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 L'intervento
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Gabriella Cuscinà
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Italy
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Inserito - 10/03/2003 :  12:45:50  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Gabriella Cuscinà Invia un Messaggio Privato a Gabriella Cuscinà
L’intervento


Dovevo subire la rimozione chirurgica di alcuni strumenti metallici con cui mi avevano ricomposto le rotule delle ginocchia.
Rispetto alla precedente operazione ortopedica di ricostruzione, quest’ultima mi si prospettava come una passeggiata. Dunque l’affrontai a cuor leggero e con spirito stoico, quasi d’allegra vacanza dal lavoro e da ogni altra incombenza familiare.
Mi recai in un ospedale privato molto attrezzato e lussuoso.
Un mio caro amico ortopedico mi avrebbe riaperto le ginocchia in questione, per prelevare e togliere via per sempre una vite ed un bullone dal ginocchio sinistro, e dei fili metallici dal ginocchio destro.
Alle otto del mattino, ero già nella sala d’aspetto del suddetto nosocomio, nell’attesa che mi portassero in sala operatoria.
Poltrone comodissime erano sparse ovunque, quadri e stampe varie ornavano le pareti, tavolini di vetro e di legno erano ricolmi di riviste.
Con una calma serafica, come se stessi solo attendendo di confessarmi con il mio sacerdote preferito, aspettavo, e intanto mi ero seduta ed avevo preso una rivista che sfogliavo tranquillamente.
Poco dopo, venne a sedersi di fronte a me una ragazzina molto attraente. Aveva i capelli biondissimi, lungi ed inanellati, gli occhi blu ed enormi, orlati da ciglia folte e lunghe.
Ostentava un’aria annoiata e di sussiego.
Anche lei aveva preso in mano una rivista e ne sfogliava le pagine, senza però neppure guardarle. Piuttosto, ogni tanto, osservava me di sfuggita.
I lineamenti erano delicati ed assai belli. Il suo corpo era di bimba appena sviluppata. Aveva, infatti, un accenno di seno, i fianchi vagamente rotondi. Le gambe erano magre e ricoperte da calze azzurre. Le scarpette erano di vernice nera. Tutto il suo abbigliamento era molto ricercato e costoso. Non era alta, ma era proprio ben fatta.
Sbuffava e, ogni tanto, continuava a rivolgermi occhiate altezzose.
Poi improvvisamente: “ Deve operarsi anche lei?” mi chiese.
“Sì, certo sono qui per questo. Sto aspettando che mi portino in sala operatoria.”
“Così tutta vestita?” continuò.
“Devono intervenire sulle mie ginocchia, quindi è inutile che mi svesta. E tu, perché sei qui?”
“Oh! Hanno deciso sia opportuno togliermi l’appendice! Sto per essere ricoverata e attendo che mi chiamino per assegnarmi una camera decente!”
“Non hai paura? Ti vedo molto spavalda!”
“Perché dovrei averne?! Mi faranno un buchino e andrò a casa in fretta.”
“I tuoi genitori, sono con i medici?” feci, certa di quel che affermavo.
“I miei genitori sono sempre all’estero. Sto con i nonni, che sono i gioiellieri più facoltosi della città.”
“Ah! Mi spiace, non immaginavo! Papà e mamma lavorano in un’altra città?”
“Macché! Non lavorano, si divertono! Lei di cosa si spiace, scusi? Che loro si divertano? A me non dispiace. Stanno sempre fuori dei piedi e non rompono. Poi anche se fossero qui, la cosa non cambierebbe. Con me non parlano mai, però mi danno tutto quello che desidero, come fanno, d’altronde, i nonni.”
La sua aria era altezzosa e sdegnata, anche se lei, evidentemente, non se ne rendeva conto.
“In che scuola vai?” azzardai a chiedere.
“In un istituto privato. Anche lì, mi fanno fare tutto ciò che voglio. Una noia mortale!
Studio, ma gli insegnanti non valgono un fico secco, e quello che imparo di più, lo faccio per conto mio, con l’aiuto del computer e delle enciclopedie.”
“Brava! Ma è tempo che ci presentiamo. Come ti chiami?” e pronunziai il mio nome.
“Romilda” e aggiunse il cognome, nel quale riconobbi, quello dei più importanti commercianti orafi della città.
“Lei è simpatica però, signora, sa parlare con i ragazzi!”
“Anche tu sei simpatica, Romilda. Un po’ palloncino gonfiato, ma in gamba, tutto sommato.”
“Palloncino gonfiato? Come sarebbe!”
