detective Hayes
Curatore
Italy
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Inserito - 01/01/2004 : 23:47:09
New York, Una domenica di marzo Sola. Era rimasta sola. Sola in quella cantina sudicia. Ad aspettare. Ma ciò che le aspettava non osava immaginarlo. Il tempo passava. La pioggia aveva smesso di picchiettare sulla vetrata da qualche ora e l’oscurità aveva inghiottito la città lontana. Quella stessa città che pareva non essersi accorta di ciò che stava succedendo. Era calato un silenzio irreale, come quando, alla fine di uno spettacolo, il teatro si svuota e al vocio degli spettatori si sostituisce l’oblio. L’odore di polvere umida e muffa cominciavano a darle la nausea, riempendole le narici, fino al cervello. La testa le scoppiava. Anche gli occhi, gonfi per il tanto piangere, parevano voler esplodere. Era rimasta chiusa lì sotto l’intera notte e l’intero giorno e nessu-no l’aveva sentita. Nessuno poteva sentirla, lontana com’era dalla realtà. La speranza di uscire cominciava ad affievolirsi. In quel momento desiderava solo morire. Per non soffrire più. Lo stridere di pneumatici sull’asfalto bagnato le mozzarono il fiato. Il ba-gliore dei fari di un’auto illuminò la sua prigione per qualche secondo. L’auto si fermò e lei cercò di urlare più forte che potesse per farsi sentire. Non ottenne alcun risultato. Il silenzio tornò a circondarla. Si rese conto di non sentire più i passi del suo carceriere. Forse sull’auto c’era lui e si era allontanato lasciandola chiusa lì, da sola. Si lasciò scivolare su un fianco, trascinandosi nel buio. Una grossa corda grezza le teneva le mani legate dietro la schiena. Aveva provato a scioglierla, ma non era riuscita nemmeno ad allentarla un po’. Ormai non sentiva più le mani. Strisciò per qualche metro, prima di andare a sbattere con quello che sembrava un tavolo da lavoro. Cadde qualcosa. Non era sicura di cosa fosse, ma di certo era freddo, forse di metallo. Decise che era giunto il momento per provare a liberarsi. Strofinò i polsi con forza contro quell’oggetto, procurandosi delle lace-razioni. Ma non sentiva dolore. Ormai tutto il corpo era indolenzito ed insensibile. Lentamente riuscì a tagliare quelle dannate corde, mentre il fiato cominciava a farsi pesante per lo sforzo e la paura di essere scoperta. Le gambe intorpidite res-sero il suo corpo a fatica, mentre cercava una via d’uscita. Ritrovò la scala dalla quale il suo aguzzino era sceso diverse volte, per andare a controllarla. Ormai erano diverse ore che non si faceva vedere. A tentoni salì le scale, un gradino dopo l’altro. Tratteneva il respiro ad ogni passo, ogni volta che uno scalino scricchiolava sotto il suo peso. La porta era lì, a qualche passo da lei. La raggiunse e rimase in attesa, immobile, tendendo l’orecchio. Non si sentiva niente, tranne il fruscio della notte. La porta si spalancò sotto una leggera pressione della mano, producendo un flebile cigolio. L’odore stantio di cibi in scatola e quello dolciastro della birra la investirono. Gli occhi, per troppo tempo rimasti nell’oscurità, faticarono ad abituarsi. La porta che dava sul retro era bloccata con una spranga e un lucchetto. Pensò di scappare dalla finestra della cucina, ma vi rinunciò non appena vide che era poco più grande dell’oblò di un aereo. Rimase qualche altro minuto della stanza, col cuore che batteva forte nel petto e che sussultava ad ogni scricchiolio. Concluse che l’unica via d’uscita doveva essere la porta principale. Tenendosi aderente allo stipite, sbirciò sul resto dell’appartamento. Sul disimpegno si aprivano tre porte, da una delle quali si intravedeva il bagliore di un televisore acceso. Adocchiò l’uscita. Ma questo significava passare davanti alla stanza col il televisore. Racimolò ogni granello di coraggio e, pregando di non essere sentita, uscì nel disimpegno. L’aria era fredda, immobile. Fece pochi passi prima di sentire uno soffio caldo sui capelli e mentre il terrore le attanagliava il cuore e qualcosa le stringeva il collo. Un sorriso, Titty
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