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 CAPITOLO 3: "Inevitabilità della verità"
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Paolo_Talanca
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Inserito - 07/01/2003 :  21:12:34  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Paolo_Talanca Invia un Messaggio Privato a Paolo_Talanca
CAPITOLO I I I

Inevitabilità della verità

I

Un sabato di maggio Giorgio e Francesca decisero di passare l’intero pomeriggio al mare nei pressi di San Vito chietino, paese delle ginestre, dove il ragazzo soleva andare da bambino con la sua famiglia, nelle domeniche in mezzo alle estati calde ed afose della riviera adriatica. Raggiunsero la località balneare grazie a Sandro che, dovendo arrivare ad Ortona dalla madre che si trovava in ospedale, li accompagnò e li avrebbe ripresi la sera verso le diciannove, per riportarli a casa.
Era un pomeriggio d’inizio maggio molto caldo, con il sole che illuminava oltremodo la giornata lucida e carica d’azzurro nel cielo. Sandro lasciò i due amanti lungo la strada statale, poco prima di arrivare a San Vito. Ai bordi della strada, verso il mare, si poteva intravedere una cantoniera brecciata che scendeva, che colpiva solo l’attenzione di chi conoscesse la sua esistenza. In quella parte il mare è particolare per la sua impostazione. Tra la strada e la spiaggia passa la ferrovia, parallelamente alla statale e con una moltitudine di sassi bianchi ai suoi lati, che rendono le rotaie assai più alte del mare, formando una voragine nello spazio che le avvicina alla strada.
Giorgio prese la mano della sua Francesca ed incominciò a discendere la stradina fatta di breccia e polvere, per arrivare al mare.
- Non ho portato neanche gli asciugamani, - disse Francesca - non potremo sederci senza insabbiarci.
Giorgio guardò divertito la ragazza e rispose, trattandola immeritatamente da ingenua.
- Insabbiarci? - disse ridendo - ma se qui ci sono solo pietre. Vedrai che in ogni modo non ti deluderà lo spettacolo di questa spiaggia, è uno dei posti più belli che io conosca ed ho una voglia matta di rivederlo, visto che saranno cinque anni ormai che non ci torno.
- Ti piaceva venire qua con la tua famiglia? - chiese Francesca.
- Era la cosa che adoravo di più al mondo. Amavo nuotare in queste acque con la maschera ed il boccaglio, respirando per ore intere attraverso quel tubo e sentendomi leggero, guardando sul limpido fondale la mia ombra che galleggiava sull’acqua. Era una sensazione preziosa ed unica.
Francesca ascoltava la voce dell’amante e rimaneva estasiata. Per lei era prodigiosa ogni osservazione di lui, ogni ricordo; ogni particolare irrilevante era per la giovane motivo d’interesse. Avrebbe voluto far parte dei suoi ricordi, della sua vita, essere per lui familiare ed indispensabile. Rimaneva entusiasta dal trasporto che Giorgio provava raccontando quei momenti della sua infanzia, prestando attenzione ad ogni parola.
- Allora quest’estate potremmo tornarci spesso, - disse Francesca - ogni domenica, se per te va bene.
Sul viso della ragazza si accese un sorriso d’attesa. Giorgio riconobbe in quell’espressione un furbo tentativo d’irruzione clandestina nei suoi pensieri. Quei ricordi erano esclusivamente suoi, non avrebbe potuto riviverli in nessun modo in futuro, non avrebbe cercato di ricostruire un passato così bello, per paura di rovinare il ricordo e tutti i bei pensieri legati a quel posto. Lei era ferma davanti a lui, in procinto di continuare la strada verso il mare, ridendo per accattivarsi le sue benevolenze ed ottenere il permesso di entrare nella sua intimità; vide dietro il suo ridere un inganno. Gli sembrò audace, sfrontata nel voler ottenere il suo scopo cercando di adularlo. Guardò Francesca abbozzando un sorriso di circostanza.
- Certo - rispose Giorgio - verremo qua insieme con tutti i nostri amici.
