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emofione
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Inserito - 20/10/2003 :  14:49:48  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a emofione
Erail 25 Settembre del 2001 il giorno stabilito per la partenza, anche se questa sarebbe dovuta avvenire molto prima, diciamo verso gli inizi di Luglio, visto che il mio stage era terminato ormai da un pezzo ed i miei genitori cominciavano a chiedersi se non fosse il caso che mi attivassi alla ricerca di un lavoro o di un master invece di starmene a giorni sdraiato sull’asciugamano da mare, capello bagnato, occhiali scuri, corpo ancora più scuro, praticamente da marocchino, librino sempre a portata di mano(come si legge bene e con piacere quando non si è stressati dagli impegni quotidiani che ti logorano e ti stancano a tal punto che spesso è giocoforza preferire la passività dello schermo a cristalli liquidi) e tanta voglia di “respirare”, dopo aver patito il caldo e l’assenza del mio sole primaverile e delle onde livornesi, seduto al tavolo di una scrivania che temevo mi sarebbe stata offerta di lì a poco(fu quasi così, ma io la volli intendere diversamente…).
A dire tutta la verità quella partenza, o comunque una dipartita verso lidi lontani, esteri, sarebbe dovuta avvenire ancora prima, molto antecedentemente. Avevo da poco intrapreso gli studi universitari quando mi balenò l’intenzione, che poi si tramutò in fermo proposito, di aderire all’oramai strafamoso progetto Erasmus che tanti studenti ha reso felici negli anni, e tanti altri ha reso schiavi di una vita fatta di rimpianti, ricordi, rimorsi, per essere tornati a casa, a fine programma, quando diventava inevitabile rinsavire ricalandosi in una vita normale, fatta di abitudini e non molti sussulti, ma anche vera, reale, come non lo è quella passata all’estero, spensierata al massimo, alla ricerca delle esperienze più disparate, vissute con la consapevolezza che si tratterà di una magnifica parentesi, di un sogno, così da potersene fregare altamente di tutto il resto, degli sbagli, dell’essere eventualmente licenziati dal lavoro(ne puoi trovare un altro o tornartene in Italia col primo volo), o di non dare esami all’Università(intanto sei lì e impari la lingua, e questo già ti mette a posto con la coscienza), o di non renderti reperibile a nessuno se non ne hai voglia(non avverrà mai che qualcuno, laggiù, si preoccupi di te a tal punto dall’essere in ansia se non torni a casa o se non ti fai sentire, non perché non si possano stringere saldi legami in terra lontana, anzi, ma perché ciascuno sa perfettamente che lì vale tutto, e che se non ti fai vivo è, magari, perché hai incontrato gente nuova e stai facendo cose nuove, e che se anche ti rinchiudi per una settimana intera in te stesso e te ne stai a casa, a scrivere, leggere, mangiare, bere, fare la doccia, fumarti una sigaretta, o più semplicemente ad andare avanti, o meglio oltre, ciò non significa che tu sia in difficoltà o che tu stia male, assolutamente no).
Ma quando mi decisi a preparare tutti gli incartamenti necessari per spiccare il volo verso l’Inghilterra, o la Spagna, o l’Irlanda, o l’Olanda, che ne so adesso(correva già il terzo anno accademico), mi imbattei in uno dei più stupendi periodi da me vissuti da che sono al mondo: si era creato, infatti, presso la biblioteca comunale nella quale andavo a far finta di studiare durante il giorno, un gruppetto di amici, poi separatosi ma rimasto fortemente coeso a giudicare dalle continue manifestazioni di affetto reciproco che si verificano ogniqualvolta ci incontriamo, per caso o per una rimpatriata, all’interno del quale spiccava, per me, la luce di Elisa, che diventò ben presto la mia nuova ragazza, e verso la quale provavo una passione tale da far slittare, a qualche anno dopo, la mia avventura fuori d’Italia.
L’arrivederci, che sapeva tanto di addio, non fu poi così traumatico, non per me voglio dire. Chi parte, infatti, fa subito il salto verso l’ignoto, che lo affascina immediatamente, e lo getta in un tale caos(per via della casa da trovare, della scuola in cui studiare, del lavoro da reperire al volo “altrimenti finiscono i soldi”, delle persone da avvicinare e quelle da scansare, etcetera), che non ha proprio il tempo di fermarsi a riflettere, di sentire la mancanza dei propri cari o della propria ragazza, e non ne ha neanche voglia, visto che nelle settimane antecedenti la dipartita si è logorato non poco all’idea di lasciare il suo bello e sereno microcosmo per recarsi laddove niente sarà scontato, tutto dovrà essere scoperto e guadagnato con le proprie forze(ganzo però!).
