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 I DUE NEMICI DI ZAMA
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zanin roberto
Senatore


Italy
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Inserito - 27/06/2003 :  21:29:48  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a zanin roberto

I DUE NEMICI DI ZAMA

L'alba s'era accesa come una passione incontenibile, il primo sole rossastro aveva illuminato la distesa di Adrumentum e gli olivi carichi di storia diradati prendevano i contorni delle sentinelle puniche che sorvegliavano il campo del Barcide.
Un bel palmeto con fiori di cactus aranciati ombreggiava la grande tenda bianca, dove un braciere esterno profumava l'entrata bruciando foglie aromatiche d'eucalipto.
Il campo cartaginese si animava, grossi otri d'acqua venivano svuotati per una rapida pulizia personale,le cucine sfornavano il pane profumato e ampi vassoi di agave intrecciata, riempiti di frutta circolavano a colorare le improvvisate tavolate.
Suoni periodici di tromba scandivano i tempi dell'esercito che Annibale aveva raccolto per salvare la patria, ora invasa dai romani.
Erano passati 18 anni di splendide vittorie ma anche di disillusioni, quei nemici latini che veneravano Marte dio della guerra e che avevano un così alto senso della patria, sapevano organizzarsi in modo perfetto.
Il nitrito folto dei cavalli punteggiava l'impazienza dello scontro, le prime tiepide folate di vento portavano la sabbia agli occhi e quando apparve il comandante sull'entrata della tenda, il silenzio cadde quasi immediato, marcando di divino il tutto.
Il mantello bianco con una cornice dorata alla greca, tenuta da una borchia d'oro ricamato a fiore di loto, scendeva su un corpo asciutto, un corsetto di pelle incastonata di ricami argentati gli avvolgeva il petto fiero e calzari morbidi ed elegantemente dimensionati slanciavano quel corpo nel vigore degli anni.
I suoi occhi penetranti erano appena velati da una impercettibile angoscia e i capelli neri che scendevano mossi arricchivano un volto marmoreo e misterioso.
Un braccio dalla pelle olivastra e curata gli avvolse le spalle, una donna dai tratti ispanici gli massaggiava il collo, frasi sussurrate e poi il vocio del campo si fece generale.
L'uomo che aveva attraversato l'europa per colpire al cuore Roma si era disteso su un tappeto e guardando il dio Bes ne invocava l'aiuto e la protezione, una lacrima solitaria ed isolata gli solcò il volto e si strinse nei suoi pensieri, Maarbale vecchio compagno d'armi fermò gli uomini intorno per non infastidirlo.
I ricordi si erano impossessati del presente, vide quel giavellotto scagliato oltre le imprendibili mura di Roma, subito dopo la battaglia di Canne, rivide molti valorosi consoli e senatori romani cadere con la daga alzata, rivide lo splendido mare di Cuma, riassaporò il nettare di Bacco deliziato in quei felici momenti.
Poi una fitta allo stomaco, lo fece sussultare, si sconstò quasi in preda al terrore, fissava la ciottola del rancio a terra e si straziò riconoscendo la testa del fratello Asdrubale che i romani avevano lanciato nel suo accampamento, dopo l'agguato del Metauro. Si destò, si alzò, strinse in una morsa ferrea la donna che lo baciò amorevolmente e sensuale.
Scipione era uscito allegro dalla sua tenda spartana, il suo luogotenente Caio Lelio gli aveva fatto rapporto sulla situazione, il suo mantello rosso porpora con i fregi d'aquila dorati ne risaltavano i muscoli temprati alla vita militare.
Una sentinella poltriva, stanca del faticoso turno notturno, venne ripresa in malo modo dal comandante che non tollerava eccezzioni alla disciplina. Il soldato fu punito con dieci vergate e spedito alla sussistenza, nel campo romano ordine e disciplina erano ferree, era proprio quella l'arma che ne consentirà la vittoria per secoli.
Lo scrivano iniziò a leggere alcuni passi di Aristotele e seguì l'annotazione giornaliera di Scipione che si augurava la vittoria o la morte eroica sul campo.
Un volo radente di cicogne rosate variegavano un cielo azzurro e terso, il cavallo nero di Scipione venne portato al console che salito attraversò tutto l'accampamento e si dileguò tra le colline e i vigneti gonfi d'uva, in quell'autunno così diverso ma così mediterraneo.
Aveva colto un frutto e lo aveva avvolto in una seta rossa e chiuso in una sacca di pelle.Il punico, intanto,si lanciò sul suo cavallo bianco e raccolte una manciata di datteri avvolti in fresche foglie di fico e chiuse in una garza bianca, scomparve senza scorta tra gli ulivi intervallati da bassi e nodosi fichi, con l'alba sicura d'aver esordito un giorno buono.
Scorreva sopra la collina un fiumicello che rinfrescava l'arsa terra e il lato nord dell'altura dominava la costa, il romano arrivò per primo e scelto un sicomoro legò il cavallo, si avvicinò all'acqua e con un gesto solenne ne prese una porzione e si lavò gli occhi, alzò lo sguardo e lo distese sul mare fino ad approdare alla sua Roma idealmente.