Continuando a percorrere la stradina si trovarono sotto il livello della statale, completamente immersi nel verde. Arrivarono ad una curva a gomito che scopriva un maestoso muro costruito per sorreggere la ferrovia, costeggiarono la parete grigia continuando a scendere, arrivarono nei pressi di un sottopassaggio che avrebbe regalato loro la visione della spiaggia e la meta del pomeriggio. L’atmosfera era molle. Erano le quindici circa ed il momento aveva tutti i presupposti per assomigliare a quello di una giornata d’estate inoltrata. Il sole picchiava forte sull’erba che ricopriva il terreno al bordo destro della stradina, di un verde sbiadito dall’eccessiva luce, con cespugli alti più di due metri dove, nella misteriosa metà, erano situati grilli canterini che avevano iniziato presto il loro coro, che univasi al melodioso e soave rumore del mare.
- Siamo arrivati - disse Giorgio, - eccoti il mio mare.
La spiaggia in quella zona era veramente estasiante. Era composta da pietre di colore prevalentemente bianco, con plumbee chiazze rade e più ricercati sassi di color nero, situati principalmente ai piedi dei grandi scogli che si trovavano sui basamenti della ferrovia. Il mare era più calmo del solito ma, nella più completa assenza di presenza umana, si poteva udire lo stesso il rumore provocato dai sassi più piccoli trasportati dall’acqua. La spiaggia era splendida proprio perché priva di ogni esistenza di essere umano; non c’era nessuno e, presumibilmente, almeno quella parte di mare non avrebbe subito mutamenti da parte dell’uomo. Si avvicinava molto all’ideale di bellezza eterna che da sempre e per sempre, è motivo d’ammaliante attrattiva per le menti delle creature pensanti.
Subito a destra, appena i due sorpassarono il ponte della ferrovia videro che la spiaggia era formata da enormi rocce simili a degli scogli, che molto assomigliavano ai famosi “celados” del porto canale. Questi grandi faraglioni chiudevano completamente il passaggio tra il mare e la parete della ferrovia, ma erano facilmente attraversabili a piedi. Appena dopo questi macigni, situato sopra un altro gruppo di scogli, protendevasi un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile ad un ragno colossale a picco sul mare.
- Cos’è quel coso? - chiese Francesca, molto colpita dalla bellezza del luogo.
- Quella specie di palafitta sul mare serve per pescare. Non credo che sia più in funzione; un tempo da quelle travi scendeva una rete che raccoglieva i pesci che, poi, erano tirati su con un sistema di carrucole.
- E’ molto più romantico pescare con una canna da pesca - osservò la ragazza.
I due ragazzi stettero per qualche minuto in silenzio, ad ammirare le onde che s’infrangevano sui sassi avvolti da tanto sole, camminando abbracciati lungo la riva. Si sedettero su uno degli scogli, dove era possibile appoggiare anche la schiena. Il ragazzo era dietro la ragazza e la abbracciava guardando il mare. Giorgio non pensava, sentiva il lungo respiro di Francesca farsi sempre più regolare, fino a crederla addormentata. Lei però cominciò ad accarezzargli le mani, se le portava alla bocca e le baciava. All’Oltrini appariva soave il contatto delle morbide labbra di lei sulle proprie mani, allora la abbracciò più forte, mettendole un palmo sotto il braccio per addurla a girarsi verso di lui. Cominciò a baciarla e la sentì completamente trasportata, avvertì le palpitazioni della giovane che si manifestavano negli induriti e grossi seni sotto le sue mani. La baciò dappertutto, così che nemmeno la più piccola parte del corpo di lei si sentisse privata del piacere che lui sapeva infonderle, con ogni suo bacio. Fecero l’amore su quello scoglio, incuranti del fatto che qualcuno potesse vederli, clandestini che assaporavano la loro dura affinità, sciacalli di baci sulle labbra, lui su di lei, con una voglia che strisciava disperata; lei aggrappata alla sua schiena liscia; lei sopra di lui e macchie avide di sole sul collo e cosce tese nelle reni; e polveri del sole sui cristalli degli occhi di lei, bucati a fare entrare quelli di lui, unghie rapaci sulla pelle senza sogni né indulgenza, come in una gabbia; un crollo e rinsavirono nel contempo, era finita.