“Sì, intendo dire che ti dai molta importanza, però mi piaci lo stesso.”
In quel momento, un’infermiera venne a dirmi di seguirla.
Mi ritrovai in una gran sala attrezzata chirurgicamente.
Il mio amico ortopedico mi volgeva le spalle e non mi guardò. I chirurghi, a quanto so, preferiscono non guardare in viso coloro sui quali devono intervenire.
Mi fecero adagiare su di una barella posta sotto un’enorme lampada.
Un medico anestesista s’avvicinò sorridendo e mi prese un braccio nel quale introdusse un ago.
L’ultima cosa che vidi fu la sua faccia di beota sorridente.
Mi sveglia di lì a poco e…, sorpresa delle sorprese! Sentii che mi avevano bucato la pancia. Provavo un forte bruciore nel lato destro dello stomaco e non riuscivo a capirne la ragione. Allora mossi una mano per toccarmi là dove mi doleva e, così facendo, mi accorsi che la mia mano era piccola e paffutella. Provai un brivido di raccapriccio! Cosa mi stava capitando?
Le braccia! Non erano più le mie! Erano più piccole.
Mi toccai, dunque, il viso e avvertii il contatto di capelli riccioluti. Non erano i miei capelli!
Mi venne da piangere! E, infatti, cominciai a lamentarmi e a gemere.
A questo punto, entrò una bella signora un po’ avanti negli anni, ma egualmente piacente e molto elegante.
“Romilda, tesoro! Ti sei svegliata!” disse carezzandomi.
“Io non sono Romilda!” ribattei all’istante.
“Va bene, va bene, dormi, ancora non ti sei ripresa!”
Andò via lasciandomi nelle più gravi ambasce.
Mi faceva male il fianco destro, ma potevo benissimo muovermi, e quindi mi alzai.
Tosto però dovetti piegarmi in avanti poiché il dolore al fianco era aumentato.
Non desistetti e mi avvicinai ad uno specchio di quella che, doveva essere una camera d’ospedale.
Quello che vidi mi fece gelare il sangue nelle vene!
Non ero più io. Ero proprio Romilda!
Quegli occhi azzurri e pieni di ciglia, non erano i miei, i quali, a quanto ricordavo, erano sempre stati castani. Quel visetto assai bello non era il mio. Il mio viso non era mai stato brutto, ma certo non era più tanto giovane.
Povera me! Ero Romilda!
Mi balenò un’idea: doveva esserci stato uno scambio in una non ben identificata dimensione! Se così fosse stato, in quel momento, Romilda si trovava nei miei panni.
Rientrò la signora di poc’anzi in compagnia di un medico in camice bianco.
“Allora, signorina, ti sei svegliata?” disse quest’ultimo.
Ero in piedi e subito l’assalii: “Dottore! Non sono Romilda!”
Restò un po’ interdetto. Poi sorrise e disse: “La nonna mi ha detto che ancora non ti eri svegliata bene, io penso piuttosto che ti senta perfettamente e che abbia voglia di scherzare e fare i capricci.”
“I capricci, un corno! Sono la signora……..” e pronunziai il mio cognome.
“Sì, sì, va bene! Coricati! Domani andremo a casa” ribatté, prontamente la nonna.
Ero stremata. Mi coricai davvero e le forze mi vennero meno.
L’indomani, mio malgrado, fui portata via e condotta in una casa lussuosissima. Era un’antica villa ubicata al centro della città, racchiusa da un parco principesco con miriadi di fiori.
La nonna, trascinandomi per una mano, la quale per poco non si staccava dal polso, mi condusse nella stanza di Romilda.
Anche lì, il lusso e la ricchezza trasudava dai muri rivestiti di seta e dalle migliaia di giocattoli e peluche sparsi ovunque.
Niente di tutto quello che avevo visto però, mi attirava minimamente, benché la dimora rappresentasse quanto di più desiderabile potesse esistere!
“Mettiti di nuovo a letto e non ti muovere, ” ordinò la nonna ed uscì come un siluro dalla stanza, certo per andare ad assolvere le sue molteplici incombenze di direzione ed organizzazione di quella che, più che una casa, pareva un castello.
Adesso dovevo proprio risolvere quel mio tremendo ed insolito problema.
Dovevo tornare a casa mia, da mio marito, al mio lavoro.
Dunque dovevo fuggire. Sì, non vi era altra soluzione! Per quanto fosse ardua l’impresa di uscire da quella villa, lo dovevo fare, ci dovevo provare!
Per fortuna non avvertivo più alcun dolore al fianco. Come se non mi avessero neppure operato d’appendicite.
