Gabriella Cuscinà
Senatore
Italy
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Inserito - 23/02/2003 : 18:12:24
La pagina biancaCarlo soffriva di depressione. Se ne rendeva conto, ma non aveva mai voluto consultare un medico. L’incuria è sempre biasimevole se riguarda la propria salute. In taluni casi confina con la balordaggine. I primi sintomi erano insorti con la nascita del secondo figlio, che strillava e non lo faceva dormire. Era stato colto da insani desideri d’infanticidio. Quell’inverno aveva conosciuto a scuola una nuova collega. Era giovane, simpatica, affascinante. Se n’era invaghito perdutamente e per lei avrebbe abbandonato moglie, figli, casa, dando un colpo di spugna al passato con disinvoltura. Invece Maria, la nuova docente, era morta l’anno successivo per un tumore al seno. Al computer, Carlo iniziò a scrivere poesie d’amore d’ispirazione stilnovista. La donna da lui angelicata era scomparsa, ma ricompariva in alcuni suoi scritti appassionati e deliranti. Laura la moglie, non sapeva e non s’era mai accorta di nulla. Faceva la rappresentante di preziosi, sempre molto impegnata. Solo, si rendeva conto del crescente stato d’abbattimento e d’angoscia del marito. Lo aveva esortato ad andare da uno psichiatra, ma non era stata ascoltata. Aveva parlato con un medico amico e quello aveva individuato chiaramente i sintomi della depressione. Anzi l’aveva avvisata: “Stai attenta, Laura, è un male subdolo e pericoloso. Tuo marito deve assolutamente ricorrere ad uno specialista.” Niente da fare! L’unica attività che assorbiva Carlo, oltre l’insegnamento, era scrivere al computer. Scriveva con esaltazione, con nervosismo. Nelle sue poesie e nei suoi racconti, tutto era lugubre, ossessivo, drammatico. Il senso dell’umorismo era totalmente assente. Un episodio domestico l’aveva scosso dal torpore abituale provocandogli maggiore ansia. Laura, per la sua professione, possedeva una pistola con porto d’arma rilasciato dalla questura. Il marito l’aveva presa per pulirla e l’aveva lasciata inavvertitamente sul mobile del soggiorno. Giocando, il figlio più piccolo l’aveva maneggiata facendo esplodere un colpo che aveva sfiorato il fratello. Il panico era stato enorme per tutta la famiglia. Poi un giorno, su una pagina bianca della sua agenda scolastica, Carlo aveva scritto il nome di Maria. Si trovava seduto su un divano di casa. Aveva ripensato a lei e improvvisamente ecco apparire la collega. La donna gli era accanto, reale, sorridente, bella, ma non aveva parlato ed era sparita subito. Era rimasto come inebetito. Non aveva mai creduto ai fantasmi. Pochi giorni dopo, aveva acceso il computer e sulla pagina bianca di Word, aveva visto quel nome scritto da una mano sconosciuta. “Maria.” Non aveva detto niente a nessuno. Temeva le reazioni di scetticismo e di sarcasmo. Nei giorni successivi il fenomeno si ripeté. Il nome divenne il viso. Soffuso, trasparente, diafano. Quasi volesse fare da sfondo al video. Da quel momento appariva sempre e gli lasciava messaggi scritti. Parole indecifrabili, dall’oscuro significato che poi lentamente si dissolvevano. Lui continuava a tacere, a tenere per sé quanto accadeva. Era come un’ossessione! Pensò di mettersi in contatto con Maria per capire il mistero e far cessare quelle manifestazioni. Aprì l’Outlook e ad un indirizzo immaginario, inviò messaggi che naturalmente tornarono indietro. Ma sulla pagina bianca di Word continuava ad apparire scritto: “Maria”. I fenomeni avvenivano solo sul computer di casa e li teneva gelosamente nascosti a chiunque. Quando si trovava a scuola, tutto era normale. Un pomeriggio, accesa la radio, aveva percepito una voce che lo chiamava. Aveva cambiato canale e la voce s’era ripetuta. Il terrore l’aveva attanagliato come una morsa spettrale che toglie ogni capacità di discernimento. Ancora una volta la sua balordaggine ebbe il sopravvento! Si mise a parlare, a rispondere a quella voce. “Chi sei? Sei tu Maria? Che vuoi?” Silenzio. “Perché non mi lasci in pace?” La moglie lo trovò così, mentre parlava da solo. “Carlo! Ma che hai? Con chi parli?” La poverina si preoccupò. S’avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. Rimase a guardarla con la bocca aperta. Poi agitò il capo. “No no niente. Ascoltavo la radio e commentavo.” Un’altra volta nella stanza da bagno, vide un foglietto di carta con scritto il solito, ossessivo nome. Lo stracciò in mille pezzi con furia e paonazzo in viso. Tutte queste cose le vedeva e le percepiva solo lui. Cominciava ad odiare anche il solo ricordo di Maria. Era divenuta la sua nemica. Colei che lo perseguitava! Non si rendeva conto che le turbe ossessive della mente sono una malattia grave. Il suo stato d’animo era avvilito, prostrato. Si chiedeva cosa non lo soddisfacesse