Rimasero per circa un’ora sullo scoglio a contemplare l’orizzonte di gabbiani, lucido e vitale. Lei continuava a tenere strette le mani del ragazzo, lui era solo. Aveva bisogno di solitudine, pensò ad ogni cosa, sentiva di non poter evitare l’ennesima inquietudine che sopraggiungeva nella sua anima. La battaglia ricominciava, sentì di aver sognato ingenuamente nei giorni addietro, non sarebbe mai stato così facile. Capì che aveva bisogno di quel viaggio tanto progettato, chiedere permesso per essere se stesso, cercare la sua vera identità in luoghi impervi e proibitivi, dove già molti avevano fallito; viaggiare sulle tracce di chi ha già perso prima di lui, nel cammino duro della propria essenza. Ad un tratto, però, lei scosse la testa, la poggiò meglio sul suo petto, lo accarezzo con i suoi morbidi capelli; quanto amore si sentiva in quel gesto!
- Ti amo - disse Giorgio, d’un tratto, come per un istinto consequenziale, guardando il cielo rovesciato sul mare.
- Davvero?! - disse lei con una felicità tutta nuova e rassicurata - anche io ti amo Giorgio, da morire, più d’ogni altra cosa al mondo. Sai, per me era la prima volta, ma è stato fantastico.
- Dici sul serio? - chiese Giorgio, guardandola dritta negli occhi, con un sorriso misto tra paura e falsa felicità. Lei lo guardò con sospetto, prima di sorridergli e tenerlo stretto a se. Giorgio sentiva il suo cuore battere con tanta forza, lo sentiva quasi in gola.

I I

Arrivarono le diciannove ed il mare era calmo e denso quasi fosse lava agli occhi di Giorgio, dopo aver fatto l’amore i due giovani rimasero abbracciati guardando lo spettacolo pacato dell’acqua che ristagnava tra gli enormi scogli, mutando pensieri ad ogni seppur minimo rumore della natura. Poteva bastare una rondine alla fantasia di Francesca per spaziare nell’infinito azzurro del cielo, aggirarsi nei corridoi dell’aria per manifestare la sua felice voglia di benessere, così fantasticamente appagata. Giorgio rabbrividiva ad ogni volteggiare di quelle rondini, che mai come allora gli sembravano portatrici di sincerità e della forza indissolubile ed inevitabile della verità. La verità non l’avrebbe mai potuta evitare.
I due amanti si alzarono, Giorgio teneva stretta la mano di Francesca. Risalirono il sentiero ed arrivarono sulla strada, dove Sandro li aspettava per tornare a casa.
- E’ da tanto che sei qui? - chiese Giorgio con un sorriso amichevole.
- No, sono appena arrivato - disse il capitano rientrando in macchina.
Apprestandosi a salire sulla macchina di Sandro, Giorgio si accorse che la mamma del suo amico era seduta sul sedile posteriore. La signora Marzia, infatti, era stata dimessa proprio quel pomeriggio dall’ospedale di Ortona, dove si trovava per un’operazione di poco conto.
- Buonasera ragazzi - salutò la mamma di Sandro.
- Buonasera signora - risposero i ragazzi, quasi all’unisono.
