Cap.1
Non scesero da navi argentee in accecanti esplosioni di luce.
Non annunciarono la loro presenza con il fragore delle onde radio.
Non evocarono misteriosi segni nella pietra.
Semplicemente vennero nel silenzio della notte, come saltimbanchi con i loro flauti e i loro tamburi.
Maro Zaran si svegliò nel suo giaciglio.
L’aria frizzante scendeva veloce dai monti schiaffeggiandolo, soffiando arcigna dal telaio malandato della finestra.
La grezza coperta di lana naturale pesava piacevolmente sul suo corpo, un sole brillante trapassava violento il piccolo vetro intelaiato.
Con la mano esplorò le piccole gobbe del vecchio materasso alla sua destra.
Trasse un sospiro; aprì gli occhi, - Sylvia…- mormorò.
La moglie di Maro era morta da 10 anni: un male al ventre se l’era portata via.
Minuta nel corpo ma di gran forza interiore, Sylvia non aveva dato alla luce figli, lasciando suo marito solo, nel silenzio di una vita pedemontana a Parz Lich.
L’uomo tuffò le mani nodose nella bacinella d’acqua freddissima che la sera portava dal lago vicino, e si sciacquò con rapidi gesti il volto ruvido e scolpito.
Presa una vecchia brocca dipinta, versò dello yogurt in una tazza sbreccata e spalmò del lavash con marmellata di mirtilli.
-Oggi è l’anniversario- mormorò, mentre si apprestava a consumare il pasto frugale del mattino.
Da qualche tempo aveva preso l’abitudine di parlare da solo.
Sarebbe salito al monastero di Haghardtzin, come ogni anno, a trovare il cognato che ne era custode.
Avrebbero parlato un poco dei vecchi tempi… di Sylvia. Insieme sarebbero andati al luogo di sepoltura, poco distante dalla chiesa di St. Astvatsatsin.
Un antico khachkar segnava il tumulo di sua moglie, scolpito secoli addietro da un monaco dimenticato.
La tomba era clandestina, scavata dai due uomini per adempiere la promessa fatta alla donna morente che loro non ebbero cuore di tradire.
Zaran finì il magro pasto e si vestì con la giacca buona color marrone, dal taglio passato, sopra l’unica camicia intonata che possedesse.
Infilato il vecchio cappotto, residuato bellico della sua giovinezza, trascorsa nell’esercito della disfatta unione sovietica, uscì.
Fuori dalla porta l’attendeva l’autunno, con la sua strabiliante esplosione di rossi, arancione, gialli e marrone.
Spiritelli ventosi, muovevano in turbini crepitanti le foglie del bosco prospiciente la casupola, sospingendole verso il cielo solcato da rapide nubi screziate d’indaco.
L’ampio abbraccio di quell’orizzonte montano non aveva mai mancato di gonfiare il suo cuore di pace: anche adesso, stretto nella solitudine, si sentiva così.
Maro entrò nel pollaio suscitando il solito scompiglio mattutino, le galline accorsero per il pasto, becchettando frenetiche il terreno appena cosparso di cibo.
Intanto lui avrebbe preso le più belle uova da portare in dono al fratello di Sylvia.
Ne fece due pacchetti avvolgendole in vecchi fogli de “La Prabda” e si avviò per la strada di Dilijan; da là avrebbe potuto trovare un posto in un marshrutni, che in breve avrebbe raggiunto il villaggio di Teghut e l’antica via lastricata per il monastero medievale sepolto nel verde.
- È qui che le chiesi di sposarla. – Si disse Maro.
Le pietre consunte dell’acciottolato seguivano come onde le curve delle radici che, incoraggiate dagli alberi adiacenti, intrecciavano danze sotterranee sotto i suoi passi solitari.
L’odore del bosco si mescolava al ricordo del profumo dei capelli di Sylvia.
Amavano discorrere mano nella mano della vita che fu del monastero e della storia sanguinosa che aveva attraversato l’Armenia, la terra delle croci urlanti, sempre sotto il giogo di un altro popolo.
Sylvia Zakarian aveva ascendenze russe ma il padre era un solido armeno, amante delle tradizioni e della storia del proprio paese. Per questo aveva chiamato Avag, il figlio, in onore di un antico avo, costruttore della chiesa di S. Astvatsatsin; piccola perla architettonica del complesso monasteriale di cui era orgogliosamente custode.
Avag Zakarian lo sottrasse alla nostalgia del ricordo, stringendolo fra le sue braccia forti.
– Vieni Maro, ben arrivato! – Esclamò sorridendo il cognato, allontanandolo poi da sé per abbracciarlo anche con lo sguardo luminoso.