nella vita. Aveva due bambini meravigliosi, una moglie affettuosa, una rendita economica discreta, compresa la casa di proprietà. Dunque perché? Il male sottile ce l’aveva dentro. Sarebbe bastato rivolgersi ad un qualsiasi neurologo! Quando la moglie lo trovava a parlare ancora da solo per casa, lo esortava: “Dai! Prendo l’appuntamento con il dottor……..” “No! Assolutamente no! Non sono mica pazzo io!” Come se si vergognasse ad ammettere d’avere disturbi del sistema nervoso. Così un bel giorno, Maria si sedette accanto a lui in cucina. Carlo lanciò un urlo di raccapriccio e si contrasse, chiudendo gli occhi. Poi li riaprì e lei era sempre là. Muta, immobile come una statua. Bianca e vestita di bianco. Avrebbe voluto eliminarla, strozzarla. Nel fare così si slanciò in avanti e cadde a terra con un tonfo enorme. Sbattendo la testa, si procurò una ferita ed un ematoma sulla fronte. I figli accorsi lo trovarono a terra sanguinante e furono desolati. Maria cominciò ad aggirarsi per la casa. La vedeva spettrale e con gli occhi cerchiati di nero. Il figlio maggiore era un ragazzino sveglio ed un giorno chiese: “Papà ma perché ti guardi sempre intorno come se vedessi un fantasma?” “Non mi guardo intorno, sono solo soprappensiero. Noi adulti abbiamo tanti problemi cui pensare e da risolvere.” “Non mi sembrava. Comunque ringrazio voi adulti d’aver fatto un buco nell’ozono!” “Vattene! Non fai ridere nessuno!” Era sempre irritabile e nervoso. Più s’agitava più subiva la sua persecuzione. Pensò di scrivere un messaggio proprio su quella pagina bianca dell’agenda scolastica dove tutto era cominciato, per pregare Maria di non farsi vedere mai più. La pagina restò senza alcuna risposta, ma le apparizioni continuarono. Una notte udì piangere e singhiozzare. Lo disse alla moglie, alzandosi per andare a controllare i figli. Laura non aveva udito nulla. “Io non ho sentito niente, ma se tu domani non vai da un dottore, lo chiamo e lo faccio venire a casa.” “Non ti permettere! Appena posso, ci andrò.” Invece non andò. Lo sguardo di rimprovero della moglie divenne una nuova persecuzione. I nervi erano a fior di pelle. L’esasperazione faceva da involucro alla sua personalità. Adesso anche a scuola rendeva male, poiché un docente non può permettersi d’essere sempre nervoso e privo di pazienza. I suoi alunni una mattina stavano eseguendo un compito in classe e, sulla pagina bianca del quaderno di un ragazzo, lesse: “Maria”. Cominciò ad urlare come un forsennato: “Perché hai scritto quel nome? Chi te l’ha detto! Perché l’hai scritto?!” “Professore, guardi che io non ho scritto nulla,” rispose il povero alunno costernato. Guardò meglio e s’accorse d’aver visto qualcosa d’inesistente. Nella classe, il silenzio e lo sbalordimento divennero palpabili. Cercò di giustificarsi dicendo frasi sconnesse, ma i ragazzi lo guardavano con gli occhi spalancati. Un’altra mattina, in un corridoio dell’istituto, incontrò Maria con un gattino nero in braccio. Ricordò che la defunta collega gli aveva raccontato di possederne uno. Si fermò e la pregò di non farsi più vedere. Un alunno lo sorprese mentre parlava con l’invisibile interlocutrice. “Professore, ma con chi sta parlando?” Maria era scomparsa di colpo. Lui iniziò di nuovo ad urlare. “Cosa ti interessa! Perché non ti fai i fatti tuoi! Cerca di studiare invece d’andare in giro per la scuola!” L’alunno trasecolato, lo guardò a bocca aperta e non replicò. Il gattino nero prese a passeggiare per l’aula e Carlo, mentre spiegava la lezione, s’interrompeva guardando fissamente il punto dove credeva di vederlo. L’intera classe si volgeva allora verso quel punto. E questo più di una volta. “Professore, ma cosa c’è? Cosa guarda?” Altre urla. “State attenti! Voi non seguite! Guardate me invece d’ascoltare ciò che dico!” Così da qualche tempo, i suoi alunni gli mostravano sfiducia, disistima, sarcasmo. Quegli stessi ragazzi che prima gli erano tanto affezionati! Il preside che si era accorto di tutte queste stranezze, gli aveva consigliato di astenersi dall’insegnamento e di prendere un periodo di aspettativa per motivi di salute. Carlo era dunque arrivato al culmine della sopportazione. Un pomeriggio era rimasto solo in casa ed era in piedi nella camera da letto. Tremava, aveva il terrore di veder comparire Maria. Alle sue spalle udì un rumore. Estrasse la pistola dal comodino e girandosi, fece fuoco. Vide Laura afflosciarsi al suolo priva di vita. Il silenzio divenne fitto, tombale, assoluto. Non c’era nessuno. I figli erano fuori. Non pensò a loro. Pensò alla sua vita distrutta. Puntò l’arma alla tempia e sparò di nuovo, con rabbia, ma felice di potersi liberare di quella tortura che era divenuta la sua mente. Gabriella Cuscinà
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