Il viaggio di ritorno fu del tutto silenzioso. La radio nella macchina di Sandro scandiva le note delle canzoni di Adriano Celentano, che erano principalmente motivi d’amore. Di amori struggenti, finiti male, amori a volte non ricambiati, amori a cavalcioni sui muretti che si sfiniscono di baci con un’ansia dolce e il cuore rotto, amori delle ultime file che all’uscita del cinema ancora hanno i volti accesi, amori in riva ad un bar sulle lambrette, che aspettano un’estate nuova ed azzurra, un’altra storia, amori eterni come l’acqua alle fontane, che gioiscono per giorni un po’ più lunghi quando si può uscire fuori, per respirare gli orizzonti e le montagne più lontane, oppure che l’inverno ha rinchiuso dentro e per terra si rigirano in una canzone, amori smarriti in quest’enorme traffico di cuori, così diversi ed uguali, di una vita o di un secondo, con un comune denominatore rappresentato dalla passione forte per ogni emozione provata, per la bellezza insita nella vita e l’onesta di sentimenti, da considerarsi come punto di partenza. Proprio l’onestà dei sentimenti non permetteva a Giorgio di godersi appieno l’amore per Francesca. L’Oltrini era nel bel mezzo del viaggio introspettivo. Non sapeva se era sincero o un farabutto, ancora non trovava se stesso, non si sentiva capace d’amare Francesca. Capì che quell’amore tanto atteso non avrebbe risolto la sua situazione, ed assolutamente l’immenso amore della ragazza non poteva bastare ad entrambi. “La verità non fugge mai”, questo continuava a pensare Giorgio. “Francesca non merita tutto questo, non servirebbe a nulla insegnarle mille ed altri cieli e non riuscire a soffiarle vento sulle ali, basta, devo lasciarla”.
Arrivati a Pescara Giorgio salutò Francesca con un pesante velo di tristezza.
- Cos’è quella faccia? - chiese la ragazza.
Giorgio ebbe un sussulto. Una sensazione di dovere da rispettare assolutamente lo pervase, passarono nella sua mente migliaia di pensieri in pochi secondi. Francesca non parlava più, ma si vedeva che aveva intuito quello che non avrebbe mai voluto intuire. Giorgio comprendeva che la ragazza ci sarebbe passata sopra, se si fosse trattato solo di una sensazione di lui. Questo lo sorprese “Come può continuare ad amarmi se non è sicura del mio amore? Lei sa che non la amo, ha sempre saputo tutto, non posso crede che sia possibile amare così tanto una persona e non chiedere nulla in cambio, dovrò amarla”; questo pensava Giorgio.
- Niente, scusa, sono un po’ stanco. Ci vediamo domani va bene?
- Va bene, ciao amore, ti chiamo stasera - e, baciandolo, Francesca s’incamminò verso casa.
Quell’ipotesi di Giorgio, quella di amare Francesca, fu un pensiero labile, fuggevole come un sogno, furtivo come un’ombra, breve come un lampo che in una notte nera illumini ad un tratto cielo e terra e che, prima che si possa dire guarda, è divorato dalle mascelle del buio, così in un istante svanì ogni cosa che brillava nel roseo futuro amoroso di Giorgio. Dopo averla congedata, l’Oltrini andò al caffè Versailles. Erano le otto all’incirca e Giorgio si premunì di telefonare a casa, per avvisare i suoi che non avrebbe fatto ritorno per ora di cena. La sera era calda e brillante, ed il mare rinnovava la letizia di tutti, con l’incantevole e tanto sognato rumore delle onde che s’inseguono, contorniate dal rumore degli uccelli marini, accattivante fonte di rilassatezza. Affacciata ad una delle finestre che davano sul mare, la signora Matilde era intenta a guardare la spiaggia, attirata, secondo l’opinione di Giorgio, più dal signore che sedeva su una sedia della terrazza, che dal mare stesso. Sull’ameno balcone, infatti, era seduto un uomo indistinguibile dall’interno del caffè. Era seduto su di una sedia, con le gambe allungate, capelli scuri, con taglio semplice da uomo maturo e maglietta a mezze maniche nera. Incuriosito, Giorgio spinse la porta scorrevole che dava sulla terrazza, varcò la soglia e riconobbe la nuca aristocratica di Claudio Lizza.
- Buonasera, mister - esordì Giorgio.
- Ciao Giorgio, come stai?
- Bene, grazie, ma lei che ci fa qui?
- Ho incontrato qui fuori un mio vecchio amico, erano anni che non lo vedevo, così siamo entrati a bere qualcosa insieme. Appena dentro sono stato attirato da questo terrazzo. E’ incantevole.