Avag era l’esatta controparte maschile della sorella. Condividevano gli stessi occhi di un azzurro chiarissimo e un naso dritto, ben proporzionato, la cui ombra creava un piacevole contrasto col pallore dell’incarnato ma Avag possedeva un fisico possente, a differenza dell’esile Sylvia che spesso aveva portato in spalla fin al villaggio di Teghut, quando frequentavano insieme la piccola scuola statale dotata di un’unica aula e un solo maestro.
- E dov’è Annina, dove sono Ivane e la piccola Sonig?- Domandò Maro guardandosi intorno.
- Le femmine sono a preparare il pranzo no?! – Rispose il cognato strizzando l’occhio - Ivane è per funghi, nel bosco, ma tornerà, vedrai. –
Il profumo del lavash che si stava cuocendo nel tonir, si mescolava a quello più acuto del kebab scottato sulla brace di carbone.
Maro, seguendo i profumi dei cibi e pregustandone il sapore, si avviò verso il tonir, il forno scavato nella terra; sopra, sfoglie sottili di pane cuocevano lentamente sotto la sorveglianza della piccola Sonig.
Al rumore dei passi la bambina si voltò.
- Zio!- Urlò di gioia, e con un balzo volò in braccio all’uomo.
Le sottili labbra del contadino si piegarono ad un sorriso; quel dolce peso avrebbe potuto essere sua figlia, sua e di Sylvia.
Le baciò le guance e sentì il cuore farsi più leggero.
- È pronto!- Annunciò la moglie di Avag affacciandosi dalla porta della cucina.
-Oh, sei arrivato tu! Finalmente, pigrone!- Annina amava rimproverare bonariamente il cognato, un modo allegramente burbero per manifestare il suo affetto verso quell’uomo dolce e solo.
Maro depose Sonig a terra sollevando imbronciate proteste e, scansando un enorme e traballante vassoio di dolma che la donna sorreggeva a stento, baciò anche lei.
- Posso?- Chiese, afferrando senza aspettare risposta un antipasto di riso e uvetta avvolto in foglie di vite.
- Squisito! Esclamò con la bocca piena, - come sempre. –
Annina fece il gesto di colpirlo, - maleducato! - Ma lo disse sorridendo e il gesto si trasformò in un tocco lieve, quasi una carezza sulla mano di Maro.
– Come stai? - Domandò più con gli occhi che con la sua voce squillante.
L’uomo sorrise ma non rispose, invece tirò fuori dal cappotto gli involti con le uova che appoggiò sul tavolo d’abete rosso, accanto ad una montagnola di albicocche essiccate.
- Meglio sbarazzarmene prima che Sonig o Ivane ne facciano una frittata addosso a me! -
- Grazie per le uova, ti sei ricordato- Anna sorrise - ma non preoccuparti d'Ivane, è in giro per la foresta con un americano, un giornalista, avrà occhi ed orecchie solo per lui oggi. – Annina colse un’ombra di disappunto nel volto del cognato.
– Sta tranquillo, non disturberà la tua giornata, lo abbiamo avvertito della tua visita; dai Aiutami a preparare la tavola! – lo esortò.
L’erba cupa, scossa dal vento, confinava con le avvisaglie della foresta: un tappeto di foglie brunite segnava l’ingresso di una faggeta dai rami ormai denudati dall’autunno inoltrato.
Una figuretta scura dai capelli neri e arruffati, sbucò dalla penombra trafitta da biondi ventagli di luce: agitava soddisfatto un cesto di vimini; dietro, a pochi passi, un uomo alto con gli occhiali stava regolando il fuoco della sua macchina fotografica.
- Ciao Zio! Guarda!- Esclamò Ivane, allungandogli il canestro colmo di grandi cappelle marrone scuro, attaccate a tronfi gambi candidi; l’odore umido e fresco dei funghi, mescolato a quello della terra smossa, si spanse per l’aria e Maro non seppe trattenersi dall’infilare il naso nel cesto, per meglio godere l’aroma.
Il giornalista colse con l’obiettivo quella scena di riunione familiare, tenendo al centro il bambino col paniere, poi si avvicinò e tese la mano all’adulto.
- Salve, mi chiamo Carl Weirmann, mi perdoni per la foto. –
Maro fece cenno col capo che non aveva importanza, strinse la mano che l’altro aveva tesa e rispose al saluto.
- Buongiorno Carl, ben trovato, io sono Maro Zaran, cognato di Avag. –
Carl annotò mentalmente la fisionomia dell’uomo e rimase sorpreso dalla forza asciutta di quell’arto così in contrasto rispetto al proprio, tale da sembrare scolpito nel bronzo.