Furtivamente, uscì dalla stanza e mi avviai verso il parco. Nessuno mi vide.
Il cancello era aperto ed uscì, dirigendomi verso la strada dove si trovava la mia casa.
Camminai per molto tempo ed avevo la mente confusa, come se avessi la febbre!
Non desistevo però, ero determinata a tornare nella mia adorata casetta.
Vi arrivai alla fine e trovai la porta d’ingresso aperta.
Forse mio marito era presente e l’aveva lasciata socchiusa, prima di uscire nuovamente.
Accidenti! Ero Romilda! Cosa avrebbe detto il mio consorte?
Entrai furtivamente e mi nascosi dietro un divano, rincantucciata, in preda alla più grande costernazione ed ai dubbi più feroci!
Caso volle che mio marito si venisse a sedere proprio su quello stesso divano.
Non sapevo che fare e com’esordire.
Pensai di chiamarlo senza farmi ancora vedere.
Lo feci, ma la voce che gorgogliò dalla mia gola era quella di Romilda!
Ricordo che molti anni or sono, quando ero piccolissima, una volta, in casa di una mia vecchia zia, mi nascosi dietro una poltrona, mentre la poverina stava recando, in mano, un vassoio pieno di tazze di caffè. Per gioco e per scherzare, venni fuori all’improvviso e feci: “Cucù!” La zia si produsse in un salto in aria di almeno mezzo metro e andò ad atterrare su un tappeto, rovesciando vassoio, tazze, piattini, zucchero e zuccheriera.
Ora mio marito non fece di meno della zia e, all’udire quella voce, schizzò via dal divano come se avesse ascoltato un lamento d’oltretomba! Poi, di filato, uscì da casa.
Ero rimasta sola, ma mi trovavo fra le pareti domestiche. La mia casa era ben più modesta di quella di Romilda, ma non l’avrei giammai scambiata per nulla al mondo.
“Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia……….” recita un vecchio adagio.
Mai parole m’erano parse più calzanti!
Nuovamente avvertivo spossatezza e confusione mentale, e pensai dunque di andare a adagiare le provate membra sul mio benamato lettuccio.
Mi addormentai. Di lì a poco però fui svegliata da un rumore strano, come di passi che s’avvicinavano. Spalancai gli occhi e vidi me stessa di fronte!
Quello era il mio viso! Il mio volto di sempre! Caro, vecchio, abituale volto! Quella ero io, proprio io! Cosa facevo lì?
Ah sì! Poco dopo, compresi. Lo scambio era stato perfetto! Romilda era divenuta me, come io ero divenuta lei.
Si sedette sul mio letto e disse: “Mi trovo bene nei tuoi panni! Ho sempre avuto fretta di crescere ed eccomi qua. Adesso sono già grande! Ah, ah, ah, ah.”
“Romilda, a me invece non piace essere te. Per carità, senza offesa! Anzi, n’acquisto in gioventù; però rivoglio la mia vita, il mio corpo, la mia faccia, la mia personalità!”
“Ci deve essere stato uno scambio in non so quale dimensione” fece lei “forse nella dimensione degli anestetizzati!”
“Sì forse, ma io non voglio restare anestetizzata, mi voglio svegliare, Romilda!”
“Allora forza, svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati!”
Qualcuno stava scuotendomi, continuando a ripetere quella parola.
Mio marito mi guardava, mentre aprivo gli occhi, e stava dicendo: “Oh finalmente! Ti sei svegliata! E’ finita! T’hanno già tolto i ferri dalle ginocchia! Come ti senti? E’ andato tutto benissimo. Domani torneremo a casa e sarà tutto veramente finito!”
Un sogno! Dunque era stato tutto un sogno, una specie di delirio dovuto all’anestesia!
Però Romilda l’avevo conosciuta sul serio, e mi aveva molto colpito! Mi aveva coinvolto ed impressionato con quel suo fare pieno d’alterigia. Un modo di fare di bambina spaventata che vuole darsi coraggio ostentando freddezza ed altezzosità.
Una bellissima ragazzina che non parlava mai con nessuno. Cui i genitori avevano negato la loro presenza anche in un momento delicato come quello di un intervento chirurgico! Aveva parlato con me, quasi a sfidarmi, a dimostrarmi che lei non aveva bisogno di nulla e nessuno. Senza sapere che tutti i ragazzi hanno bisogno d’affetto, di qualcuno che stia loro sempre vicino, e che li sappia amare in ogni istante della vita.



Gabriella Cuscinà

   
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