Dopo che il groppo che mi aveva cinto la gola di fronte alle comprensibili lacrime di Eli se ne fu andato, dunque, spiccai il volo e mi sentii per un momento leggerissimo, quasi senza peso, così che, pensai, avrei potuto raggiungere i verdi campi d’Irlanda anche senza l’aereo(a saperlo prima risparmiavo un sacco di soldini…).
Ero io, per la prima volta in 27 lunghi anni di vita, ero completamente solo, non avevo appigli(se si eccettua l’ospitalità che un amico di Livorno mi offrì molto gentilmente, ma solo per un paio di giorni, visto che eravamo costretti a dormire nella stessa stanza, anzi praticamente nello stesso letto). Solo contro tutti, la nuova sfida dello Zannoni, che per inciso è un vero patito di qualsiasi tipo di sfida, non riesce proprio a rinunciare, a chinare la testa, a darla vinta a chi gli getta il famoso guanto, cosa che i suoi amici sanno talmente bene da approfittarsene, finendo per convincerlo, spesso, a fare cose che non gli si richiederebbero in quel momento, per mezzo della semplice ma tatticissima frase “Eh, va bene, allora fai come ti pare Emi, ma poi non venire a dire che sei un uomo…” (che stolto sono…nda).
Ricordo perfettamente i primi giorni di Dublino, anzi se chiudo gli occhi mi sembra di essere proprio in quelle strade del centro, poche ma per me (che manco completamente di senso dell’orientamento, mio vero cruccio della vita, per meglio dire un semi-trauma) indecifrabili, di passare davanti agli stessi locali decine di volte senza assolutamente raccapezzarmici, senza trovare un punto di riferimento, con una cartina nuova di zecca in mano(questo me l’ha insegnato il mio amico fraterno Steccio a Barcellona, sempre comprare una cartina dettagliata il primo giorno in cui si arriva in una nuova città estera, non perché altrimenti sia impossibile girarla, ma semplicemente perché cominciando pian piano a studiarla, a leggerla, ad averla sempre tra i piedi, anzi tra le mani, alla fine ti rendi conto, come per magia, che cominci a conoscerla quella città, che sta diventando talmente “familiare” che potresti trasferitici a vita e quasi scordarti di aver vissuto altrove, a meno che tu non sia di Livorno, nel qual caso prima o poi rinsavirai e tornerai all’ovile...) e uno zaino a tracolla pieno di fogli, documenti delle varie scuole d’Inglese, post-it dei numerosi tizi che affittano le case, o meglio le stanze, nel caso in cui si tratti di studenti(molto frequente).
Improvvisamente il mio cervello mi porta nella prima casa in cui trovai accoglienza, dopo i suddetti giorni di temporanea ospitalità “labronica”, quella di una vecchietta irlandese, la mitica Vera Boyne, che, per un po’ di tempo, fino a quando non si sentì male e fu ricoverata in ospedale(il giorno appena seguente i simpatici figli di lei buttarono me e i miei coinquilini fuori di casa senza neanche darci la possibilità di trovare un’altra sistemazione), mi fece quasi da nonna, nel senso che mi cucinava, mi lavava, mi stirava, mi rifaceva il letto, addirittura conversava con me in modo tale da incominciare ad istruirmi all’utilizzo di un inglese appropriato(il mio faceva veramente schifo allora; adesso, a parte l’accento che rimane quello di Borgo Cappuccini, cioè del quartiere popolare di Livorno da cui gli Zannoni derivano, non mi posso lamentare).
La prima room mate che mi capitò fu una francese con faccia di cavallo(d’altronde anche la vecchia Vera, oltre ad essere sorda, era pure la brutta copia del grande Antonio de Curtis, solo che aveva una specie di parrucca biondastra in testa), antipatica, noiosa, immatura. Una vera "schifezzuola" di francese insomma, tanto che pensai “si comincia benino…”.
Poi però la situazione cambiò completamente. Come preannunciatomi da “Totò”, infatti, si presentarono, direttamente da Colleferro (provincia di Roma…”Roma Caput mundi, Collefèro per secundi” mi fu ben presto insegnato) due ragazzi un po’ più giovani (e anche un po’ più bori..ehehe) di me. Vestivano strano(anzi vestivo strano io per loro, che erano rimasti alla camicia dentro i pantaloni con cintura e alla scarpa lucida magari con fibbietta laterale), parlavano ad altissima voce(aho, ma de che, ahò, anvedi, ah laziale!!), fumavano come turchi, erano bianchi pallidi. Ma, a guardarli bene, avevano pure occhi molto svegli, penetranti, gli occhi di chi la sa lunga, gli occhi da faìna, ma una faina buona, cioè quella che sa come stare al mondo, conosce il fatto suo, ma non è cattiva, nient’affatto.