Dalla soglia della cucina un nuovo richiamo di Anna invitava a prender posto a tavola.
Sonig, venendogli incontro, porse del lavash al fratello e ai due ospiti che accettarono di buon grado.
- Lei è giornalista, mi pare. – Disse Maro, avviandosi verso casa.
- Cosa cerca fra queste rovine?-
- Niente di speciale, preparo itinerari turistici riguardo antichi siti religiosi sparsi per il mondo, per conto di una rivista americana: la "Global travels."
Da quando le repubbliche sovietiche si sono separate, mi sono dedicato a quest'area geografica. –
- E la trova interessante? – Chiese il contadino.
Carl sorrise – Certo! – esclamò con sincero entusiasmo, - questi vostri monasteri sono carichi di energie, immersi in paesaggi da sogno, sembra che aspettino il ritorno di qualcuno o qualcosa… -
Maro alzò il braccio verso il cielo, - vede lassù? Quella è un'aquila, - dichiarò indicandola con l'indice teso.
L'animale disegnava manovre ardite sfruttando le correnti ascensionali.
Il giornalista assentì annuendo con il capo.
- Qui siamo ad Haghardtzin che significa il posto delle aquile. –
Annina tolse di mano il canestro ad Ivane, - su vai a sederti!- gli fece e continuò, rivolgendosi agli uomini, – sbrigatevi, volete che vi si freddi il pranzo?! –
Tutti presero posto disponendosi attorno al grande tavolo adornato da una tovaglia ricamata finemente.
Era una piccola opera d'arte tramandata di madre in figlia, faceva parte del corredo di Sylvia ma lei aveva interrotto la tradizione per donarla ad Anna, che amava più di una sorella.
Da quando la moglie di Maro venne a mancare, Avag e Anna avevano deciso di usarla solo per quella malinconica ricorrenza e un giorno avrebbe abbellito il tavolo di Sonig, passando il testimone alle nuove generazioni.
I dolma, succulenti antipasti, lasciarono presto il posto ad un enorme vassoio di khinkali, grandi tortelloni di carne, spezie e cipolla.
- Lei è fortunato Carl – annunciò Avag al giornalista, mentre versava un corposo Nairi nei bicchieri degli ospiti. – Raramente capita di poter gustare un simile pranzo ai giorni nostri… e soprattutto di bere del buon vino!-
I profumi e i sapori del kebab si mescolavano a quelli delle melanzane e pomodori scottati sulla griglia, polpette di agnello, il kyufta, furono servite abbondanti, seguirono formelle di formaggio al forno e per finire, tutti gustarono frutta secca e pakhlava, una pasta sfoglia riempita di noci, miele e spezie.
Il calore corroborante del brendy si aggiunse a quello accogliente della cucina e i discorsi si sciolsero, creando un'intima atmosfera d'amicizia e vicinanza.
Carl ringraziò sinceramente il padrone di casa, annunciando che nei suoi articoli avrebbe fatto menzione della meravigliosa ospitalità ricevuta.
Ombre ramate traballavano sui muri scabri al ritmo degli scoppi sordi provenienti dal camino.
Dense e azzurrognole spirali di fumo salivano verso il soffitto intravato e annerito, scaturite dalle braci di sigaretta confezionate col tabacco che Maro coltivava.
- Sentite che aroma e che forza, - disse Avag al giornalista americano, offrendogliene una appena arrotolata. –
Carl Weirmann fumava ostinatamente Marlboro. Le sigarette turche che aveva provato aldilà dell'Ararat le trovava pesanti; la accese con diffidenza e aspirò prudentemente una boccata.
Il fumo l'invase scendendo giù fino allo stomaco e poi un energico sbuffo gli uscì dalle narici, - buona! Veramente! – Esclamò. - Non come quelle che ho provato ad Ancara. Questo tabacco è dolce e allo stesso tempo forte ma non da alla testa. –
I cognati si guardarono e risero, Maro spiegò: – dice bene Carl, niente a che vedere con le porcherie dei turchi, loro preferiscono aggiungere schifezze al tabacco ma qua è tutta roba genuina, e poi questo lo coltivo per me e per il mio caro Avag… è speciale!
Quando Gorbaciov decretò il nuovo corso dell'U.R.S.S. noi, io e la mia Sylvia, progettammo di avviare una piccola impresa, una fabbrica artigianale di sigarette.