- Per me rappresenta la normalità assoluta. Sarà che la vedo tutti i giorni ma ormai ha perso ogni sua bellezza. - disse Giorgio, con un pesante velo di rassegnazione; poi continuò - credo, però, che la colpa sia mia e del fatto che ormai non sono più un bambino, un piccolo ragazzetto che si lascia incantare dal rumore del mare.
- Ti prego Giorgio, non parlare così; - ribatté il professor Lizza - è una grave perdita quella della predisposizione all’incanto. E’ una facoltà che perdiamo per strada, come una muta di pelle ormai inutile. Come se varcare la soglia della stagione matura, “diventare grandi” avesse a che fare con il perdere la capacità di lasciarsi incantare. In fondo, ci diciamo, abbiamo visto, sentito, detto e fatto tutto e nella nostra vita non può più esserci spazio per la sorpresa, l’estasi, la fascinazione, l’incanto. Così, poi, confondiamo incanto e sogno. Sebbene il sogno non abiti le stanze della consapevolezza ma quelle dell’inconscio, mentre l’incanto è il riflesso concreto che le cose lasciano dentro di noi, l’impronta fisica del loro passare attraverso la nostra sensibilità. Eppure sembra che la vita, ad un certo punto, ci metta di fronte ad una specie di passaggio obbligato, il cui pedaggio è la perdita dell’incanto. La prima cosa che cerco di fare nelle mie opere è la riscoperta dell’incanto. Credo che sia una dote naturale dell’uomo il farsi meravigliare. Per questo, a volte, cerco di parlare unicamente di sentimenti, di singole e forti passioni, vivisezionando il pensiero della gente, togliendo tutto ciò che non serve, far capire qual è l’oggetto che riesce ancora ad incantarci, riconoscerlo bene, individuarlo e proteggerlo. Non credo che ci sia un esempio di una cosa bella e semplice che c’incanti come il canto del mare. E’, di certo, un percorso al contrario. Seguendo le orme che queste cose hanno impresso nella nostra anima, per ritrovarsi a faccia a faccia con le radici di certe emozioni e con noi stessi. Ma è, comunque, l’invito a non togliere il cuore davanti all’incanto. Io non l’ho mai fatto e cerco, ogni giorno, “barca contro la corrente”, di non perdere la capacità di lasciarmi incantare. Perché solo se lasciamo la porta socchiusa, l’incanto può scivolare dentro di noi, qualunque sia il tempo in cui viviamo e l’universo nel quale orbitiamo. Perché, sia io che tu, sappiamo che senza quella volontà, l’incanto si spezzerebbe, perderebbe la sua qualità più importante e, nel caso del mare, il canto diventerebbe solamente rumore.
Giorgio non aveva più parole. Quello che aveva detto Claudio Lizza, il suo parlare placidamente ma con sicurezza lo avevano messo di fronte al vero eterno. Si rese conto che per lui il mare non era mai stata una cosa normale. Lo stesso pomeriggio, con Francesca, si era ritrovato tramortito dalla spietata inquisizione che il mare gli aveva rivolto. Giorgio Oltrini, di fronte all’incanto marino, aveva ammazzato la sensibilità di Francesca, amandola senza amore, come un basso e sporco bisogno di soddisfazione carnale, falsità senza ritegno di fronte all’assolutezza delle stanze di Nettuno. Ed aveva mentito a Claudio affermando che il mare era una cosa normale, chiudendo drasticamente la porta all’incanto, proprio nel momento di maggior bisogno di verità. Era forse un segno del comune diventar grandi? Del voler dimostrare di non essere più piccoli? Quel che è peggio è che lui si rendeva conto d’aver bisogno di essere incantato, ma forse non voleva essere sciocco, soprattutto agli occhi di Claudio e, di conseguenza, della gente. Si accorse che questo era il comportamento di tutte le persone, di quelli che un tempo erano chiamati poeti ed adesso solo scrittori della fame, dei sognatori assennati, degli incantati che si sono “fortunatamente” svegliati al reale, delle persone adulte.
