Renato Attolini
Senatore
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Inserito - 04/05/2014 : 18:01:41
Non pensavo potesse succedere anche a me, ero convinto fosse un aspetto della vita che riguardasse solo gli altri, ma purtroppo sono stato smentito e anche duramente: sto invecchiando, anzi sono invecchiato. Non me ne sono accorto tanto dal fatto che l’aumento dei chili e la diminuzione dei capelli sono fattori direttamente proporzionale all’avanzare dei miei anni. Un pochino c’entra magari anche la commessa del supermercato che nel giorno dedicato allo sconto per gli over 60 ti dice con un sorriso che non occorre che le mostri la carta d’identità, come a dire che si vedono benissimo gli anni che ho. Ma come sarebbe? Io mi aspettavo invece che me la chiedesse magari anche con tono asciutto e scortese (d’altronde molte commesse eccellono in questo) facendo trapelare tutta la sua diffidenza sul fatto che io avessi diritto a quell’agevolazione. Macché, ne vado a beccare una gentile e affabile che mi rifila però una coltellata al petto, sia pure morale. Ma come dicevo, non è tanto per questo e allora per cos’è? Accertata l’indiscutibilità di quanto sopra esposto, è una serie di motivi tutti a livello mentale che fa esplodere dentro la mia testa questa frase: “Caspita quanto sono vecchio!”, tra i quali, per esempio tutti i grandi eventi storici, politici, musicali di cui sono stato testimone e che quando ne parlo a qualche giovane mi guarda come se provenissi da un’altra galassia. Piccolo segnale che certifica un’età alquanto avanzata. Eppoi c’è la mia storia personale, quella che comincia quando ero ancora un bambino e che lasciata nel dimenticatoio per tanto tempo sta riaffiorando e che cerco di ricordarla attingendo a ricordi che se prima erano sfumati, stanno diventando più nitidi. Piccolo segnale..etc. (da qui in avanti solo ‘Piccolo Segnale’ per non tediare chi eventualmente legge). I primissimi anni, quelli trascorsi a Bari, mia città natale, sono avvolti nel buio più assoluto, e questa città per tutta la mia giovinezza e anche dopo non ha rivestito molta importanza: era solo il luogo, dove ero nato ma che dal quale sono venuto quasi via subito. Per cui quando qualcuno mi chiedeva di dov’ero, rispondevo che avevo sempre vissuto al Nord (cosa che risponde al vero dopotutto) aggiungendo con un pizzico di malcelata sufficienza che ero nativo della Puglia. Da non so quanto tempo la mia risposta è mutata. “Di dove sei?” domanda. “Sono pugliese, di Bari.” Risposta. Solo in un secondo tempo se il discorso va avanti, allora specifico che quasi tutta la mia vita l’ho passata al Nord. Più l’orologio temporale scorre, più il richiamo delle radici si fa sempre più sentire. Come cantava Gloria Estefan: ‘La terra dove sei nato non la puoi dimenticare.”. Anche se non mi ricordo nulla, quando sento il nome della mia città natale, sento vibrare qualcosa in me. Piccolo Segnale. Però proprio perché i primi anni sono avvolti nella nebulosità (come per tanti credo, d’altronde) e nella fase successiva che i ricordi riaffiorano, quando con tutta la famiglia a metà degli anni ’50 ci trasferimmo a Milano. Era una fredda giornata di dicembre e i miei fratelli più grandi richiamavano eccitati l’attenzione di mia mamma perché usciva il fumo dalle loro bocche. Con il clima di Bari non era mai successo. Io ero tanto piccolo che dormivo su una valigia. Così almeno mi raccontarono. La nostra casa era un appartamento su due piani situato in un enorme palazzo che sorgeva in una via che univa il Viale Argonne col Viale Corsica. Era prevalentemente abitato da impiegati dello Stato e la cosa curiosa (una delle tante) che nello stesso stabile potevano essere vicini di casa giudici del tribunale e l’usciere dello stesso. Non esistevano i piani, almeno nella normale concezione condominiale, bensì i corridoi. Erano otto, due per ala che erano separate dai vani ascensori i quali avevano, infatti, solo 4 numeri. Col sistema degli appartamenti sovrapposti, il 4° corridoio corrispondeva praticamente al 13° piano. Nelle giornate terse dal terrazzo sovrastante, si ammirava tutta Milano e anche oltre. E’ da lì che ho cominciato a soffrire di vertigini. I corridoi erano una lunga sequenza di appartamenti e noi bambini spesso ci divertivamo ad andare su e giù con le biciclette. I rapporti sociali negli anni ’50 erano perlopiù improntati alla cordialità e non