Purtroppo mia moglie morì… tutto ciò che resta di quel sogno è un piccolo campo di tabacco, che con fatica lavoro per la nostra famiglia. -
Il volto dell'uomo si adombrò un poco, - anzi, è venuto il momento d'andare a trovarla, ci scusi Carl, io e Avag vorremmo andare soli alla tomba. –
- Niente di ché, - lo rassicurò Weirmann, - anche io d'altronde ho da fare, in effetti dovrei buttar giù qualcosa sull'escursione di oggi, magari con l'aiuto di Ivane. –
Sonig dormicchiava raccolta sulla sedia, briciole di lavash le spuntavano agli angoli della bocca addormentata in un sorriso, le guanciotte si erano arrossate e spiccavano nel candore del suo volto.
Anna la sollevò delicatamente, baciandola sulla fronte e scosse via altre briciole rimaste attaccate al vestitino.
- Adesso ti porto a letto, - le sussurrò.
Maro, salutando, accarezzò i capelli biondi della bambina e usci nel vento, seguito dal cognato.
Il sole aveva disegnato un ampio arco nel cielo indebolendo la sua forza, sì che il respiro mutava in piccole nuvole ad ogni passo dei due. Le fronde degli alberi cantavano la loro canzone autunnale, accompagnando i passi degli uomini verso il tumulo segnato da una "pietra urlante": così aveva definito i khachkar, Osip Mandelstam.
L'ombra cupa della chiesa di St. Astvatsatsin si allungava come un velo su un gruppo d'abeti, dando l'impressione di tranciarli a metà, in alto le foglie, rabbrividendo, raccoglievano la stanca luce vespertina che trascolorava il cielo in oro rosso.
La tomba di Sylvia stava distesa in quello spazio intimo e tranquillo, segnata dalla croce dell'albero della vita, scolpita in motivi di fiori e germogli.
Il cognato, come sempre, aveva mantenuto il luogo pulito: aveva curato la pietra scolpita raschiando i muschi, rastrellato l'intorno dagli accumuli di aguglie ed estirpato le erbacce.
Là, ai piedi della tomba, Avag, la cui esistenza non era stata menomata dalla perdita della sorella, riusciva in quella ricorrenza a ricordarla con serenità, raccontando a Maro qualche episodio della vita di Sylvia.
Aveva notato la carezza del vedovo fatta a sua figlia, tanto bastò per far emergere il ricordo di sua sorella bambina.
Prese a raccontargli di quella volta che Sylvia sembrava scomparsa nel nulla.
La famiglia era in subbuglio: lui e suo padre battevano il bosco chiamandola a gran voce, sua madre invece perlustrava ogni angolo del monastero.
Il sole inesorabilmente calò oltre le cime degli alberi, lasciandoli disperati ed esausti.
Si diedero convegno in cucina, cercando di riordinare le idee, ripercorrendo le mosse della bambina durante la giornata.
La tensione era al massimo, una rabbia silenziosa montava nei loro petti: ognuno in cuor suo si sentiva responsabile dell'accaduto e allo stesso tempo non sapeva trovare risposta alla domanda che li angustiava.
Avag, sporco di fango e sudato, guardava sua madre in volto, cercando assurdamente un segno in quegli occhi gonfi di lacrime, ed incredibilmente lo vide.
Si voltò di scatto, facendo traballare e scricchiolare la sedia, verso la porta aperta sul buio della notte montana.
Fra gli stipiti, una figuretta ciondolante si stagliava netta alla luce delle lampade a mano, usate per la ricerca e ancora accese, posate sul tavolo.
La mamma corse ad abbracciarla fra le grida di gioia e di rimprovero che saturavano la stanza, destando un placido stupore nella bambina.
Sylvia si strofinava la faccia con le maniche del vestito e aveva strane macchie rossastre intorno alla bocca; fra i capelli le si erano appiccicati veli di ragnatele.
Quando la confusione si fu placata e le emozioni della giornata si furono scaricate in pianti, grida e abbracci, la mamma le offrì un pezzo di lavash spalmato di confettura che lei rifiutò con una smorfia.
- Sai Maro, - disse sorridendo Avag, - ricordi che Sylvia non amava la marmellata?
Non è sempre stato così… quel giorno la birbona era andata in cantina proprio per rubarla! Si era infilata nella dispensa con un enorme barattolo di quella alle fragole e tranquillamente l'aveva mangiato tutto, poi sazia si era addormentata, richiudendosi dietro lo sportello.