E quando me ne resi conto, cioè dopo pochissimo tempo, già eravamo amici, ma amici veri, già eravamo complici, alleati contro “alcuni di sti stranieri che pensano di esse mejo di noi..ma devono da magnà tanta pastasciutta…”, eravamo divenuti soci, in tutto, per tutto. Ci trasferimmo in Blackhorse Avenue, in una casa bellissima, esagerata, che mi manca da morire, la mia prima vera casa, nel senso che la sentivo proprio nostra, visto che fummo i primi inquilini della medesima, che poi si popolò di gente di tutti i tipi, tutte le razze e le nazionalità, di ogni tipologia di credo e di cultura, una specie di comune insomma. Che bello…
Furono, forse, i mesi più esaltanti della mia vita, quelli matti, quelli delle discussioni politiche e non, mezze in italiano, mezze in inglese, in parte in spagnolo, quelli dei discorsi contorti e quasi impossibili, dei sogni irrealizzabili ma da quell’angolazione visti più vicini, degli incontri, alcuni molto piacevoli, altri molto meno(cfr. il lanlord, tale Aldobrando, un tizio di Latina che si spacciava per mezzo-Irlandese e faceva il furbo, oltre ad essere fascista e razzista, ma che alla fine aveva anche qualche lato positivo forse, se non altro per il fatto che mi divertivo un sacco a prenderlo per le mele), delle serate nei mille diversi pub, dei festini nelle case degli erasmus e dei festoni megagalattici che organizzai magistralmente in casa nostra(cosa che mi rese abbastanza famoso fra gli “stranieri d’Irlanda”, tanto da farmi guadagnare, pro tempore, il titolo di organizzatore-di-serate-e-di-eventi e da farmi ricercare e seguire dalle persone più disparate, come se ogni Sabato sera avessi in mente un qualcosa di nuovo…ma de che…).
Furono anche i mesi dell’introspezione, dello stare con me stesso, del pensare pensare pensare, del navigare con la mente attraverso flutti che neanche adesso saprei decifrare, dello scrivere(è lì che ho dato la botta definitiva al mio primo libro, al mio primo romanzo), della riflessione su me stesso, sui miei progetti, sulla mia donna ed il difficilissimo rapporto a distanza(non credete mai a chi vi racconta che riesce a gestire, da lontano, la propria vita sentimentale, sono solo cavolate!), di qualche paura e di molte consapevolezze ritrovate. Gli anni d’oro del grande Real(dove le merengues eravamo esattamente e solo noi, o almeno così ci sentivamo, invincibili, indistruttibili, a volte bambini, altre volte superfragili se presi singolarmente ma grandi se considerati come squadra).
E allora il sardo permaloso ma cuore grande ed il suo folle amico torinese, la genovese pazza ma mitica, l’unico pisano “bòno” di Pisa(ma sempre pisano…), un altro romano pischello ma molto sensibile, la napoletana affascinante e un po’ "bastarda", la trentina cocciuta ma molto intelligente, ma anche la coppia d’inglesi simpaticissimi, quella di romani cantautori in cerca di gloria in una delle terre della musica moderna, quella mista anglo-australiana di stravaganti, quella francese di bravi ragazzi un po’ sui generis, il gruppone di indiavolati-molto-amici-di-noi-italiani spagnoli, la ragazza lesbica francese iperacuta e molto simpatica, qualche belga, qualche irlandese doc, gli altri italiani miei colleghi di lavoro, alcuni dei quali fenomenali, qualche bella figliola norvegese(ops!), e un sacco di altri personaggi di tutti i tipi si alternarono in quella casa, come inquilini o come ospiti(e qui è gioco-forza citare gli amici-fratelli superCheccho e WonderGiulia, gli unici non parolai che mi sono venuti a trovare da Livorno se si eccettua Eli), finendo per renderla la “casa del pueblo di Dublino”, la migliore e più viva che ci sia mai stata.
Ci tornerò laggiù, a breve, a brevissimo, perché una parte di me è davvero rimasta lassù, ed una parte di lei me la sono portata dietro, nel cuore e nel cervello, nelle cose che faccio e che dico, nelle situazioni che vivo quotidianamente.
Grande esperienza.
Grazie Dublino.
ALE’!


   
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