rifiutassero alcun aiuto, anzi, ma in quanto al resto bastava uno sguardo per far intendere che chi voleva qualcosa d’altro aveva sbagliato indirizzo. Ne conobbe una in particolare che lo colpì per la sua bellezza: occhi verdi come il mare splendevano su una pelle nera come l’ebano che metteva in risalto dei denti bianchissimi e un corpo che in un altro paese le avrebbe permesso di fare la top model. Messi in disparte i suoi propositi si avvicinò a lei con solo scopo di fare conoscenza e magari amicizia. La ragazza era abbastanza cordiale e accettò di fare conversazione. Si chiamava Françoise, aveva una figlia di un anno e suo marito era stato brutalmente assassinato in uno dei tanti raid effettuati dalle squadre della morte degli Hutu. Era dolce, sensibile e intelligente e queste qualità unite a quelle fisiche fecero sì che Stefano fosse soggiogato da lei. Forse non fu un vero e proprio colpo di fulmine, ma certamente non c’impiegò molto tempo ad invaghirsi di lei. Infatti, con la scusa di raccogliere notizie tornò molto spesso in quel villaggio e sempre cercò di lei. Ormai lo conoscevano tutti e lo accoglievano ogni volta con simpatia. Stefano non era Richard Gere, ma non era neanche poi un brutto uomo e soprattutto era colto e dotato di un certo fascino. Françoise si lasciò conquistare piano, piano dal suo modo di fare, da quello che gli raccontava dai suoi viaggi in tutto il mondo. Single convinto, soprattutto per necessità in virtù del lavoro che faceva, Stefano sentì che quel rapporto con la ragazza stava minando le sue certezze e che un sentimento nuovo, forse sconosciuto si stava impossessando di lui. Come nelle più belle favole fu ricambiato: l’amore esplose fra di loro coinvolgendoli in un turbinio esaltante di sensazioni fisiche, emotive e cerebrali. A differenza delle altre fiabe non c’era però un castello che li attendeva dove avrebbero vissuto felici e contenti ma la dura realtà di un paese martoriato da una guerra infinita. Non si perse d’animo, non era nel suo carattere e decise, ancora non sapeva come, che quando sarebbe rientrato in Italia avrebbe portato con se lei e la sua piccolina. Un giorno andò da lei con un pegno d’amore: un grosso anello che era riuscito a procurarsi in città. Quando glielo infilò alla mano lei gli si strinse addosso con tutta la sua forza sopraffatta dalla commozione. “Françoise, amore mio” le disse in tono dolcissimo” Tra poco rientrerò nel mio paese e voi verrete con me. Sto già cercando i canali giusti che ci possano aiutare”. Lei scoppiò a piangere sciogliendosi dall’abbraccio. “Tu sei pazzo! Non capisci, non c’è alcuna speranza. E’ impossibile fuggire dal Ruanda. Per la mia gente c’è solo un destino ed è la morte.”. “No amore mio, vedrai che non sarà così!” Le rispose con foga “Noi ci salveremo ed avremo tutta una vita per noi” “Ascoltami amore, non c’è nessuna possibilità. Mettiti in salvo tu piuttosto, io ho già perso un grande amore, non voglio che succeda ancora.”. “Vedrai tesoro, non mi capiterà nulla. Abbi fiducia in me.” L’abbracciò e baciò con passione e poi tornò alla sua base con delle diverse idee che gli frullavano in mente. Per un po’ di tempo non si fece vedere in quanto stava cercando di mettersi in contatto con delle persone che avrebbero potuto fornire delle false generalità a Françoise e permetterle quindi di espatriare senza problemi. Quando finalmente trovò chi poteva servire alla causa, corse da lei per comunicarle la notizia. Quello che vide, quando arrivò al villaggio lo lasciò sgomento: baracche date alle fiamme che ancora bruciavano e dappertutto morte e desolazione. In preda ad un terrore indicibile vagò alla ricerca di Françoise, cercando invano se c’era qualche superstite e poi fra i corpi abbandonati qua e là. Niente, nessuna traccia né di lei né della piccola. Tornò in città in preda ad un’agitazione irrefrenabile e seppure a fatica cercò di calmarsi per essere più lucido nella sua ricerca. Vagò per giorni e giorni senza risultato. Nei suoi servizi veniva qualche volta affiancato da un fotoreporter che fungeva anche da cameraman e che immortalava le immagini che lui descriveva. Lo trovò all’albergo che lo cercava disperatamente: era successo qualcosa in una località non distante da loro che richiedeva la loro presenza e che bisognava assolutamente trasmettere. Sia pure con riluttanza, in fondo non poteva dimenticare il suo lavoro, lo seguì ed arrivarono ad una radura dove si era radunata una folta schiera di giornalisti. Riconobbe qualche collega e chiese loro cosa ci fosse così interessante da vedere. “Guarda tu stesso.” Si limitò a dire uno di loro. La scena che gli si presentò agli occhi lo lasciò senza fiato: alcune ruspe stavano scavando nel terreno e riportavano alla luce i corpi senza vita di centinaia di persone, molto probabilmente anzi sicuramente appartenenti all’etnia Tutsi. “Vieni” disse