Renato Attolini
Senatore
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Inserito - 28/01/2004 : 20:59:12
GLI OCCHI DI ELEONORA.Mi chiamo Marisol, ho poco più di trent’anni e sono sudamericana, peruviana per la precisione. Il mio lavoro è assistente domiciliare, che nel linguaggio comune è più conosciuto come “badante” e lo pratico da quando sono arrivata in Italia, ormai molti anni fa. Ho prestato servizio presso alcune famiglie e ho conosciuto quindi diverse persone bisognose di cura, ma ce n’è stata una in particolare che mai più dimenticherò e che ricorderò tutta la vita. Si chiamava Eleonora e la conobbi grazie alla segnalazione di una signora italiana che aveva saputo, tramite suoi conoscenti, che la famiglia di lei stava cercando una persona che l’accudisse. Mi presentai così nella sua casa, un giorno, accompagnata dalla signora che mi aveva informato. Ero come sempre emozionata, ma la mia agitazione crebbe quando vidi la splendida villa dove viveva, nella parte alta della provincia di Varese, e soprattutto quando mi ritrovai di fronte ad Eleonora. Era una vecchietta minuta, magra, seduta su una carrozzella, con dei capelli bianchissimi, vestita in modo più che dignitoso. Non disse una parola, seppi più tardi che evitava di parlare perché faceva moltissima fatica, ma quello che mi colpì di lei fu “su mirada”, il suo sguardo, i suoi occhi, azzurri, stupendi ma gelidi. Imparai col tempo che Eleonora esprimeva i suoi sentimenti attraverso essi. In quel momento mi fissavano con aperta ostilità e nonostante fossimo in piena estate mi sentii pervadere da un brivido freddo lungo la schiena. Distolsi il mio di sguardo e mi concentrai su quello che mi stavano dicendo i suoi due figli, con modi affabili, cortesi ma formali, su quali erano i miei compiti, le mie incombenze, infarcendo il tutto di pressanti raccomandazioni. Mi mostrarono la mia cameretta e là mi rifugiai, seguita dallo sguardo di Eleonora che non vedevo, ma sentivo sul mio corpo. Da quel giorno cominciò la mia nuova vita ed il mio nuovo lavoro che non era particolarmente pesante in quanto Eleonora, pur non essendo autosufficiente nella maniera più assoluta, lasciava che badassi a lei con molta tranquillità. Quello che proprio non sopportavo era il modo con cui mi guardava. Quegli occhi taglienti come lame, mi fissavano tutto il giorno e diventavano di fuoco quando si trovava nella sua camera ed io entravo per sistemarla. Mi faceva chiaramente capire che quello era il suo regno, che io ero un’intrusa. In quella stanza spiccavano alle pareti vecchie fotografie che ritraevano una bellissima fanciulla a cavallo o in tenuta da tennis, mentre coppe più o meno piccole e trofei vari troneggiavano sui mobili. In un angolo una vecchia racchetta che aveva conosciuto tempi migliori, giaceva abbandonata. Io cercavo di restarci il minor tempo possibile, proprio per non invadere il suo mondo, fatto di tanti ricordi, che però volevo conoscere. La mia curiosità fu appagata da una signora molto anziana, Angela, che la veniva spesso a trovare ed era stata per lunghissimo tempo la governante di quella famiglia. Aveva visto nascere i due figli di Eleonora. Luigi e Simona, li aveva visti crescere, studiare e diventare quello che erano adesso, lui un brillante consulente finanziario, lei socia di un affermato studio legale, entrambi sposati con famiglia e casa a Milano. Da come Eleonora guardava Angela, si capiva che le era molto affezionata e che quelle visite le facevano piacere. I suoi occhi, sempre duri con me, si addolcivano e s’inumidivano di lacrime. Io guardavo quelle due vecchiette che restavano mute, le loro mani unite in una stretta solidale, così per ore e non potevo fare a meno di commuovermi. Viceversa quando la domenica, a turno, venivano i figli, sempre