all’acidità e all’aggressività come adesso. Gli adulti si fermavano spesso a chiacchierare tra loro mentre noi bambini giocavano insieme. Alla sera ci si riuniva tutti nelle case dei pochi privilegiati che allora possedevano un televisore. Gli uomini sulle sedie davanti alla TV, le donne dietro a parlare, i bimbi a giocare. Quando sullo schermo apparivano le gemelle Kessler in calzamaglia nera era un tripudio di fischi e urla degli uomini subito rimproverati aspramente dalle mogli. Altri tempi, se poi paragonati ai programmi di oggi. Piccolo Segnale. Il corridoio dove abitavo io vide nascere la mia prima storia d’amore. Avevamo entrambi 6 anni e sembrava che fossimo destinati a sposarci. La rividi 8 anni dopo essere andato via da Milano: ormai eravamo su due pianeti diversi distanti anni-luce. Davanti al palazzo sorgeva una distesa vastissima di erba. Non era un prato era il Prato. Così era per tutti, grandi e piccini. Lì ci andavo con i miei fratelli e amici a giocare. Un giorno i miei regalarono a me e a due dei miei fratelli (il più grande già non giocava più con noi) un soldatino a testa e subito andammo al Prato a divertirci, facendo finta di essere in guerra e nella fitta erbaglia io persi subito il mio senza più ritrovarlo. Per non so quanto tempo ne soffrii. Poi arrivarono le ruspe e l’immenso Prato si trasformò in una serie di palazzi eleganti, precursore di quei residence che da lì a poco avrebbero fatto la loro apparizione nelle periferie milanesi. La gente che ci andò ad abitare cominciò a guardare con fastidio quell’enorme costruzione che si stagliava davanti ai loro moderni appartamenti. Noi andavamo a giocare con i ragazzi nostri dirimpettai nei loro giardini molto curati (tutt’oggi quando sento l’odore dell’erba bagnata e tagliata, mi vengono in mente quelli), rispettando i rigidi orari, ma ho sempre avvertito nei nostri confronti un atteggiamento di superiorità, una sorta di compassione perché convinti che non eravamo al loro livello, noi eravamo ‘quelli del palazzone’. Sotto questo ‘palazzone’ c’erano molti negozi ma io mi ricordo in particolare una gelateria che credo sia ancora presente anche in altre zone della città, che il giorno dell’inaugurazione offrì il gelato a tutti. Non assistetti alla scena ma mia madre mi raccontò che i ragazzi dopo essersi rimpinzati oltre ogni limite, continuarono a prenderli per poi tirarseli addosso. I prezzi erano: 10 lire per il cono più piccolo che comunque era dignitoso, 20 lire per uno più abbondante che ci veniva comprato raramente, 30 lire per uno maxi che per noi restava quasi proibito, 50 lire destinato ai ricchi e ingordi dalle dimensioni spropositate. Poi c’era la panetteria che profumava di merendine e cheving gum alla frutta, un altro odore della mia infanzia. Vendevano le caramelle Golia anche singolarmente e una volta ne comprai due pagando con due monete da una lira, suscitando l’irritata reazione della proprietaria che si sentì ‘disturbata’ da una vendita di così poco conto. Parlando di odori ce n’era uno che per tanto tempo mi ha perseguitato e ha influito in modo determinante sui miei futuri gusti e proveniva da una cantina sociale nelle immediate vicinanze della casa. Per me era una vera e proprio puzza e i miei fratelli ancora oggi si ricordano che quando io dovevo passarci davanti, arrivavo a circa dieci metri di distanza, mi fermavo, trattenevo il respiro e correvo fino a quando non me l’ero lasciata alle spalle. Solo allora riprendevo la mia normale respirazione. Ho sempre associato quell’odore per me così sgradevole al vino rosso, che non sono mai riuscito a bere nonostante qualche inutile tentativo. La sola vista mi procura disgusto. C’erano anche odori piacevoli come quelli provenienti dalla pasticceria di via Lomellina, dove i miei compravano delle deliziose paste che mangiavo con grande golosità. La vita per me si sviluppava dentro quella cerchia di vie, frequentando l’oratorio della chiesa di Viale Corsica, dove ho fatto la Prima Comunione e la Cresima e qualche volta quello di Viale Argonne, studiando presso le scuole elementari di Viale Romagna e in seguito quelle di via Cardinal Mezzofanti dove ho fatto la 1° Media, l’anno in cui fu assassinato John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli USA. Mi ricorderò sempre che il mio professore d’Italiano, disattendendo alle indicazioni superiori si rifiutò di commentarne la figura in