al cameraman ”riprendi il tutto.. Mentre con moltissima fatica stava cercando di fermare la nausea che saliva come una marea, una stranissima inquietudine si stava lentamente ma inesorabilmente impossessando di lui intanto che il collega con la cinepresa immortalava quelle orribili immagini. I corpi erano ammassati scompostamente l’uno all’altro ma quando il destino vuole mandarti un segnale te lo fa arrivare anche nelle situazioni più difficili e ti fa vedere il lume di un cerino anche nella notte o nella nebbia più fitta. Fu così che la vide. Il corpo era quasi irriconoscibile, ma lui non ebbe dubbi e poi l’anello al dito, stranamente dimenticato da quelle orde di assassini, gli diede la certezza definitiva. Vacillò pericolosamente e mentre gli sembrava che il mondo gli girasse intorno velocemente sentì che la sua mente stava raggiungendo quello stato che lo scrittore americano Stephen King amava definire con un’espressione terribilmente inquietante: “il punto di non ritorno”. Un attimo prima che l’alienazione lo prendesse completamente e per sempre, cadde in ginocchio e scoppiò in un pianto irrefrenabile. Quei singhiozzi violenti che squassarono il suo corpo furono la sua salvezza e non gli fecero perdere il contatto con la realtà. “Stefano, calmati!” era il cameraman che gli parlava con voce perplessa, ignaro del suo dramma. Pensava che la sua reazione fosse dovuta alla visione di quelle atrocità. “Calmati” ripeté “dobbiamo andare in diretta.”. Stefano si alzò come in trance, si riassettò più che poté e poi con voce incolore prese il microfono e cominciò a parlare: “Ci sono dei momenti in cui un cronista…….”. Quello fu il suo ultimo servizio. Rimase ancora a lavorare per il network ma negli uffici interni per qualche anno ancora e poi diede le dimissioni. Si fece fare una copia di quella videocassetta e spesso e volentieri, facendosi del male, se la rivedeva. Spense la sigaretta, si alzò stiracchiandosi e si diresse verso la sua camera. Come tutte le sere si fermò davanti alla porta chiusa di una piccola stanza. Bussò delicatamente e dopo aver ottenuto il permesso, entrò. Sul lettino c’era sdraiata una bellissima ragazza di circa 16 anni che stava leggendo un testo scolastico. Come lo vide gli sorrise e lo salutò: “Ciao Stefy, vai a letto?” Lui annuì ricambiando il sorriso e poi si sedette accanto alla ragazza accarezzandole i capelli. Ammirò una volta di più la sua pelle vellutata nera come la pece e i suoi occhi verdi. Lei lo abbracciò teneramente, ma poi si ritrasse subito. “Hai bevuto e fumato, vero?” lo accusò arrabbiata. “Si, Françoise, un pochino” si giustificò lui un po’ vergognoso. “Oh, Stefy….papy” lo redarguì lei dolcemente “Quando la smetterai di tormentarti” “Mai, mai, figlia mia” disse lui con occhi che gli riempivano di lacrime. “Dai, su…..parlami di mia madre” disse lei mettendosi a sedere. “Si chiamava come te” cominciò lui “era bellissima, la più bella di tutto il villaggio. Tu hai preso da lei.” “E mio papà, l’hai conosciuto?” chiese lei anche se conosceva già la risposta a quella domanda formulata mille volte. “No, quando ho incontrato tua madre lui non c’era già più, ma da come me ne parlava lei era forte, leale e coraggioso, un vero guerriero Tutsi”. “Tu mi hai salvato, vero?” “Si piccola mia. Non saprò mai come hai fatto a scampare a quel massacro ma quando ti ho vista in quel campo profughi in braccio ad una crocerossina, ti ho riconosciuta subito anche se avevi solo un anno e ti ho portata con me. Sei come una figlia per me, sei la ragione della mia vita, anche se so che tra non molto te ne andrai, giustamente, per la tua strada.”. “Sai bene che non ti lascerò mai, anche se sarò sposata e con 10 figli. Tu starai sempre con me” “Bisogna vedere se tuo marito sarà d’accordo”. I due risero e si abbracciarono più forte e mentre Stefano la stringeva a sé, chiuse gli occhi e rivide il volto della sua donna tanto amata, ma non poté fare a meno di sentire ancora una volta le urla strazianti di quell’eccidio che ancora rimbombavano nella sua mente e che mai l’avrebbero abbandonato.Nota finale. Prendo in prestito dal “maestro” Stephen King, che come si può notare amo spesso citare e di cui sono un fan l’abitudine di scrivere una postilla in calce, spiegando da dove è venuta l’idea che ha originato il racconto. Gli appassionati di cinema che, bontà loro, l’avranno letto avranno senza dubbio capito che mi sono ispirato (c’è chi magari dirà: scopiazzato) a due film e per la precisione “Hunting Party” e “Hotel Ruanda”. Per onestà intellettuale devo confermare che ci sono molte somiglianze. Per quanto riguarda invece le ruspe che portano alla luce i cadaveri e quell’uomo che ha attraversato la giungla a piedi, sono episodi realmente successi riportati da qualcuno che ha vissuto in prima persona quella tragedia.
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