Annibale intravvide l'avversario, fece rumore per non spaventare con il suo improvviso comparire alle sue spalle, arrivato alla sponda del fiume vi immerse le mani e si deterse la fronte. Per attimi infiniti i due si ignorarono, poi il cartaginese saluto Publio Cornelio.
- "Ave romano, ti saluto ospite d'una terra che è la mia!"
- "Ave punico, la collera di Roma ha armato la mia mano, perchè ponga fine alla tua impavida impresa che ha seminato lutti e panico tra la mia gente !"
- "Il mio odio, giurato contro i romani, è stato solo il più alto atto d'amore verso la mia patria!"
Mentre pronunciava queste parole, prese i datteri e gli offerse a Scipione.
- " Accetta i frutti della mia terra che sono simbolo di tenacia e di ardore!"
- " Grazie...io ti regalo questo melograno, simbolo di libertà e democrazia!"
Ognuno assaggiò con ossequio il regalo dell'altro, dolci e pastosi i primi, frescho, dissetante, acerbo il secondo che per ragioni opposte comprarono il palato dei due.
- " Lo so generale, noi uomini d'armi non abbiamo le mezze misure dei politici...il senato...."
Mentre pronunciava quelle parole il disgusto pervadeva il tono del suo incedere, si sedette su un masso di pietra e così fece il suo interlocutore.Riprese la parola Annibale.
- " Senato...uomini affamati di potere, senza onore, senza limiti alle mille arti del'inganno e della bugia, basta accumulare denaro e successo...."
Scipione sorrise e guardò divertito l'avversario, scelse un sassolino e lo gettò nell'acqua, il mattino si stava incendiando e la temperatura saliva.
Annibale felino artigliò l'elsa della daga di Scipione e la estrasse fulmineo dal suo fodero, un gesto molto pericoloso ma astutamente banalizzato rivolgendo la punta sul suo petto, ammirando l'arma , senza che il romano reagisse, disse: -" Bella, un'arma formidabile per un combattimento corpo a corpo; quando la vidi, la prima volta alla Trebbia, capii che era impellente adottarla !"
Scipione guardava ammirato il maturo uomo che aveva imparato a conoscere imitandone l'arte militare, ne aveva soppesato ogni angolazione, ne aveva cercato ogni genesi ed era giunto alla conclusione che vi era del geniale in quella forza morale e volitiva del suo nemico.
- " Annibale perchè sei qui ? "
- " Scipione, sapevo che saresti salito a contemplare la distesa e il tuo animo, ed io sono convinto che ad un romano devo dire le mie ragioni! "
- " Quale peggiore scelta, il comandante dell'esercito nemico alla vigilia della battaglia!
- " No, Publio, tu sei della mia stessa essenza, mi capirai!
- " Io odio quello che tu hai fatto alla mia terra ma ammiro il modo come lo hai fatto ! "
- " Io sono fortemente convinto che siamo popoli molto simili, i fenici colonizzarono tutte le coste del mare grande e pure i greci, tutte le nazioni bagnate dallo stesso salso dovrebbero essere federate e alleate. Io sognavo la capitale a Cartagine ma questo è scritto solo nel destino...."
- " Oh,....umana speranza, noi fratelli ? Ogni popolo vinto è una preziosa miniera di schiavi e di bottino, ogni nazione sottomessa una in meno da temere...cosi va il mondo e tu dovresti saperlo meglio d'altri...."
Annibale aveva ridato la spada a Scipione e alzatosi s'era levato la benda dall'occhio perduto e vi aveva gettato dell'acqua, un gesto intimo che non avrebbe fatto in presenza di estranei.
- " Dimmi o imperscrutabile generale, sono anni che me lo domando, perchè dopo Canne, non assediasti Roma ormai priva di gran parte del suo dell'esercito ? "
Un gesto di stizza lo attraversò tutto, prese un nodoso legno e lo ruppe violentemente contro un tronco d'albero, imprecò e sbollito guardò con evidente rimprovero il romano.
- " Ma come ? Ancora non hai capito ? Ancora non è chiaro ? Perfino il mio Maarbale non capì ! Io nono volevo l'annientamento di Roma, solo un suo ridimensionamento. Quando raggiunsi le sue mura scagliai simbolicamente un giavellotto dentro, ero padrone dell penisola, ma non avevo vinto!"
Scipione annui e per la prima volta si rasserenò in volto, si fissarono a lungo incrociando lo sguardo, si avvicinarono e si strinsero la mano con energia, Scipione disse: " Domani la battaglia deciderà le sorti della guerra !"
Annibale con serena pacatezza gli rispose: " I destini del nostro mondo sono già scritti da tempo, e non sono quelli che io raccomandavo al mio dio Malquart. Ave romano tu saluti l'ultimo sognatore d'un ordine che non verrà "
I 50000 cartaginesi al passaggio della loro leggenda vivente fecero gran rumore, meno i veterani della campagna italica che con grande dignità preferivano sfogarsi dopo la battaglia.
I 40000 romani erano allineati e squadrati quando il console Publio Cornelio rientrò, sorridenti nel constatare che il loro comandante era di buon umore.
Un gruppo di ragazzini del vicino villaggio si erano immersi nel gioco e correvano liberi, gridavano felici, si rotolavano spensierati mentre il sommo generale ne invidiava la condizione così semplice da vedere e così difficile da raggiungere.
Un'ape si posò vandala su un fico nell'albero e violò quel frutto delicato e morbido mentre il sole non perdonava più l'assenza dell'ombra.


di Zanin Roberto

   
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