classe, il giorno dopo. “Non me ne frega niente.” disse, se non ricordo male. Più avanti ebbe qualche momento di notorietà in Politica. Come già detto la mia vita, trascorreva in quel quartiere, raramente mi capitava l’occasione di andare in Centro e quelle volte mi sembrava di essere catapultato in un’altra città per non dire in un’altra dimensione. Gli spostamenti avvenivano o a piedi o con i mezzi e qualche volte con la Lambretta di mio papà che un giorno finalmente acquistò la nostra prima autovettura, una Fiat 1100 di seconda mano. Il contratto fu firmato su una specie di leggio in legno di una modesta officina della zona, di proprietà di due fratelli che negli anni ’80, quelli degli yuppies e della ‘Milano da bere’ aprirono una concessionaria specializzata nella vendita di fuoriserie di lusso, Rolls Royce, Bentley e quant’altro. All’angolo con la via Sismondi c’era una salumeria/gastronomia dalla quale ci servivamo e il cui titolare era uno sfegatato tifoso interista. L’ultimo anno di soggiorno a Milano si verificò un evento unico nella storia del calcio italiano. Al termine del campionato si ritrovarono in testa appaiate a pari punti l’Inter e il Bologna. Allora non esistevano le formule degli scontri diretti piuttosto cha le differenze reti, per cui fu necessario uno spareggio per designare chi potesse fregiarsi del titolo di Campione d’Italia che vide la vittoria per 2-0 della squadra emiliana. Erano anche gli anni in cui tifare una squadra denotava anche l’appartenenza a una classe sociale. A Milano la media/alto borghesia, i commercianti, gli abitanti delle zone centrali tifavano Inter mentre la classe operaia e i quartieri periferici come il Lorenteggio o il Giambellino tifavano prevalentemente per il Milan. Il giorno dopo lo spareggio quella salumeria fu invasa da operai che lavoravano in un cantiere vicino che chiedevano tutti invariabilmente ‘un panino con la Bologna.’. Altri tempi, altri modi di vivere le rivalità sportive. Ora è tutto diverso e sono anche cadute quasi totalmente quelle distinzioni sociali, in una sorta di appiattimento globale. Così lasciammo Milano per trasferirci a Busto Arsizio che era più vicina al luogo di lavoro di mio padre, ma questa città o perlomeno quel quartiere collocato in quell’epoca non li ho mai scordati così come quel ‘palazzone’ e rivivono spesso nei miei ricordi e talvolta nei miei sogni. Qualche volta mi è capitato di passare nei paraggi e mi sarebbe piaciuto anche fermarmi, entrare in quella casa e rivivere quei momenti, magari dicendo a qualcuno: “Lo sa che da piccolo io abitavo qui?” Quasi certo che nella migliore delle ipotesi la risposta sarebbe stata: “E un chissenefrega non ce lo vogliamo mettere?” Perché ho voluto scrivere questi ricordi? Per la sindrome de ‘Le mie memorie’ che affligge molti che hanno la mia età? Per rendere partecipe qualcuno delle mie esperienze ben sapendo che questo mio racconto interesserà pochissima gente alla quale probabilmente ‘non/gliene/potrebbe/fregare/dimeno’?. I motivi credo siano da ricercare principalmente nel desiderio di riannodare il filo della memoria e poi di renderlo visibile perché comunque mi considero (me lo si consenta, gentilmente), come milioni e milioni di altre persone in questo nostro Paese, uno scrittore. Dilettante, amatoriale, sedicente, mediocre, chi più ne ha più ne metta, separato da una distanza siderale e quindi assolutamente irraggiungibile (forse in un’altra vita ma non è detto) dai miei miti Stephen King, Dennis Lehanne, Mary Higgings Clark, Casati Modigliani ma pur sempre uno, diciamo, con la voglia di scrivere, innanzitutto per me stesso ma anche con la segreta e presuntuosa speranza di essere letto da qualcuno. Perché come ebbe a dire la grande Oriana Fallaci (un altro mio mito): “Uno scrittore senza lettori è come una voce che parla al vuoto, al silenzio, una sorgente d’acqua cui nessuna si disseta e si sente più solo dell’ultimo pesce del mare.”. Sulla falsariga del folletto di ‘Sogno di una notte di mezz’estate’ di Shakespeare nella scena finale, chiederò ammenda se ho annoiato. Magari qualcuno che soffre d’insonnia avrà trovato questo scritto più efficace di un sonnifero e quindi un effetto c’è stato, qualcun altro, forse, avrà riconosciuto i luoghi descritti come familiari e quindi avrà letto con interesse. A tutti, comunque, un grazie sincero.
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