Un tremito, un vortice di brividi cutanei, l’adrenalina che risaliva pel corpo tutto ed ecco di nuovo, lenta e risoluta, la voce di Claudio:
- Credimi, io non penso d’essere portatore della verità assoluta. Anche se scrivo le mie poesie, i miei romanzi e butto giù filosofie echeggianti, disarmanti disamine, austere ostentazioni, più d’una volta mi sono trovato a camminare per strada sguardo all’asfalto o a chiedere il perché con occhi da Gesù buttati al cielo. Anch’io, come te e tutti quelli che vogliono crederci, ho creato un sogno mio lì avanti. Ogni giorno c’è una partenza ma non aspetto più un arrivo, vivendo un’esistenza senza data di scadenza su. Ma quando il mio punto esclamativo piegherà la schiena come un’ansa, diventando interrogativo, saprò di avere una vita da raccontare e che in quella vita c’è un sogno irrealizzato che chiede di continuare ad esistere per lui.
- Mister - rinsavì Giorgio - lei ha la capacità di leggere il mio sguardo. Lo sguardo di una persona che stasera è in grave debito con la verità, con l’onestà.
Occhi bassi, Giorgio cercava un rifugio per lo sguardo imbarazzato. Continuò a guardare le sue mani intrecciarsi.
- Credevo di amarla … - disse il ragazzo sconsolato.
- Penso di capire il tuo problema. Anche se ogni storia è diversa, c’è un denominatore comune che le assomiglia tutte. Ogni persona cerca la felicità attraverso l’amore. Ma amore è qualcosa di più rispetto allo stare bene con una persona. L’amore è il guardare una donna e soffrire anche se la si possiede, sono baci rubati per non poterne fare a meno, immaginare l’amata al di sopra del mondo, sotto una campana di vetro che trascina con se i ricordi di bambino, voglia di tenerezza e perfezione estetica. L’amore è vederla ovunque, vivere per vederla vivere, l’amore non si può spiegare, l’amore vero non è possibile da definire con delle parole, non si può dar voce alle emozioni, non ci si può emozionare con delle parole allo stesso modo che con un sentimento d’amore. Se in questa notte di maggio io pensassi i miei amori passati che ascoltano la mia piccola voce che va dritta al cuore, con l’aria che leggera si muove verso di loro, non potrebbero non sentirsi illuminati di assoluto, di verità senza tempo, di un eterno attimo che è veramente esistito e che in questa notte di maggio io ricordo e quasi rivivo. Io conosco la mia vita e ho visto il mare e conosco l’amore da poterne parlare, ma nelle notti di maggio non può bastare l’incanto del mare per lasciarsi andare, per tornare insieme. In queste notti l’incanto del mare serve unicamente per farsi ricordare da loro. Tu, Giorgio, non sei mai stato innamorato, altrimenti non avresti mai fatto questo sbaglio. L’errore di crederti inebriato. Anche io ho fatto i tuoi errori, credimi. Il fatto è che ognuno ha un cuore che come un tamburo suona un canto comune, una comune solitudine che a volte mettiamo insieme per starci un poco accanto. Ma si va su una strada che porta dritta all’abitudine, così è sempre il tempo a vincere, è lui che si muove, lasciandoci immobili quando già aveva portato quel suono leggermente diverso al nostro tamburo, atteso chissà quanto fino a prometterci indivisibili. E’ quel suono che noi confondiamo con l’amore. E’ la voglia d’amare che ci confonde. Dopo lo sbaglio, ovviamente, devi prendere o lasciare, comunque vada e non come volevi, così i tamburi tornano a battere lontani, come è giusto che sia. In questo momento tu devi rendere conto solo alla tua onestà, non certo alla tristezza. Ascolta la tua verità come Nerito che, seppur innamorato di Afrodite, rinunciò alle ali da lei costruite che gli permettevano di raggiungerla sull’Olimpo, per restare a contemplare la bellezza del mare e fu, per questo, da Afrodite trasformato in conchiglia. Stai pur certo, infatti, che la tua ragazza non capirà.