da soli e mai con la rispettiva famiglia che evidentemente aveva cose migliori da fare, gli occhi di Eleonora erano stanchi, tristi. Capiva, la poveretta, che quelle visite erano dettate solo dal dovere, non dall’affetto e quando ascoltava i loro discorsi, sempre banali e ripetitivi, sembrava completamente assente e distratta. Mi faceva veramente pena e nonostante non le andassi a genio, cominciavo ad affezionarmi a lei. Come dicevo prima, un giorno davanti ad una fumante tazza di tè, Angela mi raccontò la storia di Eleonora. In gioventù era stata una delle più belle ragazze di quei posti ed aveva fatto girare la testa a un gran numero di giovanotti, tutti pretendenti alla sua mano. Figlia di gente facoltosa aveva frequentato il bel mondo, circoli esclusivi dove si praticava il golf, il tennis e l’equitazione, cimentandosi in quegli sport con abilità e destrezza ed ottenendo un successo dietro l’altro, di cui i trofei che erano nella sua stanza n’erano la testimonianza. Bella, ricca, sportiva e simpatica, non le mancava proprio nulla. Incontrò Alfredo, l’uomo della sua vita, un aitante e bellissimo giovane industriale che convolò con lei, come si dice, a giuste nozze. La festa di matrimonio con invitati importanti e famosi ebbe una risonanza che andò bel oltre il confine di quelle terre. Quando poi nacquero i due ragazzi, la sua felicità raggiunse il culmine. E fu così ancora per parecchi anni. Il destino, però, aveva in serbo qualcosa di ben diverso per lei. Eleonora aveva sempre continuato a praticare sport, nonostante gli impegni che le dava la famiglia, ed a maggior ragione quando i figli si erano ormai sistemati. Un giorno mentre galoppava, capelli al vento, nei boschi della zona, il suo cavallo per una misteriosa ragione che nessuno seppe mai, s’impennò disarcionandola. La caduta fu terribile ma ancora di più la conseguenza: lesione alla spina dorsale. Eleonora sarebbe rimasta paralizzata per il resto della sua vita. Lo stesso incidente che capitò a Christopher Reeve, l’attore che interpretò “Superman” al cinema, con la differenza che questi, aiutato dall’assoluta e amorevole dedizione della moglie, ritrovò la voglia di vivere. Per Eleonora le cose non andarono esattamente nello stesso modo. Subito dopo la disgrazia fu una processione continua di amici e conoscenti che la venivano a trovare colmandola di ogni attenzione. Poi piano piano, tutti, eccetto la fedele Angela che sempre le stette vicino, si dimenticarono di lei. Suo marito Alfredo, per qualche tempo le fu accanto con amore e devozione, poi s’allontanò anche lui. Con la scusa dei viaggi d’affari si faceva vedere sempre più raramente fino a quando un giorno, prima di partire per l’ennesimo viaggio, le lasciò una lettera d’addio, chiedendole perdono. Quando la trovò e la lesse fu, per lei, il tracollo definitivo. Le sue condizioni precipitarono, peggiorando sensibilmente e si ridusse in uno stato uguale a quello in cui io la trovai. Per parecchio tempo Angela l’accudì, ma poi divento vecchia anche lei e non se la sentì più di proseguire, Fu così che entrai in gioco io che in pratica ero la sua sostituta e questo spiegava, perlomeno in parte, la diffidenza di Eleonora nei miei confronti. Terminato il racconto di Angela rimasi per non so quanto tempo, senza parole. Ero semplicemente sconvolta. L’affetto che cominciavo a sentire per lei, crebbe di misura e m’importava poco che non fosse ricambiato. Ci misi ancora più impegno e cura nel mio lavoro. Lei se n’accorse o così pensai io perché il suo sguardo mi sembrava meno ostile o forse era solo una mia impressione. La portavo tutti i giorni a spasso per il paese e gli abitanti quando la vedevano la salutavano cordialmente ma a me parevano tutti ipocriti e quei falsi salamelecchi mi davano decisamente fastidio. Una volta un tizio la salutò con la classica frase: ”Buongiorno signora Eleonora, come va oggi?”