23 Marzo 2020 Lo sferragliare ritmico e ad intervalli regolari dei tram sulle rotaie in mezzo al viale sottostante, apro il finestrone del terrazzino e osservo le porte del mezzo aprirsi alla fermata, il tram è vuoto e non scende e non sale nessuno. Riparte e poco dopo si ferma quello successivo, vuoto, nessuno sale e nessuno scende. Una sequenza sempre uguale dall'alba a notte fonda, la mitica regolarità dei mezzi pubblici della metropoli nuovamente confermata, senza nemmeno i possibili minuti di ritardo delle normali giornate, adesso il traffico non c'è. Gli autisti compiono diligentemente il loro compito e vanno e vengono alla guida solitaria, non trasportando nessuno. "Perché?" mi chiedo. Un rito, sì, deve essere un rito, perché non ci sono spiegazioni, un rito di normalità mentre attorno la guerra infuria. Un nemico misterioso, silenzioso, invisibile.
Rientro. Mi torna in mente come qualche giorno fa ero svogliato, c'era un film che volevo andare a vedere e mi dicevo "domani". E l'invito agli amici, "la settimana prossima", ci eravamo detti. E al negozio di cioccolata e in libreria, una bella passeggiata, ma magari la prossima settimana. E poi la guerra. E dopo il lavoro chiusi in casa, tutto chiuso fuori, dove la vita è il rito dei tram.
Però un appuntamento non lo avevo rinviato, la merce che ho portato io stesso alla mia cliente più bella, la guerra era già nell'aria, mi ha ricevuto con la tuta di sicurezza, i guanti e la mascherina, ho posato il pacco sul bancone, alla giusta distanza per precauzione, ho borbottato qualcosa imbarazzato come sempre alla sua vista e lei ha sorriso, dietro la mascherina, un sorriso nascosto ma evidente, colmo di ironia, di consapevolezza per quanto stava per accadere, sembrava un abbraccio, un arrivederci. E a quel sorriso io non ho avuto parole e sono tornato in ufficio percorrendo la lunga distanza a piedi in un tempo in cui mi è parso di volare. Attorno gli sguardi preoccupati di chi si affrettava a tornare a casa.
E poi la guerra. L'intera umanità aggredita. E come in ogni grande evento esce il meglio e il peggio. Il meglio dei miei collaboratori in azienda che instancabilmente dalle prime ore dell'alba imballano i prodotti medicali per il mercato che ne ha bisogno. E il loro sorriso, la loro serenità e consapevolezza, dietro le mascherine. E il peggio, i vicini del piano di sopra che si divertono da tempo a tormentarmi con rumori vari e anche in una situazione del genere non perdono occasione. Mentre noi lavoriamo anche per loro.
E oltre al meglio e al peggio, il bello, il ricordo contagioso quello sì del sorriso della mia cliente dietro la mascherina, non se ne va, non viene scalfito dagli eventi della guerra.
Alla prossima consegna le porterò dei fiori. E rivedrò il suo sorriso senza mascherina. Dopo la guerra.
Roberto Mahlab