riccardo resconi
Senatore
Italy
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Inserito - 01/11/2020 : 17:21:57
Rino continuava a grattarsi la barba ispida, torturandosi le labbra sotto i denti. L'agitazione gli faceva bollire il sangue nelle vene, retaggio (a parer suo) del natio Vesuvio, e doveva agire, subito, dire due parole al figlio, senza consumare oltre il linoleum dello studiolo d'artigiano. Doveva sostituire la cerniera ad un paio di borse e rifare tacchi e suole, ma il senso del dovere proprio non ce la faceva a sedare il suo turbamento misto a rabbia, perché il buon nome della famiglia veniva prima di tutto, era più forte di lui. L'onore. Quel senso di rispetto dovuto e da avere. Era napoletano Rino, nel cuore e nell'animo... e nell'intonazione. Perché, quando sei tanto legato alle radici, nessun posto può produrre cambiamenti, al massimo ci si adegua. A Roma, da più anni di quanti ne avesse passati a casa, aveva mantenuto il suo accento parlando italiano, ma non ce la faceva a intercalarsi nei panni capitolini. Per carità, amore e rispetto, per una città che lo aveva accolto militare e congedato tra le braccia della moglie, rendendolo ergastolano a due passi dalla patria; casa era lì, dove si era fatto una famiglia. Ma era pur vero quel fatto che non si lasciava mai Napoli senza dolore e, fra le pareti domestiche, san Gennaro stava in salotto, il caffè se lo faceva con la cuccumella e guai a non mangiare le prelibatezze della tradizione; per il resto, potevano fare e parlare come volevano, moglie e figlio. Era sempre stato un buon accordo, anche se un po' gli dispiaceva che Riccardo (Ricky si faceva chiamare) non lo degnasse mai di un discorso nella stessa lingua, se non per scherzare, di tanto in tanto. Già, di tanto in tanto. Chissà quando era cresciuto, da striminzire sempre di più il rapporto padre-figlio a due parole e poco tempo insieme. Era normale, non era necessario che glielo ripetesse la moglie, quando lo vedeva seduto in poltrona a fissare la televisione senza interesse. Non si doveva dare pensieri, si diceva; quello che doveva insegnargli, gliel'aveva inculcato, da bravo genitore, quand'era piccolo e spugnoso, tra il serio e il faceto, com'era stato per lui e tutta la dinastia. Pure lui aveva sbuffato, in privato, a quei discorsetti del padre, così noiosi e ripetitivi, esempi su esempi per comportarsi a giusta regola. In privato. Da solo. Non si sarebbe mai permesso di lamentarsi fuori casa o, figurarsi!, di fare smorfie sotto lo sguardo imperioso del capo famiglia; e non poteva recriminare a Ricky niente di diverso, seppure concludesse ogni volta con un laconico: "Ho capito". Ma Rino non voleva fare monologhi. Aveva gustato la sua infanzia, aspettando quell'età in cui avrebbe potuto parlarci da uomo a uomo, auspicando che potessero anche essere amici, fare cose insieme, conoscere le sue cose, i suoi sogni, le sue avventure con una libertà intrisa di fiducia. Non era poi tanto vecchio, avrebbe saputo ascoltarlo e, invece, Ricky non sembrava apprezzare la sua esperienza; se ne stava sempre in camera o fuori casa, concedendo un'educata presenza, in orario, ai pasti insieme, qualche informazione di servizio sull'andazzo a scuola e frequenti sorrisi di partecipazione alle scaramucce matrimoniali in lingua doppia. A casa, Ricky era un bravo ragazzo, ma fuori? Poteva indossare altre maschere... e quel dubbio assaliva Rino come un fiume in piena. Le chiacchiere gli erano giunte alle orecchie, di una baruffa notturna tra ragazzi e, prima che giungessero anche a quelle della moglie, aveva telefonato al figlio chiedendogli di raggiungerlo in laboratorio. Rino non era un gran parlatore, ma aveva il dovere di genitore di redarguire e riallineare i binari del rispetto e della fiducia. Senza perdere altro tempo, appena arrivato Ricky, lo aveva investito con ansia di chiarimenti."Te vulev dicere doje parole de chell ca fann rirere 'o core". "Dimme papà, parla pure", sereno. "Doje parole accussì chien 'e poesia che t'aggia fa chiagnere ma no 'e risate, ma 'e nu cuncentrat r'ammor de te fa zumpà e buttun a cammisa tant ca 'o cor è gruoss; m'aggia sentì 'e dicere statt zitt, ca si no putess venì nu malann e riman loc, n'copp o post" (trattenendo il più possibile la rabbia). "Allora papà te lo dico prima de partì. Le parole tua so' macigni, belle o brutte, dimme che voi dì" (apprensivo). "'O saccio, 'o saccio ca me vuoj bene, ma io doje parole te voglio dicere, 'a casa nun ce torno si nun 'o faccio, cu ata gente rint a casa me sentess na mappin" (pensando ai vicini impiccioni e malelingue che avrebbero potuto recare onta al buon nome della famiglia). "L'artri... chi so io... so tu fio e l'artri nun li vedo manco, io" (risentito per l'insinuazione). Ma Rino ormai era straripato. "Sì jut là, hai fatt 'o guappo, c'ho dic, c'ho dic, e poj manc na parola. Io so pat't, te putiv confidà, m'avess stat zitt senza maj ciatà. Nun te saccio dicere se t'è assettà oppure te staj zitt all'erta a me sentì, ma pensannece buon, che ce fa'"; si confondeva sempre nei discorsi seri. Er bullo io nun l'ho fatto! M'hai insegnato a vive e a portà rispetto e ciò che t'hanno detto nun è vero, quella notte stavo ar letto!" (difendendosi a spada tratta). "'E parole semp inta l'aria stann a viaggià, s'aizeno in cielo, poi capiscen ca 'o sole coce, e accussì convincen ch'è assaje chiù facilee parlà a na persona, n'omme, na femmena, nun ce sta differenza. Chiano chiano arrivan 'nte recchie senza addumandà permess, e loc te fann rirere, te fann chiagnere, oppure innamurà, proprio comm chell ca t'aggia ricere cà" (chinando la testa per acciuffare i pensieri). "Papà, le parole che te so' arivate so' stupide bucie intrise de cazzate che nun ho fatto io. So sempre questo io so' tu fio!" (palesando tutta la sincerità del suo buon cuore). Rino si era riavuto: sì, lo aveva tirato su bene suo figlio, anche se si parlavano poco, anche se le generazioni, inevitabilmente, si distanziavano con la crescita. "Uè, sarann pure doje parole chelle ca te vulev ricere ma guard che fatica aggio fatt p' venì a 'ccà a te chier scus. Vien! Vien 'ccà, fatt'abbraccià". (patapump )
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