Aveva dormito per delle ore, tramezzo barattoli e sacchi, facendo sogni terribili. Quando si svegliò le faceva male la pancia, sperava di entrare in casa alla chetichella per evitare i rimproveri, invece ci trovò tutti in cucina ad aspettarla. –
- E le ragnatele? – Si sorprese a chiedere Maro. –
E' rimasto un mistero, - rispose allegramente il cognato. –
Solo in quel momento si ricordò di essere stato lui, con una brusca carezza di sollievo, a toglierle dai biondi capelli della sorella.
Sorrisero insieme di quella storia passata; alte nel cielo, le prime stelle comparvero punteggiando il manto blu cupo di tenui diamanti.
Maro chiese al cognato di lasciarlo qualche minuto da solo, poi sarebbe andato nella vicina cappella a pregare.
L'edificio piccolo e raccolto, costruito nel tredicesimo secolo, inghiottì la sua figura nella penombra appena rischiarata dalla lampada a petrolio che portava con se.
Si sedette di fronte ad una croce dipinta sul muro, ai cui piedi stava una piccola ara in pietra scolpita.
Weirmann, il giornalista, a pranzo aveva domandato come mai le loro croci erano vuote.
Anna aveva risposto che la croce è un simbolo di vita e che per la chiesa d'Armenia il Cristo non era mai morto.
Lui invece aveva dei dubbi: non capiva più quel Creatore cieco e sordo che sembrava farsi beffe delle preghiere dei fedeli; quelle croci vuote gli sembravano il segno di un dio assente e indifferente.
Eppure… come tutti gli anni estrasse un vecchio rosario che teneva al collo.
Era appartenuto a Sylvia e il contatto con quelle pietre d'ambra forata, tenute insieme da un filo d'argento, lo faceva stare meglio: era una piccola magia di cui approfittava nei momenti più bui.
Ricordava.
I ricordi fluivano come un torrente in lui, ne veniva sommerso per riemergere poi negli anni a venire, dove tutte le cose non dette e non fatte si materializzavano autonomamente in un groviglio inestricabile di realtà e fantasie.
In quel luogo che aveva accolto per secoli le confessioni, le paure, le passioni di innumerevoli uomini piegati dal fato avverso, gli veniva naturale accettare la sua sorte e infine piangere, liberandosi dal risentimento che aveva accumulato durante l'anno.
Maro sgranava meccanicamente le piccole sfere del rosario, come le aveva insegnato sua madre, quando notò che alcune di esse riflettevano una luce cerulea.
Alzò gli occhi verso il piccolo altare.
Una scintilla azzurra sprizzava dal centro del piano, colando luce su tutta la superficie.
Poi la scintilla si allargò in un bagliore indescrivibile, più che luce era una radiazione totale che avvolgeva e faceva risplendere tutte le cose.
- La musica!- Esclamò Maro Zaran.
Una musica mai udita da essere umano accompagnava la luce giocosa, facendo vibrare le pietre e gli arredi; suono e luce erano un amalgama e dalla fusione di queste scaturì un profumo squisito, simile al distillato di milioni di fiori sbocciati in migliaia di primavere.
I sensi dell'uomo erano ricolmi di gioia, si alzò stordito per toccare quel miracolo d'estasi sublime; movendosi il suo corpo increspava la totalità luminosa, creando armonie sinestetiche ad ogni passo.
Avvertiva in quell'esplosione sensoriale una figura che lo chiamava, che lo attraeva a sé ma lo spazio già aveva perduto ogni dimensione dilatandosi infinitamente, pervaso dalla musica che ne era divenuta sostanza.
Il bagliore con note dolcissime cantò una sinfonia d'aromi inconcepibili.
- Io sono la Luce Primordiale, vieni a me! – Sembrava ripetere dall'alto di picchi lucenti, da cascate argentine di note suadenti.
Il contadino armeno la respirò avidamente, accettandola nel profondo del proprio essere, dissolvendosi serenamente come nebbia in un barbaglio di suoni e profumi.
Quando Avag, preoccupato per l'ora tarda, chiese a Carl Weirmann di seguirlo alla cappella, non poteva immaginare quello che ora i due stavano vedendo.
Di là dalla porta spalancata si dispiegava oscura l'antica cappella, un azzurro lucore stendeva le ombre dei due fin sul cortile ghiaioso.
Avanzarono lentamente verso il piccolo altare, cercando con gli occhi la figura snella del cognato.
A mezz'aria fra la mensa sacra e il soffitto, un disco di luce fortissima che pure non accecava e non emanava calore, stava sospeso immobile.
Cercarono nella notte.
Chiamarono il nome di Maro fra le pietre scolpite e le ombre storte degli alberi, eppure… tornando al chiarore di quella luce innaturale, seppero in cuor loro che non avrebbero ricevuto risposta.