. Non resistetti ed a mezza voce sibilai: “Come vuoi che vada, in carrozzella no?” finendo con un “Imbecille!” e scuotendo rabbiosamente la testa. Non so se quello là mi abbia sentito o no ma la mia preoccupazione era che mi avesse sentito Eleonora, cosa d’altronde assai probabile. Mi vergognai della mia reazione e mi avvicinai a lei con trepidazione per guardarla, sicura d’incontrare un feroce sguardo di disapprovazione. Il messaggio che mi trasmisero i suoi occhi mi lasciò sorpresa. Era decisamente divertita. Fui assolutamente certa che se avesse potuto, sarebbe scoppiata a ridere. In quegli occhi azzurri come il cielo era scomparsa ogni traccia d’ostilità e il germe di un sentimento nuovo, bello come può esserlo l’amicizia, cominciava a sbocciare in lei. Fu l’inizio di un periodo molto sereno. Il lavoro non mi pesava per nulla ed Eleonora adesso si mostrava contenta nel vedermi e lasciarsi accudire. La vedevo più tranquilla rispetto a prima, soprattutto quando dovevo portarla in ospedale per le visite di controllo o quando, qualche volta, veniva a trovarci l’assistente sociale per sincerarsi che non vi fossero problemi. Spesso rimanevamo nella sua stanza, non più “vietata” a me, per ore a guardare le fotografie e le coppe. Lei non poteva parlare ma i suoi occhi mi raccontavano tutto del suo passato, i cui fantasmi, m’immaginavo, ancora la tormentavano, delle sue partite a tennis, a golf, delle sue vittorie. Io invece le raccontavo del mio bellissimo paese, del suo mare, delle montagne, delle verdissime vallate, dell’antichissima storia del suo popolo glorioso, sterminato ed assoggettato dai conquistatori spagnoli. Le parlavo della mia gente, poverissima ma sempre con la gioia di vivere nel cuore, con la voglia di ridere, ballare e divertirsi. Lei annuiva con impercettibili cenni del capo e s’intuiva che mi stesse ascoltando con molta attenzione. Quando la confidenza fra noi fu totale, mi permisi di farle ascoltare delle cassette registrate con la musica del mio paese che fino ad allora non avevo avuto il coraggio nemmeno di prendere in mano, ponendomi a ballare davanti a lei. Il suo sguardo luminoso e il suo sorriso tirato ma sincero, mi dicevano da un lato che le faceva piacere, dall’altro che avrebbe dato chissà che cosa per muoversi insieme a me. Ritenni opportuno quantomeno smettere di ballare per non aumentare il suo senso di frustrazione. Non so quanto tempo passò, davvero non saprei precisarlo. Eravamo diventate proprio amiche e quando veniva Angela a trovarci, la casa sprizzava serenità da ogni angolo. Un giorno la vecchia governante, mi commosse abbracciandomi e dicendomi: “Grazie figliola!” Nella mia lingua c’è un detto che recita così: “ Los momentos bonitos son cortos.”, i momenti belli sono brevi. Non so se effettivamente lo furono, ma a me a distanza di anni, così mi sembrarono. Arrivò dunque quella fatidica mattina in cui entrai nella stanza di Eleonora per svegliarla. La trovai immobile a letto con gli occhi aperti. In quell’attimo mi sembrarono più azzurri e più belli che mai. Vi lessi un augurio: “Buona Fortuna!”. Dopo di che con un lieve gesto della mano glieli chiusi, mi chinai su di lei e la baciai sulla fronte. La sera stessa lasciai quella casa per non tornarci mai più. Ancora oggi, passato molto tempo, quando vedo una persona su una carrozzella sento un tuffo al cuore e un grido mi esce dall’anima: ”Eleonora!”. Poi mi rendo conto della mia stupidità e mi consolo pensando che dove si trova adesso è felice e serena. Certe volte, anzi, mi sembra di sentire lo sguardo protettivo dei suoi meravigliosi occhi che mi sfiora come una carezza.
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