Acque
(Francesco Guccini)L' acqua che passa fra il fango di certi canali
tra ratti sapienti e pneumatici e ruggine e vetri
chissà se è la stessa lucente di sole o fanali
che guardo oleosa passare rinchiusa in tre metri.
Si può stare ore a cercare se c'è in qualche fosso
quell' acqua bevuta di sete o che lava te stesso
o se c'è nel suo correre un segno od un suo filo rosso
che leghi un qualcosa a qualcosa, un pensiero a un riflesso.
Ma l' acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest' aria bassa,
ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente...
E cade su me che la prendo e la sento filtrare,
leggera infeltrisce i vestiti e intristisce i giardini,
portandomi odore d' ozono, giocando a danzare,
proietta ricordi sfiniti di vecchi bambini,
colpendo implacabile il tetto di lunghi vagoni,
destando annoiato interesse negli occhi di un gatto,
coprendo col proprio scrosciare lo spacco dei tuoni
che restano appesi un momento nel cielo distratto.
E l' acqua passa e gira e colora e poi stinge, cos'è che mi respinge e che m' attira;
acqua come sudore, acqua fetida e chiara, amara senza gusto né colore.
Ma l' acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest' aria bassa,
ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente...
E mormora e urla, sussurra, ti parla, ti schianta,
evapora in nuvole cupe rigonfie di nero
e cade e rimbalza e si muta in persona od in pianta
diventa di terra, di vento, di sangue e pensiero.
Ma a volte vorresti mangiarla o sentirtici dentro,
un sasso che l' apre, che affonda, sparisce e non sente,
vorresti scavarla, afferrarla, lo senti che è il centro
di questo ingranaggio continuo, confuso e vivente.
Acque del mondo intorno di pozzanghere e pianto, di me che canto al limite del giorno,
tra il buio e la paura del tempo e del destino freddo assassino della notte scura.
Ma l' acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest' aria bassa,
ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente...
Colgo al balzo il tuo interessantissimo tema Grazia per inserire questa bellissima canzone di Guccini, contenuta nell’album “Parnassius Guccinii” del 1993.
Per rispettare il tuo topic rimanderei altrove l’analisi del significato del testo e vorrei concentrarmi proprio sulla capacità dell’acqua di produrre suono. La canzone di Guccini è una specie di inno all’acqua, così il cantautore sapientemente accompagna lo “srotolamento semantico” del testo con elementi assonanti e caratteristiche metriche che portano la mente al rumore dell’acqua che scorre.
Per quello che riguarda una tendenza allitterativa si tende a ripetere consonanti sibilanti come la “s” o liquide, sia laterali “l” che vibranti “r”:
“o se c'è nel suo correre un segno od un suo filo rosso
che leghi un qualcosa a qualcosa, un pensiero a un riflesso
[…]
E cade su me che la prendo e la sento filtrare,
leggera infeltrisce i vestiti e intristisce i giardini”.
Per quello che riguarda le rime la situazione è davvero emblematica con la prima quartina che presenta rime alternate di consonanti liquide e la seconda che presenta un unico tipo di rima con la “s”, geminata ed espressiva più che mai. Sommariamente si può affermare che questi elementi si ripetono (tranne naturalmente le rime) lungo tutto il corso del testo della canzone.
Ma il grande pezzo di bravura di Guccini in questa canzone è rappresentato dall’impostazione metrica del verso usato. Il verso è un ipermetro, sostanzialmente di quindici sillabe che sembrano scorrere veloci proprio come lo scrosciare dell’acqua. All’inizio troviamo quasi sempre un giambo (atona-tonica) ma poi il verso assume un andamento anapestico (l’anapesto nella terminologia metrica classica, riportata all’italiano, consta di due sillabe atone ed una tonica) che rende bene la mobilità dell’acqua e dell’onda, che dopo aver silenziosamente “corso nel mare” (le due atone) sbatte sulla riva o sullo scoglio (ecco la tonica dell’anapesto) e attraverso questi “traumi” (in un verso di quindici sillabe di questo tipo ci sono un giambo e quattro anapesti, anche se l’ultimo anapesto è di quattro sillabe in virtù della parola piana in rima, dunque cinque toniche, cinque “traumi”), che musicalmente potremmo riconoscere come due battute in levare ed una in battere, la resa del rumore dell’acqua è assoluta.
Come esempio si può prendere un verso qualsiasi di questa canzone e smontarlo nei suoi elementi tonici. Prendiamo il secondo verso (il primo rappresenta una eccezione perché all’inizio non si ha un giambo ma il verso parte subito con un accento sulla prima sillaba – L’àcqua):
tra RA - tti sa PIE - ntie pneu MA – ti cie RUG – gi nee VE tri
o il verso forse più assonantizzante:
leg GE - ra infel TRI - scei ve STI – tiein tri STI - scei gia RDI ni
Questo ritmo trisillabico (anapesto in questo caso come detto) deriva direttamente (come già scritto nella mia analisi dei testi di Palazzeschi presenti qui su concertodisogni) dalla strofe lunga dannunziana, presente nella poesia “L’onda”, dove alla fine si cita anche l’importanza di questo verso per l’effetto ritmico e melodico generato sulla modalità trisillabica (a volte anche quadrisillabica).
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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c'è se mai nessuno l'ha veduto