- Davvero non ho parole - balbettò Giorgio con un’aria di meraviglia - lei dice tante di quelle verità che quasi m’imbarazzano. E’ tutto così giusto…
Claudio Lizza si alzò e con un sorriso rassicurante pose una mano sulla spalla di Giorgio.
- Crescerai anche tu e le esperienze ti formeranno. L’importante è che tu rida un pò di più. Mamma mia com’è tardi, buonanotte Giorgio, mi ha fatto molto piacere parlare con te. Qualcosa mi dice che ci rivedremo presto.
- Lo spero di cuore. Notte mister.
Era tardi, in effetti. Tra le parole del professore e le emozioni del ragazzo erano arrivate le due di notte. Quella volta, come molte altre, Giorgio tornò a casa a piedi.

I I I

Il mare si stendeva all’infinito, sciabordando e scintillando sotto la luna che stava levandosi… Fu allora che all’orizzonte lunare si levò un frastuono lontano e cominciò a biancheggiare una nube di schiuma. Nella scia lunare il frastuono e la nube di schiuma si avvicinavano. Infine apparve un corteo di tritoni e di sirene, sempre più vicino. Nuotavano, battendo le loro scaglie metalliche e sollevando vortici argentei nell’acqua, i loro corpi per metà fuori delle onde, i capelli agitati dal vento nella spuma. Fluttuavano capelli purpurei, capelli verdi e tutti i volti avevano quella trasparenza color del mare nelle giornate coperte da nubi dense, di un mare notturno, di una subitanea agitazione dei sensi. Colpevole, si svegliò di soprassalto. Un sogno tremendo, una paura secca e feroce, forse postumi del discorso limpido e pulito di Claudio della sera prima. Per l’intera mattinata Giorgio non uscì.
Era una mattina assai piovosa e Giorgio fu accolto da un risveglio breve e deciso. La paura di non riuscire a lasciare Francesca lo assalì. Giorgio sedeva, subito dopo aver fatto colazione, sulla poltrona del salotto, intento a guardare la televisione. I suoi pensieri nella mattina inoltrata si facevano sempre più leggeri. Ormai era sicuro della scelta che stava per prendere, rasserenato dalla sicurezza che avrebbe fatto assolutamente la cosa migliore. Si alzò distrattamente ed andò in camera sua per studiare un po’, intanto che la signora Gianna preparava il pranzo. Prese in mano un libro di Gabriele D’Annunzio, “Il trionfo della morte”, e cominciò a leggere, visto che avrebbe portato il poeta abruzzese come argomento a piacere all’esame di Stato. D’un tratto dal corridoio si sentì squillare il telefono. Un fermento improvviso attraversò il suo corpo. Sentì i passi della signora Gianna avvicinarsi alla sua porta.
- Giorgio, è per te, è Francesca.
- Arrivo subito - rispose Giorgio con un sorriso sofferto.
Era pieno di falsa sicurezza, aveva tutto chiaro in mente, era limpido e lineare, tutto giusto così.
- Ciao amore, come stai? - principiò Francesca.
Nessuna domanda gli sembrò più banale e tanto poco profonda. Con un groppo in gola che quasi gli impediva la parola, rispose.
- Bene grazie, mi dispiace solo che piova, non potremo uscire.
- Veramente poco fa mi ha telefonato la mia amica Barbara, ti ricordi? Mi ha chiesto se volevamo andare al cinema noi tre più Sandro. Loro vanno, tu che ne dici?
Giorgio provò un leggero fastidio per ciò che aveva sentito. Non gli dispiaceva, infatti, che Barbara e Sandro si frequentassero, era turbato dal fatto che Francesca avesse trovato il modo di uscire con lui ugualmente, proprio quel giorno che credeva ormai senza pericolo.
- No, senti Francesca, non ne ho voglia. Perdonami ma non mi sento molto bene, non credo che uscirò oggi - detto ciò chiuse il telefono.
Appena riagganciata la cornetta si sentì sprofondare in un baratro incolmabile. Riprese l’apparecchio e, quasi senza accorgersene, richiamò subito Francesca.
- Scusa, deve essere caduta la linea, - fece il ragazzo - vediamoci, ma solo noi due, vorrei parlarti.
- Va bene - rispose Francesca con voce ricolma di una cupidigia paralizzante - ma sono io che debbo parlarti.
Detto questo si diedero appuntamento al caffè Versailles per le quattro in punto del pomeriggio. Giorgio era molto curioso circa quello che gli avrebbe detto Francesca, ma poteva immaginarlo. Forse la ragazza, intelligentemente, aveva capito la situazione e gli avrebbe proposto di troncare amichevolmente il rapporto. Che sollievo provava l’Oltrini al solo pensiero! Infondo Francesca era una brava ragazza, arguta e comprensiva. Quasi gli dispiaceva che finisse tutto così.
Arrivarono le quattro e Giorgio era già da quasi un’ora al caffè. Ad un certo punto entrò Francesca. L’Oltrini vide subito la ragazza, la osservò mentre chiudeva la porta, poi pensò di orientare lo sguardo altrove facendo finta di non averla veduta, come se s’interessasse ad altro, come se avesse l’attenzione catturata da qualcosa di completamente diversa dall’attesa.
- Ciao - principiò gioviale la ragazza.
Era in piedi davanti a lui, indossava dei pantaloni neri, non larghi, che in verità mostravano ed anzi risaltavano i suoi bei fianchi, una maglia dai freschi colori, che senz’altro abbelliva la sua già graziosa figura ed aveva i capelli legati a formare una lunga coda che a Giorgio pareva rimpicciolirle oltremodo il viso. Non capiva quella serenità. Si aspettava dalla ragazza uno sguardo di rassegnazione, l’aspettava tranquilla, questo è vero, ma di quella tranquillità unicamente figlia dell’arrendevolezza.
- Ciao Fra’ - rispose Giorgio con un triste sorriso, poi proseguì - siediti pure.
L’Oltrini fece cenno al barista di raggiungerli perché potessero ordinare, poi ci ripensò e, dopo aver domandato l’assenso a Francesca, ordinò due thé freddi al limone e due paste.
- Hai detto che dovevi parlarmi Giorgio, - disse Francesca - avanti, dimmi.
- Ma anche tu devi dirmi qualcosa, se non sbaglio - rispose Giorgio con una parassita speranza.
- Speravo che me lo dicessi. Voglio farti capire che ho compreso il problema.
Giorgio aveva la mani congiunte sul tavolino in maniera distratta. Francesca si fece seria in volto e, con fare flemmatico, prese le mani del ragazzo e disse:
- Io ti ho visto più triste del solito ultimamente e so qual è il motivo. Certo, voi maschi siete sempre titubanti delle vostre ragazze, le pensate volubili, maliziose ed ammiccanti con tutti. Posso dirti una cosa sola amore mio: io ti amo come la mia stessa vita, come un fiore può amare la terra o la rugiada il mattino e non ci sarà mai nessuno, niente che potrà cambiare questo mio sentimento.
Giorgio si sentiva colmo d’insofferenza ma capiva di volere un bene dell’anima a Frencesca, la tenerezza gli sfociava nel cuore. Il bisogno immondo che aveva di lasciare la ragazza andava via via scemando, pensava sempre meno in quei lunghi istanti. Il barista aveva portato i due thé stranamente in una tazza bianca, come si vedeva solo in certi salotti inglesi. Giorgio era immobile, con le mani avvolte da quelle di Francesca, fissava il fondo ambrato della tazza di thé.
- Va bene Francesca - disse algido ed artificiosamente sorridente.
- Sapevo che mi avresti creduto.
- Va bene - ribadì Giorgio.
- Non devi dubitare più di me, intesi?
- Va bene - aggiunse Giorgio alzando la testa, sorridente.


So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta,
da un fondale,
da un fuori che non c'è se mai nessuno
l'ha veduto.

   
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